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Atti della Tavola rotonda promossa da Asa (Associazione Scrittori e Artisti)
a Palermo, 2 dicembre 1994, Biblioteca Comunale su:

Poesia e poetica di Veniero Scarselli

in: “Il Giornale dei poeti”
II, nr. 1, 2004, Inserto I-IV.

Interventi di:
Anna Balsamo - Annamaria Bonfiglio - Salvatore Di Marco - Alfio Inserra - Giancarlo Oli - Nicola Romano - Tommaso Romano - Veniero Scarselli

Indice

  • Introduzione di Nicola Romano
  • Intervento di Giancarlo Oli
  • Intervento di Alfio Inserra
  • Intervento di Salvatore Di Marco
  • Intervento di Annamaria Bonfiglio
  • Intervento di Veniero Scarselli
  • Intervento di Tommmaso Romano
  • Domanda di un'ascoltatrice
  • Risposta di Scarselli
  • Domanda di un ascoltatore
  • Risposta di Scarselli
  • Intervento di Salvatore Di Marco
  • Risposta di Scarselli
  • Intervento di Anna Balsamo
  • Intervento conclusivo di Giancarlo Oli

Introduzione di Nicola Romano

Non a caso abbiamo intitolato questo incontro Poesia e poetica di Veniero Scarselli, perché a mio modo di vedere sarebbe un poco riduttivo andare a cercare e a leggere una certa poesia di un certo volume di Scarselli; di solito le sue poesie non hanno titolo, al massimo sono solo numerate, e forse addirittura non basta un suo solo volume per esaurire la sua multiforme tematica. Penso che la sua "unica poesia" sia nella poetica; una poetica robusta, provocatoria, magmatica, più volte dichiarata e coerentemente applicata nei volumi ch'egli ha via via pubblicato e che ci piace qui ricordare: Isole e vele è la prima pubblicazione, avvenuta nel 1988, poi è seguita Pavana per una madre defunta nel '90, Torbidi amorosi labirinti nel '91, Priaposodomomachia nel '92, quest'ultimo un poema drammatico che è stato rappresentato alla fine del Luglio scorso nel parco della Villa Guerrazzi del comune di Cecina. Qualche critico in queste ultime tre raccolte vede completata una trilogia con unità di intenti e di poetica. Del 1993 è il volume Eretiche grida, mentre di quest'anno è il volume Piangono ancora come bambini, che fra l'altro è vincitore della sezione editi del Premio Acalipha, la cui cerimonia di premiazione si svolgerà proprio domani al Palazzo Municipale di piazza Pretorio.

Ma vediamo che cosa ci dicono le note biografiche. Veniero Scarselli è nato e ha studiato a Firenze; dopo una formazione umanistica e un'intensa sperimentazione poetica, si è laureato in Biologia dedicandosi alla ricerca scientifica, ma continuando a praticare l'esercizio poetico; ha conseguito la libera docenza in Fisiologia e ha pubblicato numerose memorie scientifiche. A un certo punto - e qui prende corpo l'originalità del personaggio e la sorprendente consistenza della sua poetica - Scarselli si rende conto che la scienza non è in grado di dargli certezze e che solo la scrittura poetica è l'unico strumento capace di offrire delle rappresentazioni soddisfacenti, perché non smentibili, della realtà. Ecco che Scarselli decide allora di abbandonare l'attività professionale e si ritira in una casa colonica sulle pendici dell'Appennino tosco-emiliano, sulle colline di Pratovecchio, dove attualmente vive facendo (l'ha dichiarato lui stesso) il contadino, con corredo di campi, orticello e animali. Da una didascalia a un'intervista fatta all'Autore e riportata su un'intera pagina del quotidiano "L'Indipendente" del 27 Gennaio 1993 leggiamo: <La scienza non poteva offrirmi nessuna chiave per la comprensione della realtà del nostro universo; solo la poesia manteneva aperta per me una possibilità di aderente rappresentazione del mondo (....) Così lo scienziato ricercatore ha abbandonato la vita accademica per quella durissima della campagna, dove, tra greggi e lavori nei campi, ha ricominciato a scrivere. Con i suoi poemi spesso scabrosi ha raccolto consensi sempre più entusiastici entrando di prepotenza nel flusso della letteratura italiana; e non risparmia critiche sui nuovi colleghi prigionieri di una poetica fatta di frammenti e di parole vuote che non lasciano traccia>. Riportare adesso il contenuto concettuale di tutta l'intervista sarebbe come anticipare i vari temi che saranno qui trattati; e sarebbe anche sciupare con aridi riporti quello che l'Autore può dirci con la sua viva voce mostrando il vivace temperamento che ora si nasconde sotto quest'aspetto apparentemente tranquillo. Dice infatti anche Rossano Onano nel delizioso saggio L'equivoco di Edipo nella trilogia di Veniero Scarselli: <Questa cosa di fingersi a volte sprovveduto è una delle sue irresistibili caratteristiche eccessive. E', per il resto, egocentrico, intemperante, innocente come un bambino; la sua dichiarazione di poetica è infatti imperiosa e categorica ed ha la caratteristica infantile di non ammettere le sfumature>.

In un confronto tra poeti come quello di stasera, la sana provocazione di Veniero Scarselli può dare dunque stimolo ad un discorso sulla poesia in genere; ma anche sull'attuale stato di salute della poesia, che ora va avanti sfidando molte resistenze sociali e sopravvive in mezzo a tante ambiguità e a tante incertezze; provocazione soprattutto che chiama affettuosamente in causa la maggior parte di noi poeti cosiddetti "intimisti" calati forse dentro un nuovo romaticismo meno concreto ma liricamente accattivante. Comunque sia, è compito degli scrittori e degli addetti ai lavori assegnare alla poesia quell'autonomia in senso civile che le è propria, custodire la fede e l'impegno verso la parola umana riproponendo continuamente, come dice Mario Luzi, il processo di conoscenza e di illuminazione attraverso varie forme e varie invenzioni, la cui coerenza è da vedere più tardi, a cose fatte. Ma il mio compito si ferma qui; esso era di introdurre i temi e i personaggi di questo incontro. Gli illustri relatori sapranno analizzare con adeguata ed esperta visione critica il magma poetico che scaturisce dall'anima di Scarselli; un'anima che sembra assumere una sua fisicità, una sua pulsazione biologica, un'essenza quasi primordiale, come se volesse ricondurre il tutto alle origini dell'uomo per poi ripartire da capo; e anche una di quelle scritture, credo, un po' iniziatiche, una discesa agl'inferi in cerca di quella solitudine che precede poi la purificazione della poesia. Per completare questo mio quadro, per capire meglio quello di cui si andrà a parlare, e per meglio inquadrare la matrice scritturale di Scarselli, penso sia il caso di leggere qualche testo tratto da alcuni suoi volumi.

Viene fatta lettura di alcune pagine da Isole e vele e da Pavana per una madre defunta di Veniero Scarselli.

