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Prefazione a
Eretiche grida
Vittorio Vettori
La poesia religiosa di Veniero Scarselli
Questa mia riflessione sul quinto libro di Veniero Scarselli (Eretiche
grida – Da un manoscritto rinvenuto in una grotta del Monte Athos – Nuova
Compagnia Editrice, Forlì 1993) è la premessa a un rapporto interpretativo di
lunga durata con la "presenza" emergente di questo poeta, presenza inaugurata
sei anni fa col "romanzo lirico" Isole e vele e ribadita nel 1990 con la
drammatica (o tragica) Pavana per una madre defunta e con un secondo "romanzo
lirico" (ma esso pure, in realtà drammatico o tragico) intitolato Torbidi
amorosi labirinti e splendidamente presentato da Luigi Baldacci. Per conseguire
uno scopo così ambizioso bisognerebbe operare non tanto da critici quanto da
poeti, ossia da scrittori capaci di sintonizzarsi con lo slancio creativo del
pensiero poetante. Né io francamente dispero di trovarmi prima o poi nello
"stato di grazia" necessario per dedicare all'opera eccezionale del poeta
Veniero Scarselli una sorta di controcanto dove nella prosa più nuda e più pura
possibile risalti l'eccezionalità appunto di questo Ulisse dell'anima, che
merita, insieme a pochi altri "spiriti magni" del nostro secolo sciaguratamente
disperato e corrotto, l'appellativo austero ed eroico di Entronauta. Allora, non
potrò non ricordare e non sottolineare il riflettersi, nell'invenzione
letteraria su cui si regge il presente Eretiche grida, di un'altra "grotta" e di
un altro "monte" che fanno da sfondo e da supporto all'entronautica del Poeta.
Il quale è nato e ha studiato a Firenze laureandosi, pur dopo una profonda
formazione umanistica, in Biologia, per dedicarsi alla ricerca scientifica
ottenendo una libera docenza in Fisiologia e diversi incarichi universitari;
fino a quando, per una decisione apparentemente improvvisa (ma in realtà è da
credere lungamente meditata), il Professor Scarselli lasciò spazio all'urgere
prepotente del poeta Veniero che era in lui e che richiedeva con impazienza un
nuovo habitat e un nuovo modus vivendi. Da qui la scelta dell'eremo casentinese
su una cima d'Appennino in comune di Pratovecchio, equivalente praticamente a un
privato Monte Athos, felice d'aver trovato fra le vecchie mura di un'isolata
casa colonica il proprio pensatoio, il proprio rifugio, la propria "grotta sul
monte".
Felice, dicevo. Ma fino a che punto? Nella psicologia
dell'entronauta-poeta, felicità e infelicità s'intersecano e s'intrecciano,
derivando la prima dalla forza incontenibile di una vocazione creativa riversata
a tempo pieno senza più remore o indugi nell'esercizio congiunto della
riflessione e della conseguente e coerente scrittura poematica, la seconda
invece dall'obiettiva insicurezza che in una coscienza sensibile e in un
temperamento nervoso naturalmente esposto all'ansia può determinarsi in rapporto
alla rispondenza e corrispondenza esistente tra riflessione e scrittura. Certo è
che la poesia di Scarselli ci si presenta caratterizzata da un alto potenziale
filosofico e ultrafilosofico, secondo una curva di tensione sempre più marcata a
partire dal secondo libro e cioè da Pavana per una madre defunta, mentre
l'inaugurale Isole e vele mantiene la frontale drammaticità dell'interrogazione
esistenziale entro i limiti di un pathos essenzialmente onirico e memoriale.
C' è anche da aggiungere che il passaggio dal primo al secondo libro
ubbidisce a un'accelerazione così brusca e così esasperata da lasciare nel
lettore che si fosse eventualmente affiatato coi toni e coi timbri di Isole e
vele qualche perplessità di valutazione. Giudicata invece non in linea
comparativa ma unicamente per sé stessa e in sé stessa, un'opera come Pavana
poteva giustificare senza riserve l'entusiasmo pubblicamente manifestato da
Mario Sansone, autore della motivazione qui di seguito riprodotta per il
conferimento a Scarselli di un importante premio letterario del 1991, il
S. Nicola Arcella: "Veniero Scarselli compone un libro di poesia sconvolgente
fondato sopra una rigorosa e sconsolata concezione della realtà. Muovendo da
dottrine scientistiche e materialistiche (del resto sempre ricorrenti nella
storia del pensiero) egli, oltre le cotidiane ed empiriche angosce del mondo,
cerca e scopre (anche questa, esigenza ricorrente del materialismo) l'origine
dell'Io e dell'Autocoscienza e li riconosce nella struttura stessa della Materia
vivente, come la Forma che ambisce, specie nella esigenza dell'Autocoscienza,
all'unione perfetta con la Materia, il cui compimento è la Divinità..."
