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Prefazione a
Laude dell'identificazione con Maria

Mariella Bettarini

Poíesis come religio

Arsa castità, candore adolescente, cantare appassionato e cosciente paiono solennemente ed umilmente caratterizzare anche quest'operina di Maria Grazia Lenisa, che qui si presenta al lettore in vesti e accenti per certi versi piuttosto difformi da quelli cui ci aveva avvezzato in anni non remoti (diciamo da Erotica - che è del '79 - in poi); modulazioni, movenze più legate a certi climi e temi d'esordio - quelli della poesia religiosa (sia pure religiosa a suo modo, un modo da poeta, non da teologo); temi - questi ultimi - così vividamente presenti, per esempio, in un libro come L'uccello nell'inverno (del lontano 1958). Qui, però, in questo libretto (che contiene versi scritti nel dicembre '91), con minore abbandono mistico, forse, con maggiore avvedutezza, con una "nervosità" più femministica e pur sempre con la medesima levitazione e grazia, la medesima impressa, inconfondibile musica.

Poesia religiosa, dunque, per questa "classica", libera figlia (e sposa) del Mito, del dispiegato suo Canto, dell'Enigma dovizioso e corporeo, non certo sdilinquito ed ascetico (mistica, non ascetica, è la "cifra" dell'essere e del poetare dell'autrice: celeste e carnale, umana e metafisica, livida ed inazzurrata). Poesia religiosa? Certo. Poíesis pare essere veritiera religio. Possibile? Sì, appunto: in questo all'apparenza impossibile legame tra qui e chissàdove, ora e chissàquando, tra io e Altro (ma anche tra io e l'altro). Qua, dunque, anche l'infocata possibilità d'una tale identificazione (per antonomasia impossibile): quella di un poeta-donna con una Donna "più che creatura". Ma ciò nel nome (e nel segno e nella tutta immateriale grazia) d'una maternità di carne e di parola; di umanità e di poesia; dedita lei, insieme, alla parola e al suo oggetto (e non era Maria dedita al Verbo che s'era fatto carne?).

Così è ancora una volta la Parola il mezzo, il fornite (e insieme il frutto) di una identificazione forte, impossibile, solo all'apparenza ai limiti del dissacrante, del blasfemo.

Ostinata, ardita Maria Grazia, che interpelli angeli e poeti, cristi rivoluzionari e fanciulle Madonne, proclamando gerarchie e cadute, abissi e salvazioni, rinominando il mondo e l'ultramondo, argomentante, puerile, fastosa...

Così questa tua Maria ci sembra l'arcaica, attualissima, icona d'un incarnato sogno e le movenze del Cristo nero con il sassofono la turgida, disperata realtà di queste nostre vie e piazze ove (come avrebbe detto l'indimenticabile padre Balducci) il sacro si è fuso con l'umano a tal punto da non essercene più bisogno e tutto è sacro proprio nel momento in cui rifiuta di esserlo canonicamente, formalisticamente. Come in poesia: che non la si trova dove si crede (e vuole) ch'essa sia, non al centro ma ai margini, nell'altrove, là dove si è smesso di farsene vanto, di gloriarsene, la vera "gloria" essendo il tentare di farsi suoi fedeli e seguaci, non suoi padroni.

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