Intervento di Giancarlo Oli

Cari ed illustri amici, Autorità. Sono compiaciuto e lusingato oltremodo di essere stato convocato qui al fianco del grande amico e grande poeta Veniero Scarselli, per parlare un po' attorno alla sua poesia dal mio punto di vista, cioè da quello della lingua. Innanzitutto mi lusinga ancora trovarmi qui a Palermo, perché in certo qual senso Palermo nella storia si affratella a Firenze, avendo qui avuto luogo tanti secoli fa il tentativo di mettere a confronto la lingua letteraria con la lingua parlata nel luogo, quando allora le lingue letterarie potevano essere molto diverse; non penso solo al latino, penso al provenzale, penso al francese antico. Questo fatto nuovo, rivoluzionario e veramente gravido di avvenire, si è verificato qui per la prima volta; e poi per la seconda volta a Firenze. A Firenze ci sono stati dei grandi poeti, Guido Cavalcanti, Dante Alighieri, che non hanno inventato la lingua italiana ma hanno anch'essi semplicemente messo a confronto la lingua parlata tutti i giorni con le lingue letterarie; così è nata la premessa di una lingua letteraria, o di una letterarietà della lingua, che ha accompagnato la vicenda storica italiana per tanti secoli conferendo alla lingua questa grande, precipua sigla di letterarietà che per l'italiano è stato motivo di grande pregio e apprezzamento in tutta Europa e nel bacino del mediterraneo facendo salire il numero dei parlanti e intendenti lingua italiana per tanti secoli. Ricordiamo come gl'inglesi elisabettiani conoscessero l'italiano e l'apprezzassero; ricordiamo come nei secoli successivi i librettisti d'opera italiani fossero accolti senza traduzione in tutte le corti d'Europa; ricordiamo come ancora alla fine del secolo scorso l'italiano, da Tunisi a Porto Said, fosse una lingua franca in tutto il bacino del Mediterraneo. Purtroppo la quantità dei parlanti al giorno d'oggi si è molto ridotta e la vicenda dell'italiano è attraversata da numerose contradizioni ed equivoci, ha cioè perduto quella linearità di tipo letterario che aveva conservato fino a una cinquantina d'anni fa. Sto esponendo fatti e concetti di una certa genericità, e vorrete perdonarmi; però bisogna dire che la moderna informazione e comunicazione hanno molto compromesso la lingua letteraria al giorno d'oggi, per cui questa è scarsamente funzionante nella vicenda della nostra cultura e nella vicenda della nostra società; il che implica a un certo punto una difficoltà anche nell'agire, sia socialmente che politicamente, in seno a questo paese, in seno a questo popolo. La letteratura in sostanza è stata abbandonata.

Proprio conversando così (nella conversazione le cose escono con maggiore immediatezza, magari in modo rozzo ma certamennte più sano e più efficace) ricordo che l'altro giorno dicevo all'amico Scarselli che il risultato di questa sua operazione poetica è stato di recuperare la letterarietà della lingua (in questi termini infatti ho cominciato a occuparmi della sua poesia e ho anche invitato ad occuparsene un illustre italianista come Mario Martelli); e gli dicevo anche che mi sembrava che lui si riallacciasse al filone di grande sperimentalismo letterario che va dal Quattrocento al Cinquecento, ai grandi poeti cavallereschi, Pulci, Boiardo, Ariosto, e poi Tasso; e che lui volesse in qualche modo, mutatis mutandis, riportare di attualità quel linguaggio, ricostituire cioè un linguaggio letterario, restituire la letterarietà all'italiano. Lui mi ha risposto <Certo, è dal principio del secolo che i poeti giocano con la lingua e ora sarebbe il momento di non scherzarci più>. Ecco un'uscita, una constatazione, che io ho apprezzato moltissimo, perché vi ritrovo una risposta a tutte le mie esigenze e tormenti di studioso e amatore della lingua italiana; una lingua che oggi vedo assai compromessa, essendo purtroppo decaduta la sua letterarietà; si è cominciato, come voi sapete bene, con un certo lassismo nelle letture scolastiche, con progressivi abbandoni di autori e di testi e con la polverizzazione di certi elementi che prima erano considerati essenziali, ad esempio il motivo del gusto, il motivo della imitazione; la quale, se intesa in un certo modo e non come pedissequa copiatura, è la premessa per un perenne rinnovarsi di certi gusti. Tutto questo è stato progressivamente abbandonato; per cui in luogo di una scrittura seria e composta hanno preso il sopravvento le coniazioni troppo facili e lo stile giornalistico, o per lo meno un certo stile giornalistico molto raffazzonato e strafalcione. Quindi noi assistiamo al delinearsi di una fisionomia di lingua che onestamente lascia molto a desiderare, specie nei confronti di quelle lingue concorrenti che oggi aspirano a una sorta di universalità - quella che secoli fa spettava alla lingua italiana - e che hanno la possibilità di accogliere termini da tutte quante le aree linguistiche; siano esempio l'angloamericano e lo spagnolo, che riescono ad adattare alle proprie strutture fonetiche e morfologiche le parole non originarie. L'italiano, che ha perduto questa capacità, è oggettivamente al giorno d'oggi una lingua che non ha più forza, non ha più verve; è una lingua - qualche volta dico io paradossalmente - che non ha più avvenire; onestamente, non potrei dire quanti secoli ancora durerà, ma, se si guardano le cose obiettivamente, non dovrebbero purtroppo esser molti.

Allora io penso che se abbiamo un esempio di poesia come quella di Scarselli, che riconquista letterariamente la parola e la struttura della lingua, la riconquista nel modo più autenticamente italiano ridandole il vigore che finora mancava, non può che essere benvenuto. L'idea velleitaria di una riconquista del genere è stata espressa fra l'altro anche da un poeta abbastanza noto e fin troppo celebrato cui ha fatto riferimento poc'anzi Nicola Romano: "Vola alta parola... che tu non sia disabitata trasparenza" ecc. ecc.; ma una cosa è dirlo, altra cosa è sperimentalmente e fattualmente portarlo avanti. Il fatto che Veniero Scarselli ci abbia provato, e ci sia riuscito, mi rende molto fiducioso. Per questo noi tutti, e in particolare i siciliani e i fiorentini, dovremmo molta gratitudine e molto plauso a Veniero Scarselli. Grazie.

Viene fatta lettura di alcune pagine da Torbidi amorosi labirinti e da Priaposodomomachia.

Intervento di Alfio Inserra

A me il gradito compito di parlarvi dell'ultima recente opera di Veniero Scarselli, Piangono ancora come bambini, edita alla fine del 1994 per l'Editore Campanotto; opera certamente molto interessante, che, come avete sentito, domani riceverà il Premio Acalipha. E' un'opera scritta di getto durante la veglia funebre della notte fra il 4 e il 5 Settembre 1991, in occasione della morte della Mamma, Maria Livia Bressanin. E' quindi un'opera che tocca particolarmente coloro che hanno perduto le mamme, un taglio certamente fra i più traumatici nella vita dei figli; ma tocca anche un po' tutti, perché è un'opera autentica, un'opera - ecco l'originalità della prima operazione poetica di Scarselli - non mediata dalla riflessione come invece succede generalmente nei casi di "genitoris orbatio" e di cui pure abbiamo esempi illustri nella poesia di Ungaretti e di Quasimodo; abbiamo anche delle realizzazioni memoriali, ricordate la Conversazione di Sicilia di Vittorini, questa sorta di "discesa alle madri"? Invece, questa poesia immediata di Veniero Scarselli, questa sorta di implosione (non di "esplosione"!), ci propone una sorta di "restitutio in integrum", perché - come dice Scarselli all'inizio - Quest'opera è un omaggio alla memoria di tutte le madri, mai in vita abbastanza amate. Noi di questo ammanco d'amore di cui siamo debitori alle nostre mamme ci accorgiamo purtroppo dopo la loro morte; allora, quale cosa più bella, nella riservatezza di questo dolore, cominciare una "restitutio in integrum" con delle frasi che alludono all'allattamento (allattarla con la poppa di figlio, scrive Scarselli nel poema), ridando vita, tramite la poesia, alla Mamma che certamente ci ha dato tutta la sua vita a cominciare dall'allattamento.

