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Recensione a
Piangono ancora come bambini
Vittoriano Esposito
in: L'altro Novecento, Bastogi Editrice Italiana, Foggia 1995.
Un caso veramente raro, se non unico, quello di Veniero
Scarselli: lasciata la cattedra di Fisiologia all'Università di Milano, da
qualche anno si è ritirato in una sorta di eremo nei pressi di Pratovecchio,
sull'Appennino tosco-emiliano, e si è dedicato totalmente alla poesia e alla
riflessione teorica sull'arte in genere, guadagnandosi uno spazio tutto suo nel
panorama letterario di quest'ultimo Novecento.
La sua voce, così nuova e originale, poteva rischiare di
passare inosservata oppure di non essere compresa; ed invece, fortunatamente,
ha trovato ascolto e molto apprezzamento. Nel rapido volgere di un lustro
appena, ha scritto e pubblicato delle opere di sicuro valore, che abbiamo potuto
segnalare con speciale riguardo in un nostro ponderoso lavoro sulla poesia e
sull'anti-poesia del nostro secolo. Sarà bene ricordarle brevemente, secondo le
annotazioni schematiche della scheda editoriale che si può leggere nell'ultima
raccolta: Isole e vele (Forum, 1988), in cui riesce a "coniugare
l'impegno conoscitivo più serio con una ricca ven a di canto" (Vittorio
Vettori); Pavana per una madre defunta (NCE, 1990), "un libro di poesia
sconvolgente fondato sopra una rigorosa e sconsolata concezione della realtà"
(Mario Sansone); Torbidi amorosi labirinti (NCE, 1991), "un viaggio ossessivo in
un tragico tunnel che si chiama corpo, visceri, sesso" (Luigi Baldacci);
Priaposodomomachia (NCE, 1992), "una sacra rappresentazione da cui il lettore è
come irretito e indotto ad abbandonarsi mani e piedi legati alla voce del
Poeta-Maestro" (Giancarlo Oli); Eretiche grida (NCE, 1993), "un'opera terribile
e bellissima... un punto di riferimento assoluto di poesia e di verità" (Giorio
Bárberi Squarotti).
La valutazione complessiva di quanto fin qui prodotto, stando
alla critica che se n'è occupata (i giudizi sopra citati ne sono testimonianza),
induce a credere che Veniero Scarselli abbia percorso una strada tutta sua,
inseguendo un modello di scrittura dal fondo meditativo ma con sbocchi
narrativi, che rompe con la tradizione lirico-intimistica e
frammentario-minimalistica per riproporre un canto di lungo e vasto respiro,
sull'esempio della poesia epica d'altri tempi. Ogni sua opera, infatti, più che
raccolta di poesie, può dirsi un poemetto che si svolge intorno ad un nucleo
tematico ben preciso. E così anche per l'ultimo libro, Piangono ancora come
bambini (Campanotto Editore, 1994), che, scritto per la morte della madre, vuoi
essere "un omaggio alla memoria di tutte le madri, mai in vita abbastanza
amate".
Come l'autore ricorda in una sua noterella premessa al testo,
la prima stesura dell'opera è stata fatta di getto durante la veglia alla salma
della madre Maria Livia Bressanin Scarselli, nella notte fra il 4 e il 5
settembre 1991, nella camera ardente dell'ospedale di Bibbiena. Il poemetto si
compone di 41 lasse e ricostruisce, punto per punto, tutti i momenti drammatici
di quel doloroso Calvario, vissuto senza il soccorso d'un Cireneo, nella più desolata solitudine.
Rimettendo mano alla prima stesura, a distanza di qualche tempo, il poeta ha
ovviamente apportato ritocchi formali ed ha potuto aggiungere altre pagine
relative al senso di smarrimento sopraggiunto alla veglia e alla sepoltura.
Il momento culminante del drammatico "racconto" è quello del
trapasso, seguito dalla lavatura e dalla vestizione del corpo non ancora
irrigidito della defunta: il poeta-biologo si attarda sui processi degenerativi
delle cellule nel passaggio dalla vita alla morte, freme di sdegno e d'amore di
fronte all'irreparabile destino del nulla, per ritrovarsi uomo e figlio
impotente pur nel suo gesto di estrema pietà. Sentiamone la voce "in diretta",
per così dire, in questi versi: "...Ma bisogna lavarla e vestirla, | profumarla
perla festa di compleanno | con la pietà che Iddio ci ha insegnato, | ...Oggi
soltanto io | sono qui, senza lucciole e grilli | e forse un po' trepidante | ma
pronto per l'ultimo atto, | quest'amoroso tributo di pietà" (XVI).
Il poeta si sente come un soldato sfortunato, chiamato a
difendere il suo posto in trincea, con la certezza che dovrà subire con onore la
disfatta. Di qui il suo lamento, quasi sfogo pacato contro una biblica condanna
dì espiazione: "Mamma, Dio, dove siete, | vi prego, non lasciatemi qui |
prigioniero come un cane atterrito | nella fossa di serpenti della mente, |
liberatemi dal Male | ...ridatemi la luce del giorno, | un clamore sfrenato di
uccelli | che annunci il trionfo della Vita | e faccia abortire in quel guscio |
dalle false fattezze di madre | tutti i semi maligni della Morte!"
Il grido di dolore, ad un certo punto, si tramuta in un vago
proposito di vendetta contro la Morte sentita come la Rivale inflessibile; ma,
poi, si finisce per cedere alla speranza che non tutto sia davvero finito, se
dal corpo immobile si sprigiona d'improvviso come una nuova luce che invita a
sopravvivere: "...ch'essa sia veramente la luce | sfolgorante di Dio | discesa
per scioglierci dal Male | e accendere sulla terra un nuovo giorno".
Sono di una "triste ferocia" le leggi della natura che
governano il corpo, costretto a divenire "un manichino", dapprima sordo alle
"comunicazioni d'amore" dei figli e poi sottoposto a decomposizione e
annullamento. Ma le leggi dell'anima devono seguire altro percorso, assecondare
altro destino. E vero, sì sopravvive nel ricordo di chi resta, sul filo
dell'amore che resiste a tutte le bufere, fino a quando la morte non torna a
colpire di nuovo. Siamo, ovviamente, alla "corrispondenza d'amorosi sensi" di
foscoliana memoria, con in più una qualche speranza nell'Oltre, non
identificabile col nulla eterno, a differenza dal carme dei Sepolcri.
Il poemetto si chiude con l'immagine dolente dì tutti i morti
"inzuppati di fango | che forse piangono ancora come bambini", e con l'auspicio
che essi possano almeno stringersi insieme, come affratellati dal comune
destino. Ma leggiamola tutta l'ultima pagina: "Ma per ora dovrò contentarmi
| di custodire il suo umile
giardinetto | con questo muto segno di marmo | e il lumino tremolante sempre
acceso. | Per fortuna ha dei buoni vicini | e ho piantato anche il mirto
odoroso, | la lavanda, il pepolino, la cedrina; | loro a ogni nuova stagione |
risorgono e forse ogni volta | là sotto tremerà qualche cosa. | Chissà se nel
gelo dell'inverno | per riscaldarsi sotto tanta neve | in quelle povere case
diroccate | dei loro corpi senza pace anche i morti | possono almeno stringersi
insieme."
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