Il sottotitolo di Pavana era non per niente Appunti per una storia
naturale della morte, come per significare che l'entronauta-poeta, arrivato alla
piena maturità del suo canto, aveva ormai messo a fuoco l'essenziale nucleo
tanatologico di ogni possibile meditazione sulla condizione umana. L'intensità
del confronto coi massimi problemi possedeva nel serrato impeto ritmico di
questo poema un carattere chiaramente irreversibile. Tanto vero che il ritorno
dell'Autore nel suo terzo libro Torbidi amorosi labirinti al modulo originario
del "romanzo lirico" non implicava la benché minima attenuazione di questa
frontalità così decisa e – vorremmo ripetere con Mario Sansone – così
sconvolgente. Lo stesso discorso vale per queste Eretiche grida, dove lo scavo
in profondità nella dimensione viscerale e labirintica della natura umana si
accompagna alla convinta e convincente assunzione in proprio di quel pensiero
cristiano classico, eretico per l'effimero delle mode e delle retoriche, ma
ortodosso viceversa in una prospettiva di verità eterna che fa storicamente capo
alla coscienza cosmica di Giordano Bruno, su una linea dove si ritrovano di
secolo in secolo i massimi araldi dell'anima rinascimentale italiana, da Dante a
Michelangelo, da S. Francesco a Campanella, Galileo, Vico, Rosmini, Gentile.
L'alta qualità religiosa di Eretiche grida è il risultato di un processo di
progressivo illimpidimento, così radicale da poter integrare il coraggio
dell'analisi psicologica e introspettiva con la pietà catartica della preghiera
e dell'apertura metafisica, trepidamente affidate (o forse: confidate) alla
conclusione medesima dello scritto: Fa' Dio | ch'io riesca finalmente a
inginocchiarmi | sull'umile pietra del mondo | davanti al tuo mistero | con
tutta la mia mente ignuda | come una povera pagina bianca.
Inviandomi in anteprima la stesura delle Eretiche grida, Scarselli mi
scriveva in data Marzo 1992: "Spero di aver ripulito il testo da formali
asperità e di averne migliorato l'intelligibilità. Certo, i miei sforzi di
rappresentare concetti astratti col linguaggio figurativo e immaginifico della
poesia sono quelli di un'impresa disperata. Eppure, dato che la mente umana non
può rappresentarsi le astrazioni se non raffigurandole con metafore tratte dal
mondo concreto e naturalistico, questa deve essere necessariamente la stessa
operazione mentale che fanno anche i filosofi. Credo quindi che il linguaggio
poetico possa conferire ai loro concetti una maggiore incisività, introducendovi
il colore delle emozioni. Così, anch'io spero di aver dato un po' di colore alle
enunciazioni più astratte. Sarà vero? Finora nessuno ha mai parlato di questa
mia operazione che fin da Pavana vado facendo, di esprimere l'astratto col
linguaggio figurato della poesia. L'unico ad accorgersi di questo mio sforzo è
stato Mario Sansone; ma non mi sento rassicurato sulla riuscita poetica del mio
tentativo... E' un problema che mi tormenta moltissimo: c'è ancora poesia nei
brani filosofici dei miei libri? O danno piuttosto la sensazione di una fredda e
cerebrale ricerca?"
Non ho creduto di poter rispondere direttamente alla domanda accorata
e toccante di Scarselli, nella convinzione che ognuno debba trovare la propria
vitale rassicurazione esclusivamente in sé stesso. Tuttavia, se arriverò a
scrivere un giorno o l'altro il controcanto amebeo che è giusto dedicare
all'opera straordinaria del solitario e ispirato cantore, non potrò non
riprendere l'argomento, immaginando un incontro avvenuto nella verità del sogno
(o del simbolo) su di un monte nostrano assimilabile in qualche modo al Monte
Athos (Camaldoli? La Verna? L'altura pratovecchina di Favali, dove Scarselli ha
scelto di vivere?) tra l'ombra pellegrina di Dante, esule immeritevole, e
l'anima inquieta e inquietante del nostro entronauta-poeta novecentesco. Sarà
dunque Dante in prima persona a rassicurare il poeta Veniero.
In che modo? Semplicemente, se mi è lecito congetturare, ritraendosi
in quanto Ombra davanti all'obiettiva luce del "poema sacro", dove la "gloria
della lingua" investe dall'interno e dal profondo la complessa materialità
strutturale dei contenuti, vale a dire delle opinioni e delle dottrine, dei
giudizi e dei sentimenti, trasformando i concetti in oggetti, o cose (cause), le
cause in motivi di musicale richiamo alla "Causa Prima" – altrimenti chiamata
Dio – e i ricordi che perpetuano il passato, e le speranze che anticipano
l'avvenire, in vibrazioni lucenti luminosamente ricondotte all'eterno presente
originario della Parola, del Verbo. Affrancata da ogni pesantezza come da ogni
perplessità, l'anima del nostro poeta potrà finalmente respirare sul suo Monte
Athos l'ebbrezza della solitudine insieme alla gioia diffusa della comunione,
sentendosi davvero al centro, "nel mezzo" della vita e del cosmo. Riudrà come
proprie le parole antiche e pur sempre nuovissime del "Poeta assoluto": Nel
mezzo del cammin di nostra vita...
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