Come vi dicevo, questa forma di immediatezza - o immediazione -comincia per Veniero Scarselli nella notte in cui egli si è volontariamente isolato nella camera ardente e ci conduce a riflettere insieme a lui. Anch'io ho pensato con lui in un mondo di immmagini. Vi ricordate Alice nel paese delle meraviglie, oppure Il regno dei fidi di Emanuele Cante: noi entriamo improvvisamente per mezzo della poesia in un mondo diverso, in un mondo di immagini in cui ci immette di forza il Poeta. La prima visione che ci si offre, bellissima, di una veglia in una sala d'armi, mi ha ricordato un'altra bella poesia di Carducci, Poeti di parte bianca; anche Nuccio, nel castello della Torre a Mulazzo, nel castello di Franceschino Malatesta, attende nella notte in una sala d'armi. In Piangono ancora come bambini, nel momento di più grande meditazione, quando il Poeta si sente veramente isolato dal mondo, comincia a maturare questa forma implosiva di dolore, di "restitutio in integrum" verso la madre; ne nasce una poesia fortemente icastica, piena di immagini, una poesia certamente forte, e ci rendiamo subito conto che il Poeta tenta una operazione propria appunto della "restitutio"; essa inizia in questa povera veglia in cui Scarselli, con parole forti ma emblematiche, dice che è il figlio a partorire il corpo della madre; ed è bellissima questa forma di restituzione alla vita che lui si può permettere in quanto poeta; la sua forza deriva proprio da questa sicurezza, l'unica che gli rimanga nel momento in cui ha perso tutto di quello che poteva essere il suo rapporto con la madre. Questo modo di ridare la vita comincia proprio dall'atto iniziale, dall'allattamento: la sua sarà la poppa - poetica - dalla quale la madre potrà suggere quel latte che ora gli viene a mancare; i morti infatti - come rappresenta il titolo - piangono ancora come bambini, restano nudi e inermi alla fine del loro ciclo vitale.

Ricordate la bella filosofia di Heidegger, per cui noi viviamo per la morte; probabilmente siamo scagliati dal non-essere in questo essere, ma certamente viviamo per tornare al non-essere. Allora, di fronte a questo muro che Foscolo e Leopardi chiamavano "arido velo", il Poeta cerca di reagire in qualche modo, come ha reagito Foscolo, come ha reagito Leopardi; e come si può reagire contro la morte? Soltanto con la vivezza di questo afflato poetico, che certamente è l'afflato di Lucrezio; vi ricordate "alma verae": alma è la poesia che può dare l'alitus, la vita, ritornare a dare la vita. Ma nel primo attimo di questa ri-creazione c'è lo sgomento della solitudine, perché man mano che il Poeta comincia ad essere presente a se stesso capisce che si allontanano tutte le altre presenze, tutte le altre immagini, e lui resta solo dinanzi a questa presenza terrifica del Male che si cela impunemente - dice Scarselli - dietro le finte pupille della Morte. La Morte sembra avere una sua prosopopea, per cui, anche se la mutili, o la uccidi, il Male caparbiamente la rialza; quindi è una lotta immane, egli deve ostare con il senso heideggeriano di questa vita inautentica di cui vuole recuperare l'autenticità per mezzo di una forza poetica che egli sente essere capace di ricreare la figura della madre; e comincia proprio da quella bellissima "discesa alle madri" di Vittorini di cui dicevamo, dalla forza affabulatrice della memoria, e detta il primo aforisma: E' mia per sempre. La prima certezza infatti è questa: che la madre - che pure è morta per gli altri - resta sua per sempre perché la sua memoria, questa forza che egli comincia a trovare in se stesso, gliela restituisce. Allora bisogna proteggerla da quella che è la barbarie del mondo; ricordate un'altra bellissima immagine di Foscolo, quell'upupa nel teschio, a proposito di Parini che veniva un po' trascurato; bisogna dunque difendere la madre da questa forma di barbarie dell'uomo. C'è anche una bella poesia, che denuncia tutto questo, e che ho particolarmente segnato, la XIII: Anche i branchi cialtroni degli uomini / abbandonano per terra senza amore / insieme coi propri escrementi / le sfortunate carogne ingombranti / dei loro inutili vecchi / come i branchi di animali che pascolano / a testa china incuranti sotto le stelle: una bella immagine sui cimiteri, le stelle, il desiderio di evadere.

Questo libro è dunque un recupero memoriale, è la memoria che riporta in vita la mamma di Veniero Scarselli, che, come vedete anche voi, è un grande poeta e ha questa magia, questa forza, di poterla riportare in vita. Dice così: E' ancora calda, dolce, forse affabile, / emana il suo solito odore / un po' stantio di buona vecchia madre. Comincia tutto un gioco di incastri in cui egli si sente di fronte alla madre come di fronte a una piccola bambola, una bambola da vestire, da curare; una bambola inanimata, ma che rappresenta una prima prova di agnizione, come per le bambine è la comparsa dell'istinto e dell'atteggiamento materno. Nella sua "restitutio in integrum" il Poeta vuole recuperare questo atteggiamento verso la propria madre e il gioco continua finché questa piccola bambola (vedi poesia a pag. 27) meriterà il suo bacio resuscitatore come una bella addormentata nel bosco. Ecco la potenza evocatrice, fabulosa e affabulatrice, della memoria; il Poeta si rende conto che egli può operare una sorta di esorcismo contro la morte, una sorta di scongiuro; importantissimo, perché è un rapporto che in presenza della morte sgomina tutti i tabù, cominciando dal sesso. Noi sappiamo, conoscendo la produzione di Veniero Scarselli, che il sesso è stato una componente decisiva e decifrabile per ogni suo poema; ha avuto una parte importantissima, quasi ossessiva; ora è bello che, in questo momento di autenticità del rapporto con l'eterno, Veniero Scarselli si renda conto di poter esorcizzare questo tabù, si renda conto che il sesso fa parte non solo della vita ma anche della morte e quindi la elimina. Sentite, XVIII poesia, pag. 28: Oggi la morte / ha consentito d'accedere ai segreti / tanto a lungo gelosamente nascosti / di quel pube ormai senza veli / né peccato: era quello della Mamma, / col suo enorme sesso nel mezzo / bello, regale, possente, / ancora solennemente assiso / sul trono della vita e della morte. Questa coscienza della realtà di una cosa, di cui noi abbiamo fatto una mistificazione, è l'inizio di un processo di demistificazione che appunto si compie per mezzo della poesia; improvvisamente ci rendiamo conto che quello che era un dèmone maligno, un doppio, un io interiore certamente mistificante, finalmente esce fuori dal poeta e gli si mette di fronte, separato, diverso: è uscito, come l'esorcismo fa uscire il Maligno. Egli si rende conto che ciò che prima era la Mamma ora rappresenta un'altra cosa: e invece mi hanno respinto; / anche la madre, chiamata ad altri amori, / a impenetrabili amplessi con la Morte. / Mi ha lasciato per sempre la mano / e ho potuto conoscere la sua pena / nel chiudermi la porta della casa. Egli ha capito che questa separazione riguarda la corporeità della madre, quello che della madre è morto, quello che bisognava demistificare, quello che segnava la inautenticità del rapporto e in cui certamente il figlio molte volte soffriva verecondia di fronte alla madre. Non era mancanza d'amore, ma una sorta di riserbo di cui ora il figlio si pente, purtroppo soltanto dopo la morte; capisce d'aver giocato in modo equivoco anche nei rapporti del proprio affetto con la madre, di non aver potuto realizzare un rapporto totale, e che ora soltanto, in presenza della morte, può recuperare l'autenticità del suo amore per lei. Mentre l'amore che la madre gli ha dato, fin da quando ha cominciato ad allattarlo, era una forma di dedizione estrema, totale, assoluta.

