La prefazione a
Il dolore e la luce. Via Crucis dei perdenti
mons. Paolo Urso
Vescovo di Ragusa
«Tra i pii esercizi con cui i fedeli
venerano la Passione del Signore pochi sono tanto amati quanto la Via Crucis”;
ne sono una chiara testimonianza “le innumerevoli Via Crucis erette nelle
chiese, nei santuari, nei chiostri e anche all’aperto, in campagna o lungo la
salita di una collina, alla quale le varie stazioni conferiscono una fisionomia
suggestiva» (Direttorio su pietà popolare e liturgia, 17.12.2001, n. 131).
Biblisti, teologi e poeti, preti e
laici, spontaneamente o su richiesta, ne hanno elaborato i testi per accompagnare il “cammino della croce” di singoli e di comunità, per suscitare
riflessioni, preghiere e cambiamenti di vita.
Anche Emanuele Giudice ha sentito il
fascino che si sprigiona dal dramma di amore di Gesù di Nazareth, il Dio fatto
uomo, che nonostante i rifiuti e i tradimenti non si arrende e fa breccia nel
cuore degli uomini.
Alla “sua” Via Crucis ha messo come
titolo Il dolore e la luce e, con una chiara evocazione di un testo di don
Primo Mazzolari, ha aggiunto come sottotitolo “Via Crucis dei poveri”.
Le meditazioni poetiche si muovono
tra questi due poli: il dolore e la luce. La povertà non riguarda solo i beni
materiali, ma viene assunta nel suo significato più ampio e si riferisce a
qualunque forma di privazione di beni fondamentali.
Cristo, l’uomo attaccato alla croce e
che il terzo giorno risorge, è la luce che illumina il dolore umano, è la
presenza di Dio capace di riempire la voragine scavata dalla sofferenza.
Viene da pensare ad Ungaretti,
investito dalla bufera di tragedie varie tra le quali anche la morte del figlio,
nella struggente invocazione al Santo che soffre:
Cristo, pensoso palpito,
Astro incarnato nell’umane tenebre,
Fratello che t’immoli
Perennemente per riedificare
Umanamente l’uomo,
Santo, santo che soffri,
Maestro e fratello e Dio che ci sai deboli,
Santo, Santo che soffri
Per liberare dalla morte i morti
E sorreggere noi infelici vivi,
d’un pianto solo mio, non piango più,
Ecco, Ti chiamo, Santo,
Santo, Santo che soffri.
I versi di Emanuele Giudice
rivelano la conoscenza delle tante e diversificate sofferenze umane ed
esprimono la sensibilità cristiana della condivisione unita alla certezza della
vicinanza di Dio. Noi cristiani sappiamo e annunciamo che Dio non è lontano, ma
si pone accanto ad ogni uomo e ad ogni donna e non li lascia mai soli. Questo ci
consola e ci dà forza!
Anche se la notte è “avara di luci e
di colori”,
Ora sappiamo
di non essere
soli
noi derelitti
spersi nei dirupi
della storia
al tetro cammino del supplizio
dove
marciscono
cadaveri di
sogni
spenti
nell’incalzare della
notte.
È vero che la terra è malata “e orfana
di passioni d’amore”, ma è altrettanto vero che l’impronta del piede di Gesù
preme su di essa
a riscattarla
dalle ignominie
che scandiscono i giorni.
L’incontro di Gesù con le donne lungo
la strada del calvario suscita quello stupore che pervade la vita e fa vibrare
il cuore, mentre lascia intravedere prospettive di salvezza:
Oh, lo stupore
ha un’ala di farfalla,
trema
sulle nebbie vaghe del
mattino,
ci invade e scuote
in estasi di colori
cangianti
mentre scopriamo
orizzonti di riscatto
nella certezza che Cristo, come
afferma l’Apocalisse (21,5), fa nuove tutte le cose:
Sei venuto a riscrivere la storia,
a declinarla al
femminile
al plurale
al molteplice,
segnandola
di sentieri mai
percorsi,
di voci e sussurri
mai uditi,
di musiche mai
suonate.
Per questo, le donne (e non solo loro)
sentono l’interiore bisogno di ringraziare:
Siamo venute
a dirti grazie Signore e
Padre
dei giusti.
Emanuele Giudice legge le “stazioni
della Via Crucis” nelle pieghe travagliate della storia, che vengono così
illuminate dalla luce della fede, creando una felice sintesi tra vangelo e vita.
Così come dovrebbe fare ogni credente in Cristo.
Ragusa, Pasqua 2008
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