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Prefazione a
Fiore di loto
Raffaello Pecchioli
Come e perché sia nata la poesia
di Nicoletta Corsalini che ora viene raccolta in questo volume, è tutto sommato
problema di poca importanza di fronte al risultato ottenuto. Dovremo, nel
proseguire della stesura di queste note, fare paragoni, trovare concordanze con
altra poesia di altri autori, e taluni di questi paragoni potranno apparire
azzardati. Non è compito facile il nostro, correndo tra l'altro il rischio di
vederci confutare certe supposizioni o intuizioni, che ci venga detto che esse
sono forzate o fuori luogo. La stessa definizione di "Poesia dell'amore" che per
prima si affaccia alla mente parlando dei versi di Nicoletta, può apparire
errata al lettore più smaliziato e meno incline a lasciarsi introdurre nei
meandri del suo mondo poetico. Vediamo però che nel definirsi essa stessa
"Figlia del Dio Nessuno", che potrebbe anche esere "Il Dio minore" degli esclusi
o dei diversi, c'è quel tipo di dolore amoroso riportabile addirittura al
lirismo disperato di Saffo, a quello meno nobile di una Sibilla Aleramo, a
quello chiuso e disperato della Achmatova e di tanta poesia femminile di fine
Ottocento inizio Novecento. Amore e donna, dunque, binomio che è quanto di più
accostabile possa esservi per una denuncia nei confronti di una condizione
femminile resa ancora più stratificata, nell'immutabile mondo dei sentimenti,
proprio da questa non "mutabile" forma di schivitù, intendendo – come si è fatto
per secoli – la donna quale simulacro, o ricetto, delle voglie d'amore maschili.
Nel parlare a se stessa, Nicoletta esprime bene questo concetto: si richiama ad
un rispetto per l'altro, si ammonisce ad esser brava nei confronti di chi ha
amato perché questi non ne soffra, avocando a sé – figlia del Dio Nessuno
–, la
sofferenza che viene, non solo dal dolore, ma da una condizione di
illegittimità, in quanto donna dalle incerte origini.
In due versi, tuttavia ("Non
tradirmi amore (...) Perché io sono la tua libertà"), riconosce anche il ruolo,
insostituibile per la donna, di essere comunque portatrice d'amore. Sono, questi
due versi, il primo e l'ultimo di una poesia bella e ambigua come molta della
sua ultima produzione. Ma non si pensi che l'aver posto accanto al "bello"
l'"ambiguo" debba significare per forza che l'autrice abbia taciuto, o non
detto, qualcosa che fosse utile, per chi legge, alfine di comprendere un
eventuale messaggio nascosto: tutta la poesia è un crescendo di sensazioni ma,
soprattutto, di promesse, di doni, di avvertimenti e di richiami, rivolti alla
centralità del tema amoroso; ed è una poesia completamente aperta e di una
comprensibilità disarmante. L'"ambiguo" è solo in relazione a quel dichiararsi
essa stessa "libertà" in un rapporto che, essendo di reciproca appartenenza,
difatto fa di quella libertà una chimera, un aquilone leggero libero di volare
ma di cui assicura, più materna che amante, "Non spezzerò il filo".
Spesso – quando si parla di
poesia –, si è portati a credere che il poeta sia quel fortunato mortale che,
per il fatto di saper interpretare i propri stati dell'animo e la molteplicità
dei messaggi che gli vengono da tutto ciò che lo circonda, goda di una serie di
privilegi, non ultimo quello di poter afferrare – lui solo – il senso vero della
realtà, (nella poesia sopra citata è bellamente espresso da versi come: "Lo
lascerò volare (l'aquilone); ma in cui subito dopo si precisa: "atterrerà sulla
mia isola" e: "di nuovo si rialzerà", in successioni infinite, dunque). Questo
perché – poiché la poesia, specialmente quella d'amore, è realtà trasformata –
allorché si riesca a interpretarla, a quella torniamo, ma con un vantaggio:
avendo finalmente chiaro il messaggio del reale non più solo attraverso le sue
evidenze, ma anche con l'ausilio dei simboli che poeticamente l'hanno
trasformata (L'aquilone, l'isola, il filo da non spezzare e l'avvertimento
iniziale: "non tradirmi, amore"), riusciamo finalmente a cogliere anche le parti
nascoste del vero, gli humus che prima ci erano tenacemente nascosti, ossia
anche il riconoscimento, anche questo doloroso, di una condizione precaria
dell'essere femminile, esposto al tradimento dell'amore. E' questo comunque, uno
dei normali processi della creazione poetica amorosa, che ha però un'unica
prerogativa, in sé determinante: si deve, per farlo, avere capito il nèsso che
c'è tra il mondo reale e quello immaginario, tra l'essere e il pensarsi e saper
vivere indifferentemente l'una e l'altra dimensione. I privilegi, allora,
diventano opinabili in quanto – se da una parte esistono perché più ampia e la
visione che si ha delle cose, dall'altra vengono messi in dubbio, allorché da
uno stato di quiete (il momento della non creatività), si passa a quello in cui
divenga indispensabile dare alle comuni parole assetto e musicalità di poesia.