Il Poeta dunque vede finalmente dal di fuori se stesso e la madre; è una poesia bellissima quella di pag. 44: Una pia donna / appena uscita dalla messa delle sette / s'è fermata sulla soglia; / forse ha detto una preghiera, / forse ha solo figurato se stessa / stesa un giorno sul marmo del mondo / coi fiori, i nastri, l'abito da sposa; / e un figlio sedutole accanto / a tentare e ritentare testardamente / impossibili comunicazioni d'amore. Egli si vede accanto alla madre in questo impossibile tentativo di comunicare. E' importante, perché questo è il momento in cui il Poeta ha coscienza di quello che i latini chiamavano l'exitus, l'uscire fuori da questa vicenda in cui siamo precipitati quando siamo calati nell'essere. L'exitus è "uscire" dall'essere per ritornare al non-essere, cioè ritornare alla autenticità. Il processo della morte è compiuto, dice Scarselli. Allora questa veglia è servita a comprendere il processo della morte, che non è il processo della morte della madre, ma il processo della morte cosmica, cioè quello che ci permette di vedere qual'è la vita autentica: Il processo della morte è compiuto. / Tutto è stato disfatto, abbattuto. / Anche l'anima certo s'è smarrita / nei penosi labirinti dell'esilio. Ci rendiamo finalmente conto che Veniero Scarselli per mezzo di questo sacrificio, per mezzo di questo dolore, è riuscito a comprendere il rapporto che c'è fra l'uomo e questo meccanicismo universale che ci stritola, ci fagocita, ci costringe ad una esistenza inautentica, ci costringe a sbattere contro il suo muro, quello che gli antichi greci chiamavano l'ananche, il destino. Noi siamo schiacciati da questo meccanicismo universale; pensate a Leopardi, pensate a Foscolo, che si sentivano oppressi; e come si può reagire? Con la poesia! E' l'unico modo, diceva Foscolo, con cui noi possiamo recuperare quell'immortalità che altrimenti non abbiamo; non c'è nessuna forma certa di superamento della vita, neanche quella esistenziale, come dicevano Heidegger e Kirkegaard, perché tutta la vita è angoscia. Per uscire da questa angoscia, possiamo solo recuperare i nostri ideali, uno dei quali, importantissimo, è la poesia. Allora, dove Foscolo recitava e di fiori odorata arbore amica / le ceneri di molli erbe consoli, Veniero Scarselli finalmente, nell'ultima poesia, anche questa bellissima, capisce che la sua funzione di recupero è esaurita, che il suo rapporto ritorna a incasellarsi in quella ragione per cui tutti i figli naturalmente possono rendere omaggio alla madre con la memoria supplendo tutto quell'amore in cui secondo loro hanno mancato, ma che non deriva da mancanza d'amore, deriva da una mancanza di recupero; il quale non può essere giornaliero, quotidiano, perché il recupero si può avere in presenza di un trauma, di uno schock, di quello che necessariamente dobbiamo avere e che è la morte. Come il Foscolo, che volendo recuperare quest'entità parla di "alberi amici", Scarselli dice: Ma per ora dovrò contentarmi / di custodire il suo umile giardinetto / con questo muto segno di marmo / e il lumino tremolante sempre acceso. / Per fortuna ha dei buoni vicini / e ho piantato anche il mirto odoroso, / la lavanda, il pepolino, la cedrina; / loro a ogni nuova stagione / risorgono (ecco il mito della poesia che fa risorgere chi altrimenti non avrebbe nessuna forma d'immortalità) e forse ogni volta / là sotto tremerà qualche cosa. / Chissà se nel gelo dell'inverno (non è solo il gelo delle stagioni, è un gelo emblematico, il gelo del cuore) per riscaldarsi sotto tanta neve / in quelle povere case diroccate / dei loro corpi senza pace anche i morti / possono almeno stringersi insieme.

Intervento di Salvatore Di Marco

Devo dire subito che all'inizio il mio approccio con la poesia di Veniero Scarselli - e mi riferisco ai libri antecedenti a quest'ultimo pubblicato con Campanotto - tutto sommato non mi aveva gran che coinvolto, probabilmente per certe mie sordità, probabilmente perché certi libri di poesia, o le mode, ci condizionano nella lettura dei testi poetici; ma quando ho ricevuto questo Piangono ancora come bambini, in occasione del premio Acalipha, e mi sono immerso nella lettura, ho dimenticato sia le precedenti opere di Scarselli che quelle che erano le mie incombenze di giurato e mi sono trovato alla fine della lettura sgomento, mi sono trovato lettore indifeso; ma perché? La spiegazione è che qui non c'è la letterarietà della scrittura; la scrittura letteraria mi è parsa solo uno strumento, un contenitore ancora troppo piccolo perché potesse essere interamente riempito non tanto da un dettato poetico interiore ma da una intera vicenda umana che tocca i punti essenziali dell'esistere: la nascita e la morte. Non ho saputo distinguere se questo libro è un libro di poesia, una narrazione, una testimonianza, una pagina di dolore, una pagina che richiede il riscatto dell'amore contro la morte. Ho cercato di decifrare il mio sgomento, che non era soltanto una complicità, una solidarietà con lo sgomento dell'Autore; era qualcosa che coinvolgeva le domande fondamentali che ciascuno di noi o si pone drammaticamente, o rimuove.

La vicenda è stata accennata dalla relazione di Alfio Inserra; io mi sono immaginato questa candida, fragile, indifesa vecchietta, e la solitudine intorno; e questo figlio che non ha il dolore del figlio, ma il dolore nella sua essenzialità, dolore che non è rivolta, ribellione contro la morte, ma è il ripercorrere l'itinerario di un amore, dell'amore che comincia il primo giorno della nostra vita e che continua come vicenda e ci caratterizza, che segna il nostro esserci, il nostro destino, il nostro modo di essere uomini. Allora mi è parso assolutamente superflua ogni ricerca di critica letteraria che tentasse di collocare l'opera nella variegata mappa delle correnti letterarie dei nostri giorni; mi è sembrata un'operazione del tutto superflua, perché il libro ha una sua unicità che lascia passare in second'ordine una valutazione strettamente critica, tanta è la tensione umana di ogni pagina e di ogni verso. E' solo dopo, ad una rilettura del testo, che scopriamo una non studiata, non voluta, schietta coincidenza fra tensione umana e tensione lirica. Il testo non è un insieme di poesie, ma sono parti collegate, ha un respiro poematico, è un poema, un racconto, una narrazione organica dal primo fino all'ultimo momento, un dialogo continuo con la morte e con la vita; e tutto questo dentro un processo di trasfigurazione, di immagini, di metafore, con un linguaggio che mantiene sempre una limpidezza (ecco perché credo di recepire il senso della "letterarietà" cui si riferiva il Prof. Oli) che va al di là della stessa letterarietà perché sta nella necessità della confessione e ha bisogno quindi di un linguaggio immediato, cristallino, limpido, immediatamente comunicativo. A questa esigenza l'Autore risponde proprio con la atipicità del libro, perché urgono, in interiore, i sentimenti; sono domande, risposte, interrogativi, che tutti noi ci poniamo quando gli eventi come la morte hanno una loro ineluttabile definitività. Ripeto: il protagonista, il tema centrale di ogni componimento è la morte; ma nella mia reazione interiore, come viene avvertito dalla mia lettura, questo tema, che nel testo è oggettivamente il tema emergente, nel mio approccio sottintende l'altro tema, che è nascosto, e che è il tema dell'amore. Ci troviamo insomma di fronte a un libro che ci parla della morte, ma scopriamo alla fine che c'è l'innominato, il protagonista vincente: l'amore; l'amore nella sua forma più essenziale, che ci fa singolarmente fragili ma vincenti; l'amore del figlio e l'amore della madre, che non scende mai dentro nessuna fossa.

