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Atti della Tavola rotonda promossa da Asa (Associazione Scrittori e Artisti)
a Palermo, 2 dicembre 1994, Biblioteca Comunale su:
Poesia e poetica di Veniero Scarselli
in: “Il Giornale dei poeti”
II, nr. 1, 2004,
Inserto I-IV.
Interventi di:
Anna Balsamo - Annamaria Bonfiglio - Salvatore Di Marco - Alfio Inserra -
Giancarlo Oli - Nicola Romano - Tommaso Romano - Veniero Scarselli
Indice
- Introduzione di
Nicola Romano
- Intervento di
Giancarlo Oli
- Intervento di
Alfio Inserra
- Intervento di
Salvatore Di Marco
- Intervento di
Annamaria Bonfiglio
- Intervento di
Veniero Scarselli
- Intervento di
Tommmaso Romano
- Domanda di
un'ascoltatrice
- Risposta di
Scarselli
- Domanda di un
ascoltatore
- Risposta di
Scarselli
- Intervento di
Salvatore Di Marco
- Risposta di
Scarselli
- Intervento di
Anna Balsamo
- Intervento
conclusivo di Giancarlo Oli
Introduzione di Nicola Romano
Non a caso abbiamo
intitolato questo incontro Poesia e poetica di Veniero Scarselli, perché
a mio modo di vedere sarebbe un poco riduttivo andare a cercare e a leggere una
certa poesia di un certo volume di Scarselli; di solito le sue poesie non hanno
titolo, al massimo sono solo numerate, e forse addirittura non basta un suo solo
volume per esaurire la sua multiforme tematica. Penso che la sua "unica poesia"
sia nella poetica; una poetica robusta, provocatoria, magmatica, più volte
dichiarata e coerentemente applicata nei volumi ch'egli ha via via pubblicato e
che ci piace qui ricordare: Isole e vele è la prima pubblicazione,
avvenuta nel 1988, poi è seguita Pavana per una madre defunta nel '90,
Torbidi amorosi labirinti nel '91, Priaposodomomachia nel '92,
quest'ultimo un poema drammatico che è stato rappresentato alla fine del Luglio
scorso nel parco della Villa Guerrazzi del comune di Cecina. Qualche critico in
queste ultime tre raccolte vede completata una trilogia con unità di intenti e
di poetica. Del 1993 è il volume Eretiche grida, mentre di quest'anno è
il volume Piangono ancora come bambini, che fra l'altro è vincitore della
sezione editi del Premio Acalipha, la cui cerimonia di premiazione si svolgerà
proprio domani al Palazzo Municipale di piazza Pretorio.
Ma vediamo che cosa ci
dicono le note biografiche. Veniero Scarselli è nato e ha studiato a Firenze;
dopo una formazione umanistica e un'intensa sperimentazione poetica, si è
laureato in Biologia dedicandosi alla ricerca scientifica, ma continuando a
praticare l'esercizio poetico; ha conseguito la libera docenza in Fisiologia e
ha pubblicato numerose memorie scientifiche. A un certo punto - e qui prende
corpo l'originalità del personaggio e la sorprendente consistenza della sua
poetica - Scarselli si rende conto che la scienza non è in grado di dargli
certezze e che solo la scrittura poetica è l'unico strumento capace di offrire
delle rappresentazioni soddisfacenti, perché non smentibili, della realtà. Ecco
che Scarselli decide allora di abbandonare l'attività professionale e si ritira
in una casa colonica sulle pendici dell'Appennino tosco-emiliano, sulle colline
di Pratovecchio, dove attualmente vive facendo (l'ha dichiarato lui stesso) il
contadino, con corredo di campi, orticello e animali. Da una didascalia a
