Presentazione a
Bramiti
Vittorio Vettori
Una voce dal profondo
La prima osservazione da fare davanti alla poesia di Lucia
Gaddo riguarda la sua autenticità incontestabile, la sua sorgiva freschezza, la
sua chiara qualità originaria.
Si tratta non tanto di una nuova voce quanto di una voce
nuova, o, più semplicemente, di una voce: unica, irripetibile, vera. La verità
di una voce, in poesia come nella vita (ma non è forse la poesia essa stessa
vita, sublimata e quintessenziata, divenuta stile? ), risulta direttamente
proporzionale alla verità della persona che in essa si esprime. Ho detto di
proposito verità, specchio in cui
si riflette il paese sincero
dell'anima, e non appena sincerità,
dove potrebbe anche specchiarsi un paesaggio interiore falsificato e
convenzionale.
Il problema della poesia (della vita) è pur sempre un
problema di identità. E nessuno pensi di poter dare alla propria presenza sulla
terra un significato poco o molto creativo (e quindi sostanzialmente poetico, là
dove l'azione della parola e la parola dell'azione posseggono la medesima
nobiltà e la medesima grazia) fino a quando non sia riuscito a realizzare quella
che il filosofo José Ortega y Gasset amava chiamare «la coincidenza dell'uomo
con se stesso».
Lucia Gaddo è arrivata abbastanza presto a un esito così
infrequente e così necessario per chiunque voglia legittimamente derivare il
proprio «mestiere di scrivere» dal proprio «mestiere di vivere» e non dal
mestiere di scrivere e di vivere altrui. Ogni lettore, a cui non faccia difetto
quella «virtù d'ascolto» che appare tecnicamente indispensabile davanti a
qualsiasi voce poetica, sarà disposto a dargliene atto.
Né possiamo escludere che, trasformando l'ascolto attento e
sensibile in auscultazione severa, si arriverebbe a registrare in queste liriche
di Lucia Gaddo più di una caduta di ritmo, più di una soluzione audace, più di
una concessione alla mimica pietrificata e alla stilizzazione retorica dei
sentimenti.
E con questo? L'essenziale è che le inevitabili imprudenze di
una poesia anche anagraficamente giovane non infirmino i tratti fondamentali di
quell'altra giovinezza senza tempo e perciò senza fine che si vorrebbe definire
come una forza preziosa della quale gli uomini possono valersi a tutte le età,
anche da giovani.
Nella verità della poesia di Lucia Gaddo questa seconda
giovinezza esiste ed è vera, senza che i riflessi passionali o cerebrali
dell'altra e meno valida giovinezza siano minimamente in grado di attenuarne il
calore e di offuscarne la luce.
Se poi la poesia di Lucia Gaddo sia o non sia da assegnare
alla categoria (non tanto storica quanto aridamente cronachistica) del
«riflusso», è una questione nemmeno da porsi data la strettissima parentela che
lega «flusso» e «riflusso» sul piano della stessa non-coincidenza dell'uomo con
se stesso. A proposito di questa poesia, si dovrà parlare semmai di «recupero» e
di «rivalutazione»: recupero dei valori che fanno uomo l'uomo, rivalutazione di
quella dimensione profonda dell'Essere dove l'umiliazione dell'io coincide quasi
per miracolo con la sua gloria, nella riscoperta improvvisa di Dio e
nell'apertura altrettanto improvvisa verso una socialità («societas in interiore
homine»), fondata esclusivamente sull'amore e conseguentemente sottratta a
qualsiasi ipoteca ideologica sempre riduttiva e discriminante.
Ecco dunque da dove nasce la voce poetica di Lucia Gaddo:
nasce dal profondo, e da questa nascita nel profondo trae coerentemente le
inflessioni, le vibrazioni, le iridescenze, che la rendono in modo inequivoco
nuova viva vera, come si è già detto in principio. Una controprova a carattere
comparativo, ora che il presente discorso preliminare si avvia al proprio
termine, la si potrebbe avere paragonando stilisticamente e tematicamente queste
liriche di Lucia Gaddo con le liriche del celebre «brigatista pentito» Carlo
Fioroni pubblicate su Tuttolibr» in data 12 gennaio 1980.
Con Fioroni siamo davvero, pur senza voler contestare il
valore morale delle buone intenzioni e delle coraggiose denunce, in pieno
«riflusso», nel breve orizzonte di una squallida spiaggia dove le onde che si
allontanano sono qualitativamente identiche a quelle che si avvicinano e
viceversa. Voglio dire, fuori di metafora, che un filo di fragilità, se non
addirittura di inconsistenza, collega in Fioroni gli slogans velleitari del
guerrigliero col linguaggio tremendamente scolastico e con le risapute
perorazioni recriminazioni lamentazioni del poeta carcerato.
Ben diverso il cammino percorso da Lucia Gaddo, magari
all'insegna del rischio, ma nello stesso tempo con un'energia di scavo a dir
poco straordinaria: un cammino prevalentemente verticale, capace di unificare i
momenti non di rado discontinui della scrittura poetica in un quadro ideale
limpido e saldo, generato in solare armonia dal sentimento insieme gioioso e
sofferto di una ritrovata norma assoluta del vivere e del convivere, a partire
da quella che il grandissimo don Lisander, autore del celebre romanzetto dove si
parla di promessi sposi, chiamava con giusta solennità «la sapienza dell'amore
materno».
Ha scritto Ernst Bernhard in un punto della sua splendida
Mitobiografia: «Gesù ritorna come vincitore. Questa è la seconda fase
dell'èra incominciata con Gesù. Qui anche la Grande Madre deve trovare il suo
posto».
Se questo è vero (e lo è), allora i versi di Lucia Gaddo
dovranno essere ricordati domani anche come segno dei tempi, perché in essi,
accanto al «puer aeternus», eterno Vincitore, riaffiora, altrettanto vittorioso,
l'archètipo della Madre.
Marzo 1980
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