Viene fatta lettura di alcune pagine da Eretiche grida e da Piangono ancora come bambini.

Intervento di Annamaria Bonfiglio

La mia non ha la pretesa di essere una nota critica. Per due motivi: il primo, perché ci sono state delle persone che lo hanno fatto con la competenza che gli è propria. Secondo, perché la mia lettura dei libri di Scarselli è stata finora una lettura appassionata ma da "lettrice". Posso dire che mi trovo d'accordo in linea di massima con quanto detto dal Prof. Oli, quindi appoggio questo desiderio di recupero della letterarietà della poesia; che in effetti negli ultimi tempi si è perduta, con tutta la manipolazione del linguaggio che c'è stata. Mi trovo d'accordo anche con le parole di Salvatore Di Marco. Io ho letto tutti i libri che Veniero Scarselli mi ha graziosamente inviato; ma la lettura dell'ultimo libro - questo Piangono ancora come bambini - mi ha particolarmente toccato; e non tanto per l'argomento; è sicuramente un argomento che si presta ad essere recepito in una determinata maniera; ma è chiaramente vestito anche delle parole giuste, del linguaggio giusto, per cui proprio queste parole si fanno strada nel dolore dell'Autore e diventano veramente scrittura appassionata, chiara, una passione che arriva al cuore. Non posso dilungarmi in un discorso più approfondito; mi riprometto di farlo quando avrò un po' più di tempo. Ripeto, la mia di oggi è solo una testimonianza di valore umano; io credo che quando il poeta riesce a dare questo senso universale della propria pena, della propria gioia, della propria emozione, credo che in quel momento egli abbia raggiunto veramente la felicità della poesia. In Veniero Scarselli è strettissimo il rapporto fra la parola e gli eventi. Credo che questo sia il dato essenziale che ho potuto cogliere in una lettura ancora non molto approfondita.

Io ringrazio comunque Veniero Scarselli per avere scelto la nostra Associazione, il nostro gruppo di amici, per la sua visita a Palermo e ringrazio il Prof. Oli che ci ha regalato il piacere della sua presenza e quindi anche delle sue preziose parole; ringrazio Nicola Romano, che ha coordinato con grandissimo amore e grandissima fatica, ringrazio Alfio Inserra e Salvatore Di Marco, ringrazio Tommaso Romano che ci ha ospitati in questa prestigiosa sede. Il mio compito si riduce a questo, come ospite. Grazie anche a tutto il pubblico; e ora ascoltiamo la parola del Poeta.

Intervento di Nicola Romano

Prima però vorrei dire a Veniero Scarselli che con l'ospitalità critica che abbiamo voluto offrirgli siamo veramente convinti di avere compiuto un'operazione interessante per la poesia; sappiamo il suo valore nel campo poetico nazionale, conosciamo la sua visione della poesia, a parte quelle che possono essere le tematiche e a parte quella che può essere la sua scrittura; a causa della quale all'inizio abbiamo trovato - diciamolo pure - una certa difficoltà di accostamento alla sua poesia. E' anche vero che adesso ci andiamo convincendo un po' di più, perché ci immedesimiamo di più con la sua scrittura; l'ultimo libro, come è stato detto prima, è più immediato, lo riconosciamo tutti; ma io penso che sia compito di un poeta anche cogliere e accettare le testimonianze che arrivano da amici e poeti che tutto sommato sono delle risposte criticamente avvertite.

Noi lo ringraziamo veramente di cuore per averci permesso di presentarlo agli amici che seguono la poesia a Palermo. Dopo la parola di Veniero Scarselli io vorrei aprire un dibattito perché tutto sommato la pentola sul fuoco l'abbiamo messa, abbiamo visto per così dire il contrasto fra un certo genere di poesia che va di moda oggi e la ricerca che porta avanti Veniero Scarselli. Quindi se abbiamo qualcosa da chiedergli per illuminarci meglio sul campo della sua poesia, saremmo tutti più soddisfatti. La parola a Veniero Scarselli.

Intervento di Veniero Scarselli

Devo dire che sono veramente commosso per la calorosa accoglienza e la partecipazione colma di interesse, di cui tutti ringrazio. Soprattutto sono commosso e meravigliato per la profonda penetrazione e aderenza a quello che è il mio mondo poetico, dimostrata dagli illustri relatori. Sono commosso perché finora - devo ammetterlo - pochissimi, nel corso di analoghe manifestazioni, hanno dato prova di una comprensione così profondamente emozionale dei miei scritti. Permettetemi quindi di aggiungere solo poche parole per illustrarvi la filosofia che muove il mio bisogno di scrivere.

Io non sono per costituzione un solitario, ma credo di esserlo diventato durante l'adolescenza perché mi sono mancati dei veri amici che crescessero con me e condividessero gusti e pensieri. Sta di fatto che da grande mi sono ripiegato su me stesso e ho finito per rinunciare anche al mondo sociale, abbandonando la professione di ricercatore e ritirandomi in campagna. Come compensazione però sono andato sempre più sviluppando l'unico mezzo di comunicazione con i miei simili di cui fossi capace: quello che io chiamo sinteticamente la "riflessione poetica". Vi ho fatto questa piccola confessione perché forse vi interessa capire che cosa rappresenta per me la poesia. Ebbene, essa è l'unico strumento che ho, per trasmettere e condividere le mie riflessioni con quelli che considero miei simili, miei fratelli. Attraverso di essa, e con un uso tradizionale del linguaggio e della grammatica, io quasi li costringo (qualche maligno dirà ghignando che io li violento) a dividere con me il mio immaginario e le cose della vita che vado scoprendo. Poiché ora avrete capito che per me la poesia è una forma di conoscenza, anzi la forma più elevata di conoscenza, non vi farà meraviglia che io abbia potuto trasferire la mia curiosità, e la mia forma mentale di ricercatore, dalla biologia alle cose meno palpabili della poesia. Oggi anch'io posso dire di avere degli amici, forse dei fratelli, nei miei amatissimi 25 lettori. Non molti di più, forse, poiché quello che scrivo ha ancora per molti una componente di sgradevolezza. Dopo questa serata forse avrò la speranza che questa componente si sia un po' smorzata, già mi sono accorto che molti hanno mostrato di capire e accettare, addirittura abbracciare, il mondo del mio un po' inusitato immaginario. Comunque ora cercherò di convincervi - se non vi scandalizzerete per il paradosso - che questa componente di sgradevolezza in poesia non solo è inevitabile, ma è anche indispensabile, e dovrebbe essere benvenuta.

Vi anticipo, con un po' di sano gusto polemico, che secondo me l'odierna crisi della poesia non è crisi di forma e di stile ma solo crisi di contenuti. Io credo infatti che anche riguardo al modo di concepire la poesia stia finendo un'epoca. La ventata vivificatrice del decadentismo sembra esaurita. Sotto gli occhi di tutti è la folla di suoi nipotini che scorrazzano tra futurismo ed espressionismo, ermetismo e lirismo intimista, poesia "sfogo" e sperimentalismo d'avanguardia: una babele di correnti accomunate da un'unica colpa: aver prodotto una frattura fra i poeti e il loro pubblico e aver confinato la poesia in un vero e proprio ghetto. Toccare ogni giorno con mano il rifiuto del pubblico a leggere poesia è una cosa che fa male al cuore. Ebbene, a me sembra chiaro che la poesia non possa più interessare la gente, finché si ostina a non voler prendere in considerazione i veri e brucianti, paurosi problemi esistenziali dell'uomo di oggi. Sembra quasi che vi sia un tacito accordo fra i poeti per evitare questi problemi, forse perché si teme, a torto, di urtare la sensibilità del comune lettore di poesia. Eppure nessuno sa perché tale pudica delicatezza sia riservata solo alla poesia, mentre ai prosatori tutto è permesso, perfino di offendere il "comune senso del pudore". Sta di fatto che i poeti preferiscono o ispirarsi ad effimere emozioni private, come se fossero le cose più interessanti del mondo, oppure occuparsi di acrobazia delle immagini piuttosto che del peso dei contenuti; infatti si dedicano per lo più a forzare l'analogia e la lingua accostando funambolicamente parole inaccostabili nella speranza che ne scocchi qualche scintilla, ma in realtà conseguono solo l'oscurità, cioè la negazione del messaggio. Ambedue hanno insomma rinunciato alla comunicazione, l'uno a causa dell'ovvietà e inconsistenza dei contenuti sentimentali, l'altro a causa dell'astrattismo formale. Io credo invece con tutto il cuore che una poesia incapace di costringerci a riflettere sul mondo e sulla nostra condizione, anche a costo di sconvolgerci, una poesia che non serva ad accrescere la consapevolezza della nostra vita, una poesia cioè che dopo la lettura ci lasci uguali come prima, credo proprio che non serva a nulla.

