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Prefazione a
Ad lucem, per undas

Sandro Montalto

La poesia è un amore radicato e di vecchia data per Lucia Gaddo Zanovello, e ormai di lungo corso è la sua navigazione nei territori della poesia pubblicata: data infatti 1978 l'uscita della sua prima raccolta Porto antico, seguita da numerose pubblicazioni talvolta uscite a stretto giro. Una esperienza sintetizzata nel 1998 con la raccolta retrospettiva in cinque volumi Néstoi, sulla base della quale (ossia sulla cui meditazione di stili e temi) nascono le ultime raccolte.

E necessario citare l'uscita di Nóstoi che rappresenta una sorta di spartiacque nella produzione di questa autrice: uno studio delle scelte autoantologiche direbbe molto circa ciò che di nuovo germogliava nella sensibilità poetica, e che fiorisce nelle raccolte successive. Si registra infatti un precisarsi della musicalità, prima gradevole ma forse troppo varia, tanto da risultare combattuta fra troppe istanze; si registra anche un migliore inquadramento del lessico, che porta con sé un accentuarsi e soprattutto calibrarsi degli espedienti fonosimbolici, retorici, ecc. Dal punto di vista tematico si registra, e ciò è molto significativo, un minore pudore (che spesso è piuttosto un falso pudore coatto, un temere i sentimenti e le emozioni) nel palesare le tematiche di fondo, soprattutto amorose. La Gaddo trova da Néstoi in poi la giusta chiave per esprimere con la necessaria dignità e coerenza questioni così profonde da essere state finora tenute in sordina, in attesa di un panorama linguistico capace di affrontarle senza svilirle. Infine è palese anche una maggiore attenzione all'organizzazione del volume, all'idea di libro come raccolta coesa di testi a loro volta densi e coerenti (già nella raccolta La partitura l'autrice sperimenta la soluzione ungarettiana di considerare il titolo della poesia anche come primo verso). Probabilmente la raccolta che più si avvicina in questi sensi a Ad lucem, per undas è Memodìa.

Sia ben chiaro: la poesia della Gaddo continua ad essere nutrita da diverse fonti filosofiche, emozionali, razionali, nelle loro diramazioni amorose, civili, ecologiche ed ecosofiche, didattiche, etiche, così come il metro e il suono di questa poesia continua ad essere fluttuante e mai statico. Solo che ora il tutto gira evidentemente attorno ad alcuni centri gravitazionali decisi come fondamentali e mai abbandonati, dai quali si irradiano soluzioni etiche ed estetiche mature.

Allitterazioni, rime, calchi, latinismi, preziosismi, rafforzativi e tutto un susseguente armamentario formano il bagaglio retorico del quale l'autrice si serve con grazia e parsimonia, nei punti necessari (verrebbe da dire "nei punti giusti", se questo non suggerisse una idea di poesia a tavolino senz'altro da fugare). E anche i testi in cui simili accorgimenti abbondano non risultano mai appesantiti grazie alla musicalità spontanea che essi acuiscono: basti l'esempio della poesia d'esordio, la quale come spesso avviene organizza il tutto per inserire il vero punto chiave del libro, ossia le efficacissime e fondamentali sinestesie: «bagliore acuto del fragore | che dal tuono oscuro | lucido silenzio ridistilla [...]»; momento a sua volta fatto reagire con la splendida riscrittura di Gozzano: «murmure d'esistere giocondo».

Un elenco delle sinestesie deliziose in questo libro sarebbe piacevole: basti quello nella seguente, memorabile terzina: «occhi di tufo spugnano ogni luce | un larvare cieco di parossismi svuota la vita | a gole ardenti di fratelli».

Proprio le continue spaccature della crosta, che rivelano la passionalità sottesa, rendono significanti i passaggi più simili a graffiti, oppure a partiture di rumore bianco, un linguaggio privo di armonici pensato per evitare che il giudizio sia falsato (e il messaggio interferito) da residui gnomici e abbassamenti tonali di comodo.

Mai esibito ma importante è infine il rapporto con il sacro. Alcuni versi di Solargento dicevano: «Scora, talora, il salmo della fede | e nube chiude di livore | il raggio abbraccio al sole alto | sulle deluse notti»; dicono in ideale colloquio alcuni versi di Il sonno delle viole: «Di alati, ebbri madrigali, | seròtine d'amore rifrazioni | hai ammantato l'occhio | affilato e vuoto, | ora, al microscopio del dolore | sei referto di livore». Insomma fede ed osservazione portano ugualmente al dolore, e a certi risvolti incontrollabili di livore, non coltivati ma nemmeno ipocritamente taciuti. In Ad lucem, per undas (titolo che peraltro non può non ricordare Per aspera, ad astra) l'autrice torna a un concetto di viaggio esistenziale e anche a pulsioni ultraterrene e mistiche-mitiche: «Polla sorgiva, in getto di Eternità | immergi profonda | e avis alba riemergi, a ridivenire, | l'umanità feconda». È da notare come la raccolta precedente è citata in Ad lucem, per undas proprio laddove si riflette sull'esistenza e il transeunte: «e c'è da attendere e da sorprendersi | da vanire e divenire | come dopo il sonno le viole | come da tergo il sole».

Due versi dalla raccolta La trilogia del volo dicono tutto circa la necessità sentita di un controllo che freni il caos (nel quale il messaggio subirebbe la più drammatica entropia) e, a un tempo, circa la consapevolezza dell'incessante mutazione dell'esistere: «Misura, alea, | all'oscilloscopio del fato». Qui molte sono le attestazioni, le quali ancora una volta sfociano in soluzioni più alte: ne è perfetto esempio il «flusso inestinguibile del Tempo» che «disargina nel mare dell'Eternità».

La vita è una cosa complessa e bellissima, si conclude, e – in un verso splendido – il palesarsi dello splendore dell'esistenza è una «corrusca esplosione di bellezza».

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