Questo preambolo, accentrato
su "questa" poesia in particolare – ma che vale anche per tutte le altre pur con
minime variazioni –, era necessario per introdurre ad una più attenta analisi
delle liriche d'amore di Nicoletta, che proprio su questa ambivalenza di
situazioni trova i motivi del suo far poesia. E va detto subito che sarebbe
difficile, dopo averlo letto, chiudere questo libro e pensare ad altro.
Difficile perché – come abbiamo visto –, con una bravura a tratti disarmante e
senza nessun rimorso, questa donna dal viso d'adolescente, vera come lo sanno
essere sia gli angeli sia i demoni, ci ha intanto dischiuso tutto un mondo di
sensazioni legate all'amore e all'altro/a, che è, allo stesso tempo, un percorso
obbligato verso più rivelazioni, apparentemente sicuro, ma percorrendo il quale
il lettore (ed ogni lettore è un'entità ingenua), finisce però con lo smarrirsi
nel dedalo dei rivoli, nelle strade che improvvise si aprono, nel caleidoscopio
di illuminazioni che ella propone, a volte minime, ma non per questo meno
folgoranti, dove l'oggetto dell'amore può avere identità finita, ma può anche
essere idea astratta o comunque non decifrabile.
Già (dimentichiamo quel che
abbiamo intuito più sopra sul significato della libertà e del sacrificio
amoroso), il Poeta (dico poeta e non "poetessa" perché la poesia non ha sesso
distinto), ha distratto il lettore, gli si è presentato come persona stupita,
essa stessa, di ciò che ha scoperto e di ciò che è in grado di vedere dell'amore
per raccontarlo attraverso la metafora a chi, da solo, non lo potrebbe. Si
capisce però che, con questo voluto ridimensionamento, il poeta altro non fa che
porsi di fronte al lettore come l'ingenua, come la compagna di viaggio, come una
sua simile, pronta al discorrere o al parlar chiaro. Ma qui subentra qualcosa di
cui già avremmo dovuto averne sospetto in quella dichiarazione dell'esser lei
figlia del Dio Nessuno, ossia la ribellione, il rifiuto del sacrificio per sé
che sia solo fine a se stesso. Si capisce allora che si è trattato di un trucco
messo in atto dall'autrice per coinvolgere il proprio lettore, poco a poco, in
un gioco di uguali e di contrari, di dare e avere, in cui il verso, per primo, è
il metronomo il cui compito sia quello di bilanciare le tante diversità per
renderle infine assimilabili, e complici tra loro, perché comunque il dialogo
d'amore possa proseguire.
Forse proprio per questo
quello poetico di Nicoletta è anche un mondo in cui non esiste più disincanto
(altro che facile verseggiare), dove il sogno (si veda ad esempio, "Vampiro
sagace"), finisce col non essere più specchio alla tenerezza d'amore, bensì
all'incubo, favola dai colori forti, in cui i contraltari del normale
avvicendarsi dei sentimenti possono essere, di volta in volta, il "sagace
vampiro", appunto, o la "selvaggia savana", aspetti inquietanti, tuttavia, di
lei "angelo" dalle ali di cera che avvolge e carezza per fugare lo sgomento che
ha saputo creare, di colpo non più angelo, ma leonessa, forse ferita da quel
"tradimento" di cui aveva chiesto, quasi per esorcizzarne le negative
conseguenze, non venisse messo in atto contro di lei.