Vi ho detto in anticipo che la mia era una dichiarazione polemica e forse per qualcuno antipatica; tuttavia la ribadisco, in barba a tutti coloro che proclamano la purezza della poesia fine a se stessa o la bellezza della poesia inutile. Come può una tale poesia interessare gli uomini d'oggi, sempre più tormentati da problemi esistenziali e metafisici? Io rivendico dunque la bellezza della poesia utile, e per "utilità" intendo che la poesia, come la scienza, debba ubbidire all'innato bisogno dell'uomo di conoscere, trovando delle rappresentazioni della realtà che ci circonda o che è in noi. Penso dunque alla poesia come a una potente forma di esplorazione della realtà, una forma non logica di rappresentazione del mondo, e non trovo giusto che sia ridotta alla funzione di esprimere banalità sentimentali oppure oscuri funambolismi verbali. Mi permetto quindi di dissentire dalla famosa e fortunata teoria, diventata opinione corrente, che la poesia sia espressione del sentimento. Ma badate bene, perché non vorrei essere frainteso né considerato sacrilego: nessuno vuole evitare di suscitare emozioni e sentimenti; e anche se lo volesse sarebbe impossibile, dato che ogni immagine si trascina dietro sempre, inevitabilmente, una qualche emozione. Tuttavia ritengo che le emozioni siano un prodotto secondario, anche se inevitabile; e che comunque non siano assolutamente il fine ultimo della poesia. Come strumento potente di conoscenza, questa consente la contemplazione oggettiva e consapevole, l'intelligenza, di un'esperienza che pure ci ha emozionati; e non può essere quindi l'emozione stessa, e tanto meno la sua espressione. La poesia è dunque, secondo me, un vero e proprio atto di riflessione - espressa in un linguaggio figurativo analogico - su una determinata esperienza; perciò, invece di degradarla ad un mero titillamento di emozioni, facciamo che lo scopo della poesia sia di nuovo quello che gli è stato sempre riconosciuto in passato, di tradurre a livello cosciente ciò che tutti più o meno percepiscono, ma che non tutti sono abituati a formulare oggettivamente e solo dopo il suggerimento del poeta esclamano <toh, non ci avevo pensato!>

Tutte le attività dello spirito hanno però un'altra importante, ma abbastanza misteriosa, proprietà di suscitare il cosiddetto piacere estetico. Ebbene, non è una domanda oziosa chiedersi che cosa sia concretamente questo piacere estetico che ogni giorno ci è dato di sperimentare perfino quando si contemplano dei soggetti sgradevoli. A me pare che sia il piacere (azzardo anch'io la mia piccola teoria filosofica) che si prova nell'accogliere dei contenuti che per essere veicolati da una forma ordinata e armoniosa riescono ad essere assimilati dalla mente più rapidamente ed efficacemente di altri; ricordiamoci infatti che l'idea di ordine e armonia è innata in ognuno di noi. Questa mia idea della poesia può essere forse considerata pragmatica, o utilitaristica; ma sta di fatto che il piacere che ci dà la poesia (come altre forme di arte) sembra essere dato dalla velocità e immediatezza con cui viene recepito il messaggio. La forma dunque è essenziale in ogni caso, ma sarà esteticamente soddisfacente solo quando, grazie a lei, il contenuto può raggiungerci nel modo più efficace. Si comprende quindi come mai anche le cose sgradevoli o ripugnanti, l'orrido, possano essere oggetto di conoscenza estetica, cioè di poesia, quando vengano confezionati in modo armonico, cioè efficace.

Vi ho rammentato queste cose abbastanza ovvie, perché so che a molti non piace che io mi occupi in poesia di soggetti sgradevoli; vorrei allora farvi notare che il problema dell'accettazione dell'orrido in poesia non è un problema estetico, ma morale. Ci si deve chiedere cioè se sia lecito che la poesia si occupi di cose sgradevoli, ecco il punto cruciale. Ebbene, se la poesia è una forma di conoscenza, l'unica forse capace di darci delle rappresentazioni soddisfacenti del nostro mondo, bisogna decidere se del mondo vogliamo sapere e vedere tutto, o soltanto gli aspetti che non ci turbano. In altre parole bisogna decidere se vogliamo che la poesia ci suggerisca solo serenità, o piuttosto materia su cui riflettere, anche se inquietante come sono tutti i problemi esistenziali. Ormai avrete capito che io ho optato per questa alternativa, e so che i problemi non danno mai serenità. Ma d'altronde, su cosa d'altro vorremmo riflettere? Esclusivamente sulle cose allegre e piacevoli, che generalmente sono anche ovvie e poco interessanti? I soliti palpiti d'amore, la primavera, la natura, i voli di rondini? Ma dove sta scritto che la poesia deve esplorare solo cose piacevoli? Senza contare che, oltre all'orrido, esistono anche gli innumerevoli aspetti buffi e ridicoli degli esseri viventi: il loro aspetto corporale e le loro realtà biologiche, che sono sempre state accettate come ovvie ma impronunciabili, e su cui mai l'occhio esploratore della poesia si è soffermato; eppure ovvie non sono affatto per l'occhio non distratto, non solo del biologo ma anche del profano. Io penso che anche in poesia sia meglio guardare in faccia la vita senza autocensurarsi, purché lo scopo naturalmente non sia il gusto di rotolarsi nella morbosità fine a se stessa. Penso che per uscire dal ghetto in cui si sono autoconfinati i poeti e poter interessare veramente il pubblico, si debbano lasciar da parte fiori e farfalle e si debbano invece affrontare finalmente le realtà della vita che tutti scansano, offrire una nuova lettura del mondo, indurre insomma alla riflessione ogni essere umano in grado di leggere.

Ma c'è qualcosa di più. Credo che tutti siano d'accordo se dico che il poeta non deve rinunciare a esprimere, insieme a una coerente visione del mondo, anche una coerente concezione morale. Ebbene, io credo che ciò si possa realizzare ben più efficacemente assemblando le singole poesie in modo che vi sia un filo conduttore avvincente; ancora meglio, coniandole direttamente nella forma unitaria e narrativa di un vero libro, anziché lasciarle sparse e disordinate nelle cosiddette sillogi. La continuità narrativa infatti è già capace da sola di esprimere un supermessaggio più complesso e articolato delle poesie prese singolarmente. E' un supermessaggio, in quanto raccoglie, articolandoli in un contenuto più generale, tutti i messaggi particolari e più semplici delle singole poesie. Inoltre, una poesia singola, per quanto significativa, non può suscitare nel lettore l'interesse e il coinvolgimento continuato, la tensione a riflettere, che può produrre invece una storia; succede fatalmente che di una poesia singola non resti nella memoria che una labile traccia.