un'intervista fatta all'Autore e riportata su un'intera pagina del quotidiano
"L'Indipendente" del 27 Gennaio 1993 leggiamo: <La scienza non poteva offrirmi
nessuna chiave per la comprensione della realtà del nostro universo; solo la
poesia manteneva aperta per me una possibilità di aderente rappresentazione del
mondo (....) Così lo scienziato ricercatore ha abbandonato la vita accademica
per quella durissima della campagna, dove, tra greggi e lavori nei campi, ha
ricominciato a scrivere. Con i suoi poemi spesso scabrosi ha raccolto consensi
sempre più entusiastici entrando di prepotenza nel flusso della letteratura
italiana; e non risparmia critiche sui nuovi colleghi prigionieri di una poetica
fatta di frammenti e di parole vuote che non lasciano traccia>. Riportare adesso
il contenuto concettuale di tutta l'intervista sarebbe come anticipare i vari
temi che saranno qui trattati; e sarebbe anche sciupare con aridi riporti quello
che l'Autore può dirci con la sua viva voce mostrando il vivace temperamento che
ora si nasconde sotto quest'aspetto apparentemente tranquillo. Dice infatti
anche Rossano Onano nel delizioso saggio L'equivoco di Edipo nella trilogia
di Veniero Scarselli: <Questa cosa di fingersi a volte sprovveduto è una
delle sue irresistibili caratteristiche eccessive. E', per il resto,
egocentrico, intemperante, innocente come un bambino; la sua dichiarazione di
poetica è infatti imperiosa e categorica ed ha la caratteristica infantile di
non ammettere le sfumature>.
In un confronto tra poeti
come quello di stasera, la sana provocazione di Veniero Scarselli può dare
dunque stimolo ad un discorso sulla poesia in genere; ma anche sull'attuale
stato di salute della poesia, che ora va avanti sfidando molte resistenze
sociali e sopravvive in mezzo a tante ambiguità e a tante incertezze;
provocazione soprattutto che chiama affettuosamente in causa la maggior parte di
noi poeti cosiddetti "intimisti" calati forse dentro un nuovo romaticismo meno
concreto ma liricamente accattivante. Comunque sia, è compito degli scrittori e
degli addetti ai lavori assegnare alla poesia quell'autonomia in senso civile
che le è propria, custodire la fede e l'impegno verso la parola umana
riproponendo continuamente, come dice Mario Luzi, il processo di conoscenza e di
illuminazione attraverso varie forme e varie invenzioni, la cui coerenza è da
vedere più tardi, a cose fatte. Ma il mio compito si ferma qui; esso era di
introdurre i temi e i personaggi di questo incontro. Gli illustri relatori
sapranno analizzare con adeguata ed esperta visione critica il magma poetico che
scaturisce dall'anima di Scarselli; un'anima che sembra assumere una sua
fisicità, una sua pulsazione biologica, un'essenza quasi primordiale, come se
volesse ricondurre il tutto alle origini dell'uomo per poi ripartire da capo; e
anche una di quelle scritture, credo, un po' iniziatiche, una discesa agl'inferi
in cerca di quella solitudine che precede poi la purificazione della poesia. Per
completare questo mio quadro, per capire meglio quello di cui si andrà a
parlare, e per meglio inquadrare la matrice scritturale di Scarselli, penso sia
il caso di leggere qualche testo tratto da alcuni suoi volumi.
Viene fatta lettura di alcune pagine
da Isole e vele e da
Pavana per una madre defunta di Veniero Scarselli.