E' dunque anche dal sogno,
dalle reminiscenze (ma è pura ipotesi), di un'infanzia non appieno vissuta se
non – addirittura –, dai ricordi di una vita precedente, che Nicoletta attinge,
non sempre commuovendosi, le linee su cui mettere le parole nella forma della
poesia. Il processo di costruzione avviene pertanto quasi per logica successione
di istanti, ognuno dei quali dovrà servire a liberare nel risultato finale il
grido o l'ammonimento, la constatazione del già vissuto o la comprovata
impossibilità – accanto alla lusinga quasi saffiana della sua "isola" quale
rifugio unico – di riavere quanto si è irrimediabilmente perduto.
Nei tanti temi di una poesia
di solo amore come questa, di per sé intesa anche con un certo dolore, dunque
come verità rivelata e poi come dogma, il riaffiorare ossessivo di sensazioni di
cose passate – non cose materialmente identificabili, però –, è dunque
condizione altrettanto primaria che il presente perché, di fatto, essa possa
essere. Ed è per questo che nelle sue strutture vi sono sprazzi di luce o di
ombre, di disagi e di paure, ma anche gli "imput" per irrefrenabili voglie di
fuga verso un ignoto qualsiasi, verso la possibilità, si direbbe, di vivere
coscientemente una morte al di là della propria isola, dove, almeno per un
attimo, potersi perdere, più una "dissociazione" dal reale, però, che non sia
solo morte, ma anche segno di rigenerazione dove l'amore, finalmente ritrovato,
possa essere vissuto appieno e con totalità. Quasi che una vita "altra" sia
presente, ma nascosta, nel poeta di oggi, nel suo intimo più recondito e da
quello riaffiori quando l'urgenza dello scrivere versi, la voglia di scolpire
parole e aggettivi, sia forte e irramandabile.
E' in questo momento di
avvenuta possessione che l'altra vita, quella nascosta, impone la sua forza
dominatrice, detta schemi, suggerisce versi di una semplicità disarmante eppure,
fascino a parte, duri come stiletti. E' l'amore ripensato, l'amore forse
strappato, l'amore non pienamente goduto che torna, con le sue lusinghe, a
chiedere di essere ripreso e fatto rivivere. Perché è, questa che impone le sue
logiche, una vita resa selvaggia da un antico trauma; si compiace, nella sua
nuova dimensione di "Entità libera" di gusti e di appetiti, di amore tutto al
femminile o, al contrario, di un altro aperto al diverso da sé, rivolto cioè ad
un uomo che però non ha volto, in quanto concepito come entità e, come tale,
avvertito solo come possibile presenza: stato di quasi ineffabile abbandono,
questo del poeta, in cui la consapevolezza di non poter mai vivere
coscientemente quel tipo d'amore, evoca la morte che però non gioca il ruolo
scomodo, come si è visto, di una distruzione del male portato dalla vita, ma
quello essenziale di un rifugio momentaneo dalla mediocrità del vivere, e
perciò scappatoia per dare spazio al bisogno di immenso a cui – stante la
pochezza di chi le corrisponde – potrà confidare cosa davvero significhino le
"selvagge" savane delle sue intimità.
L'altro aspetto che dà a questa poesia un fascino quasi
inquieto è però il "chi" o il quale a cui l'autore rivolge i suoi versi: quel
"tu" che pare rivolto a tutti e a nessuno, deve pur significare qualcosa, deve
pure configurare un'esistenza, un riferimento o un "totem". E il dubbio è che
si tratti, di volta in volta, o della poesia o dell'altra se stessa, quella
capace di dare vita cosciente ai sogni d'amore e di viverli per raccontarli
durante lunghi attimi che possono essere di estraneamento o di dolore, ma anche
di totale e partecipe presenza. E' fatto non secondario, questo, che le fa dire:
"fusa dalla tua fiamma | ti avvolgo nelle mie ali", e siamo nuovamente alla
promessa, al patto d'amore che l'autrice pretende dall'altro quasi senza
verificare che una corrispondenza, vera, ci sia. In fondo è la consapevolezza di
un amore fortissimo – il suo – ad autorizzarla a fare dell'altro, oltre che il
fine dei propri versi, lo specchio di se stessa, il punto di arrivo della sua
poesia.
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autore |
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