Per concludere, consentitemi di ribadire questo principio: la poesia che non insegni qualcosa, o non induca alla riflessione arricchendo la nostra consapevolezza, rinuncia alla sua funzione più importante, conferitale fin dall'antichità, di trasmettere agli altri una concezione della vita, una saggezza, una coscienza morale, che possano costituire per tutti ancora oggi dei punti di riferimento.

Intervento dell'Assessore Tommaso Romano

Sono stato inserito nel programma, spero, non solo per aver dato la sede a questo convegno, ma per intervenire su Scarselli, che conosco bene. Mi scuso con qualcuno perché non ho potuto seguire tutti gli interventi, essendo stato impegnato col Consiglio Provinciale. Però era molto importante sentire innanzitutto il Prof. Oli, che ho naturalmente ascoltato per intero; gli altri parzialmente, e me ne dispiace; ma molto interessato mi ha, come sempre, l'intervento di Scarselli. Con Scarselli abbiamo avuto, e abbiamo, una non fittissima, ma buona, corrispondenza epistolare; ci siamo conosciuti, io l'ho apprezzato, e lo apprezzo; perciò vorrei dire su di lui qualcosa di più.

La sua poesia mi ha colpito soprattutto per questa impostazione genuina rispetto all'esistenza. Egli dice con pathos poetico le cose della vita; ma non è solo una visione, è una adesione alle cose della vita; la quale è accompagnata anche da una scelta esistenziale, e questo dobbiamo dirlo con forza. Qui non siamo davanti a chi per hobby scrive poesia; qui siamo davanti a chi ha scelto di vivere coerentemente con quello che è il dettato direi quasi dantesco, cioè veramente con quell'imperativo categorico che ti fa uscire dalle strettoie e dalla quotidianità e ti fa fare una scelta radicale di vita. Questa scelta radicale è la poesia. Ecco perché Scarselli, quando parla specialmente delle cose più intime, di quelle che non si oserebbe nominare per falso pudore, si esprime spesso con una certa brutalità, quasi volendo far violenza al lettore; però anche là c'è, tutto sommato, un grande rispetto per come egli le dice. Io ho letto tante sue poesie, tanti libri ch'egli mi ha mandato, anche in altre occasioni, quindi per me questa di oggi è una grande conferma; secondo me Scarselli sostanzialmente scrive un diario, un lungo diario, una confessione pubblica. Mentre tutti noi scriviamo facendo finta di dare ascolto a noi stessi, magari con tanti buoni intendimenti, con tante belle metafore (che poi annullano magari la verità, quella brutale, che dovrebbe uscire), in Scarselli tutti questi eufemismi proprio non ci sono. Può piacere, può non piacere, questo è un problema assolutamente individuale, come sempre nella storia del mondo, nella storia dell'arte, nella storia della poesia; però ci sono certamente nella sua poesia domande esistenziali forti, interrogativi che si pongono imperiosamente alla nostra coscienza. E' questa radicalità di vita, che mi fa sperare che gli eremi, che ognuno di noi si va creando, si possano veramente realizzare, come lui è riuscito a realizzarli, non solo nel nascondimento della poesia, della pagina bianca, ma proprio anche nella vita. La sua è una scelta radicale. A me queste scelte piacciono; e sono convinto che il mezzo termine spesso è un fraintendimento, è la non-scelta definitiva, è quello stare in mezzo che poi non significa nulla. In questo senso Scarselli è radicale; e a me questa poesia radicale - devo dire la verità - piace molto.

Intervento di un'ascoltatrice

Premetto che il contenuto della poesia di Scarselli, e in particolare di questo suo libro, per me va bene, l'ho accettato e condiviso, mi sono anche rivista in quegli attimi dolorosi della vita che lui ha così bene descritto. Però nel corso della sua dichiarazione di poetica mi è sembrato che abbia ribadito l'idea fondamentale che la poesia sia soprattutto riflessione. Io, che sono una profana della poesia, una semplice appassionata, non una studiosa, mi chiedo se la poesia non debba invece essere intesa come totale espressione dell'uomo nelle sue varie sfaccettature, ed esprimere la molteplicità dei sentimenti. Perché nella nostra epoca dobbiamo rifiutare il sentimento? Non è detto che il sentimento debba essere sempre sdolcinato, il sentimento è quello che anima la vita di tutti; perché lo vogliamo sminuire? Che dire allora di tutta la poesia che ci ha preceduto, quella di tutti i tempi, che ha informato la vita dell'uomo nel suo lungo percorso? Che ne facciamo, la dobbiamo rigettare?

Risposta di Veniero Scarselli

Per carità, niente di tutto questo! Ci tengo a precisare e ribadire ciò che ho già detto, cioè che non voglio affatto sminuire il sentimento e tanto meno allontanarlo; ho soltanto detto che lo scopo primario e dichiarato della vera poesia non è mai stato la titillazione volontaria del sentimento; nessun poeta, in nessun tempo, ha mai fatto poesia col solo scopo di suscitare sentimenti e di commuovere; nei tempi più antichi l'intenzione fu di narrare i fatti del mondo e degli uomini insegnando a vivere rettamente (poesia epica), più tardi fu di dare voce ai propri pensieri e accadimenti interiori (poesia lirica) e infine, da cento anni a questa parte è stato il tentativo di penetrare in modo intuitivo l'indicibile, l'irrazionale (simbolismo, futurismo, ermetismo e così via). Oggi, se si vuole che la poesia abbia ancora un senso e una sua nicchia fra le attività dello spirito, credo che questa possa essere soltanto l'esplorazione e acquisizione consapevole delle verità che stanno nascoste nel mondo o dentro di noi, invisibili ai più, o semplicemente trascurate, e che il poeta s'incarica di formularle razionalmente per esplicitarle a se stesso e agli altri; dunque, una conoscenza e una lettura del mondo e di noi stessi, una riflessione sui fatti della vita, dacché l'uomo è all'eterna ricerca di una spiegazione. Durante questa operazione sono fatalmente evocati anche i sentimenti; ciò è inevitabile perché i sentimenti esistono e non si possono abolire né frenare; qualunque cosa si faccia, si dica, o si scriva, evoca necessariamante un'emozione, un sentimento; ma questi sono una specie di prodotto secondario e inevitabile, non sono lo scopo dichiarato della poesia. Quindi, ripeto, io non rifiuto le emozioni, tanto è vero che io stesso, scrivendo, mi commuovo. Posso concedere che un'emozione sia spesso la causa prima, il motore iniziale che induce a una riflessione esistenziale, la cosiddetta ispirazione, ma non il fine ultimo. Ciò che nobilita la poesia facendola diventare un altissimo atto creativo è solo la ricerca consapevole delle verità della vita.

Intervento di un ascoltatore

Semplicemente volevo osservare che non si sta parlando della poesia in genere, ma di quella di Veniero Scarselli. E allora volevo dire, a proposito della poesia che ho potuto ascoltare, che il Poeta in un momento di emozione grandissima si è trovato davanti a un dilemma: scrivere queste emozioni o andare dallo psicanalista. Lui ha preferito la prima soluzione e gli è riuscita bene.