Intervento di Giancarlo Oli
Cari
ed illustri amici, Autorità. Sono compiaciuto e lusingato oltremodo di essere
stato convocato qui al fianco del grande amico e grande poeta Veniero Scarselli,
per parlare un po' attorno alla sua poesia dal mio punto di vista, cioè da
quello della lingua. Innanzitutto mi lusinga ancora trovarmi qui a Palermo,
perché in certo qual senso Palermo nella storia si affratella a Firenze, avendo
qui avuto luogo tanti secoli fa il tentativo di mettere a confronto la lingua
letteraria con la lingua parlata nel luogo, quando allora le lingue letterarie
potevano essere molto diverse; non penso solo al latino, penso al provenzale,
penso al francese antico. Questo fatto nuovo, rivoluzionario e veramente gravido
di avvenire, si è verificato qui per la prima volta; e poi per la seconda volta
a Firenze. A Firenze ci sono stati dei grandi poeti, Guido Cavalcanti, Dante
Alighieri, che non hanno inventato la lingua italiana ma hanno anch'essi
semplicemente messo a confronto la lingua parlata tutti i giorni con le lingue
letterarie; così è nata la premessa di una lingua letteraria, o di una
letterarietà della lingua, che ha accompagnato la vicenda storica italiana per
tanti secoli conferendo alla lingua questa grande, precipua sigla di
letterarietà che per l'italiano è stato motivo di grande pregio e apprezzamento
in tutta Europa e nel bacino del mediterraneo facendo salire il numero dei
parlanti e intendenti lingua italiana per tanti secoli. Ricordiamo come
gl'inglesi elisabettiani conoscessero l'italiano e l'apprezzassero; ricordiamo
come nei secoli successivi i librettisti d'opera italiani fossero accolti senza
traduzione in tutte le corti d'Europa; ricordiamo come ancora alla fine del
secolo scorso l'italiano, da Tunisi a Porto Said, fosse una lingua franca in
tutto il bacino del Mediterraneo. Purtroppo la quantità dei parlanti al giorno
d'oggi si è molto ridotta e la vicenda dell'italiano è attraversata da numerose
contradizioni ed equivoci, ha cioè perduto quella linearità di tipo letterario
che aveva conservato fino a una cinquantina d'anni fa. Sto esponendo fatti e
concetti di una certa genericità, e vorrete perdonarmi; però bisogna dire che la
moderna informazione e comunicazione hanno molto compromesso la lingua
letteraria al giorno d'oggi, per cui questa è scarsamente funzionante nella
vicenda della nostra cultura e nella vicenda della nostra società; il che
implica a un certo punto una difficoltà anche nell'agire, sia socialmente che
politicamente, in seno a questo paese, in seno a questo popolo. La letteratura
in sostanza è stata abbandonata.
Proprio conversando così (nella conversazione le cose escono con maggiore
immediatezza, magari in modo rozzo ma certamennte più sano e più efficace)
ricordo che l'altro giorno dicevo all'amico Scarselli che il risultato di questa
sua operazione poetica è stato di recuperare la letterarietà della lingua (in
questi termini infatti ho cominciato a occuparmi della sua poesia e ho anche
invitato ad occuparsene un illustre italianista come Mario Martelli); e gli
dicevo anche che mi sembrava che lui si riallacciasse al filone di grande
sperimentalismo letterario che va dal Quattrocento al Cinquecento, ai grandi
poeti cavallereschi, Pulci, Boiardo, Ariosto, e poi Tasso; e che lui volesse in
qualche modo, mutatis mutandis, riportare di attualità quel linguaggio,
ricostituire cioè un linguaggio letterario, restituire la letterarietà
all'italiano. Lui mi ha risposto <Certo, è dal principio del secolo che i poeti
giocano con la lingua e ora sarebbe il momento di non scherzarci più>. Ecco
un'uscita, una constatazione, che io ho apprezzato moltissimo, perché vi ritrovo
una risposta a tutte le mie esigenze e tormenti di studioso e amatore della
lingua italiana; una lingua che oggi vedo assai compromessa, essendo purtroppo
decaduta la sua letterarietà; si è cominciato, come voi sapete bene, con un
certo lassismo nelle letture scolastiche, con progressivi abbandoni di autori e
di testi e con la polverizzazione di certi elementi che prima erano considerati
essenziali, ad esempio il motivo del gusto, il motivo della imitazione; la
quale, se intesa in un certo modo e non come pedissequa copiatura, è la premessa
per un perenne rinnovarsi di certi gusti. Tutto questo è stato progressivamente
abbandonato; per cui in luogo di una scrittura seria e composta hanno preso il
sopravvento le coniazioni troppo facili e lo stile giornalistico, o per lo meno
un certo stile giornalistico molto raffazzonato e strafalcione. Quindi noi
assistiamo al delinearsi di una fisionomia di lingua che onestamente lascia
molto a desiderare, specie nei confronti di quelle lingue concorrenti che oggi
aspirano a una sorta di universalità - quella che secoli fa spettava alla lingua
italiana - e che hanno la possibilità di accogliere termini da tutte quante le
aree linguistiche; siano esempio l'angloamericano e lo spagnolo, che riescono ad
adattare alle proprie strutture fonetiche e morfologiche le parole non
originarie. L'italiano, che ha perduto questa capacità, è oggettivamente al
giorno d'oggi una lingua che non ha più forza, non ha più verve; è una lingua -
qualche volta dico io paradossalmente - che non ha più avvenire; onestamente,
non potrei dire quanti secoli ancora durerà, ma, se si guardano le cose
obiettivamente, non dovrebbero purtroppo esser molti.