Risposta di Veniero Scarselli

Grazie per la caustica osservazione, che mi offre il destro di rispondere precisando ancora meglio ciò che ho già detto alla precedente ascoltatrice. E' certamente vero che io ho scritto Piangono ancora come bambini sotto l'urgenza di una forte emozione; ma non sono stato certo attanagliato da nessun dilemma, se andare dallo psicanalista oppure sfogarmi scrivendo il libro. Per me, come per qualsiasi poeta, lo scopo dello scrivere poesia non è di "sfogarsi", o scaricarsi in qualche modo. Ripeto ciò che ho già detto: è vero che l'emozione è qualche volta (non sempre!) l'ispirazione allo scrivere; ma di qui a dire che si scrive per "sfogarsi", cioè per abbandonarsi alle emozioni e crogiolarvisi, il passo è lungo. Al contrario, direi, si scrive semmai proprio per star lontani dal pantano delle emozioni e raggiungere attraverso la contemplazione un livello superiore di lucida consapevolezza conoscitiva. Ma tutto questo non è una peculiarità della mia poetica; qualunque poeta - e come paradigma cito per tutti Leopardi - compie questa operazione; tutta la poesia insomma è sempre stata o narrazione o riflessione. Però, se col termine ambiguo "sfogarsi" l'ascoltatore intendeva il raggiungimento di questo livello di contemplazione, ha ragione: ho preferito lo "sfogo" della poesia piuttosto che lo psicanalista!

Intervento di Salvatore Di Marco

Io faccio una brevissima considerazione. Ho ascoltato questa che possiamo chiamare una dichiarazione di poetica di Veniero Scarselli. Può essere condivisibile, come può non esserlo. Quello che tutto sommato mi interessa non è tanto il principio, la poetica, il sistema filosofico, ma l'atto concreto di poesia; per cui, se noi vogliamo farci un'idea di che cosa sia Scarselli, o chiunque altro sia impegnato in una scrittura letteraria, forse le poetiche da cui egli parte aiutano poco a capirlo. Ad esempio, se devo basarmi sul libro di cui si è parlato, io trovo una profonda differenza fra le dichiarazioni di poetica e il modo in cui l'uomo-poeta Scarselli si muove e realizza queste cose; e non mi meraviglia, perché ci sono le poetiche, e ci sono poi i poeti coi loro atti concreti di poesia; ci sono, dall'altro lato, i tentativi di decodificazione, cioè le scuole critiche, gli indirizzi di critica letteraria, le metodologie di approccio alla lettura e così via; c'è un modo di scrivere e c'è anche un modo di leggere. Le mediazioni, poi, sono alla fine estremamente personali. Voglio dire che un dibattito sulle pagine che Scarselli ci ha dato ci porterebbe a confrontarci con la filosofia dei massimi sistemi, alla quale personalmente credo poco. Infatti, un'idea della poesia ciascuno se la fa per le esperienze che ha vissuto, per il contesto culturale in cui vive, per il secolo nel quale ha la ventura di trovarsi. L'idea di poesia che poteva esserci nel Duecento, o nel Settecento, era profondamente diversa dall'idea di poesia di oggi. Ma dico anche di più: l'idea stessa di sentimento è già profondamente diversa. Probabilmente Scarselli combatte e contesta il superfluo della poesia; ma è tutto sommato ciò che ogni poeta tenta di fare con gli strumenti che ha. E allora quello che poi alla fine conta sono i libri che si scrivono, le cose che si dicono concretamente e la capacità che queste cose hanno di accordarsi con la nostra esperienza di uomini del nostro tempo. Allora la poesia diventa patrimonio di tutti.

Risposta di Veniero Scarselli

A Salvatore Di Marco rispondo che ha fondamentalmente ragione quando dice che ciò che conta è il risultato poetico concreto; ma vorrei anche fargli osservare che dietro ogni "atto concreto di poesia" prodotto da uomini consapevoli che si dichiarano intellettuali, c'è sempre stata una consapevole ideologia che lo ha espresso, cioè una poetica.

A chi mi ha chiesto spiegazioni sul perché io eviti le sillogi di poesie sparse e preferisca invece scrivere poemi o racconti in versi, rispondo che quando c'è un filo conduttore che unisce le singole poesie o, meglio, che percorre un poema unitario, l'autore riesce ad imprimervi una più larga visione della vita e del mondo e quindi a lasciare nella coscienza e nella memoria del lettore qualcosa di più durevolmente significativo. Una singola breve poesia può esprimere un singolo bagliore di intuizione; manca tuttavia assolutamente quella visione di insieme che esaltando molte singole intuizioni dà luogo a una più vasta e articolata meditazione esistenziale. Provate insomma a chiedervi che cosa più facilmente persista nella memoria, se una singola poesia slegata da tutto, oppure un vero libro con una sua storia e un suo vero e proprio assunto.

Intervento di Anna Balsamo

Io vorrei far notare una cosa che qui ancora non ho sentito e che tuttavia il Prof. Oli ha avuto modo di ribadire in diverse altre occasioni, che cioè Veniero Scarselli è un poeta epico. Quindi non è vero che il suo star lontano dalle sillogi sia una cosa strana; fra i poeti che non si sono fermati alla singola lirica, abbiamo tutti i classici, da Omero a Virgilio, a Dante stesso; e anche Scarselli è poeta epico. Vorrei inoltre rispondere a quel signore che scherzosamente diceva che Scarselli ha risparmiato lo psicanalista: è evidente che egli non conosce le opere precedenti di Scarselli, nelle quali non v'è davvero traccia di "sfogo" e in cui si manifesta tutta un'epica dell'uomo; l'uomo sperimenta una discesa agl'inferi come accadeva agli eroi dei poemi classici. E' una discesa agl'inferi esistenziale per raggiungere una verità superiore, una finalità dell'esistenza umana cui lui mai rinuncia. Per questo è un vero poeta epico; c'è una vera e propria epopea scarselliana in tutto il ciclo delle sue opere; e anche ogni opera è un'epopea a sé. Sarebbe lungo parlare di ogni opera come lui l'ha trattata; vorrei solo, come esempio, far osservare che anche nelle prime sue opere, quelle - per intenderci - della trilogia, che trattavano problemi edipico-sessuali, l'intento non era certo di "sfogarsi", ma di indagare il perché di quest'avventura esistenziale in cui il povero protagonista si agitava preso nella trappola dei suoi istinti.

Intervento di Giancarlo Oli

Vorrei manifestare il mio pieno accordo con Anna Balsamo. Non c'è da sottilizzare o dibattere sui massimi sistemi, perché si arriva facilmente a classificazioni astrattizzanti. Scarselli ha parlato di poesia come conoscenza; e non c'è niente da obiettare, perché la conoscenza come fine, pezza giustificativa della poesia, è proprio quella che viene accreditata anche da Mario Luzi attraverso un suo filosofo simpatizzante. Quella di Scarselli è però anche un'altra cosa, è un'altra esperienza di vita che lo ha portato a ritenere, un certo giorno, che fare ricerche sulle molecole o sugli ormoni non era una cosa che potesse portarlo alla conoscenza, e perciò si è dato alla poesia; è una cosa dunque un po' diversa; cerchiamo di non fare degli utopismi astratti. Vorrei invece insistere ancora sul fatto che la sua poesia recupera una dimensione di letterarietà quale elemento tipico della lingua italiana e che quindi, specie in questo momento, può avere un valore altamente educativo.

Per concludere, permettetemi di dire un'altra cosa, in particolare al Sig. Assessore. Ho colto qui, nel livello di questa manifestazione, nella preparazione e nella competenza dei personaggi che mi sono trovato accanto, una serietà e una buona volontà che purtroppo nel mio paese toscano non trovo. Per fortuna io faccio il lessicografo e non faccio il poeta; ma quando viene fuori un poeta del calibro di Scarselli, credete a me, in questo momento dovrebbe essere considerato una benedizione per Firenze, che è così malata, come disse altra volta il nostro concittadino Dante Alighieri. Va bene che nemo propheta in patria, mentre fuori lo si onora; però, davanti a una manifestazione di così alto livello, in onore di Scarselli, io non posso fare a meno di essere veramente entusiasta e di testimoniare il mio compiacimento e la mia gratitudine.

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