Allora io penso che se abbiamo un esempio di poesia come quella di Scarselli,
che riconquista letterariamente la parola e la struttura della lingua, la
riconquista nel modo più autenticamente italiano ridandole il vigore che finora
mancava, non può che essere benvenuto. L'idea velleitaria di una riconquista del
genere è stata espressa fra l'altro anche da un poeta abbastanza noto e fin
troppo celebrato cui ha fatto riferimento poc'anzi Nicola Romano: "Vola alta
parola... che tu non sia disabitata trasparenza" ecc. ecc.; ma una cosa è dirlo,
altra cosa è sperimentalmente e fattualmente portarlo avanti. Il fatto che
Veniero Scarselli ci abbia provato, e ci sia riuscito, mi rende molto fiducioso.
Per questo noi tutti, e in particolare i siciliani e i fiorentini, dovremmo
molta gratitudine e molto plauso a Veniero Scarselli. Grazie.
Viene fatta
lettura di alcune pagine da
Torbidi amorosi labirinti e da
Priaposodomomachia.
Intervento di Alfio Inserra
A me
il gradito compito di parlarvi dell'ultima recente opera di Veniero Scarselli,
Piangono ancora come bambini, edita alla fine del 1994 per l'Editore
Campanotto; opera certamente molto interessante, che, come avete sentito, domani
riceverà il Premio Acalipha. E' un'opera scritta di getto durante la veglia
funebre della notte fra il 4 e il 5 Settembre 1991, in occasione della morte
della Mamma, Maria Livia Bressanin. E' quindi un'opera che tocca particolarmente
coloro che hanno perduto le mamme, un taglio certamente fra i più traumatici
nella vita dei figli; ma tocca anche un po' tutti, perché è un'opera autentica,
un'opera - ecco l'originalità della prima operazione poetica di Scarselli - non
mediata dalla riflessione come invece succede generalmente nei casi di
"genitoris orbatio" e di cui pure abbiamo esempi illustri nella poesia di
Ungaretti e di Quasimodo; abbiamo anche delle realizzazioni memoriali, ricordate
la Conversazione di Sicilia di Vittorini, questa sorta di "discesa alle
madri"? Invece, questa poesia immediata di Veniero Scarselli, questa sorta di
implosione (non di "esplosione"!), ci propone una sorta di "restitutio in
integrum", perché - come dice Scarselli all'inizio - Quest'opera è un omaggio
alla memoria di tutte le madri, mai in vita abbastanza amate. Noi di questo
ammanco d'amore di cui siamo debitori alle nostre mamme ci accorgiamo purtroppo
dopo la loro morte; allora, quale cosa più bella, nella riservatezza di questo
dolore, cominciare una "restitutio in integrum" con delle frasi che alludono
all'allattamento (allattarla con la poppa di figlio, scrive Scarselli nel
poema), ridando vita, tramite la poesia, alla Mamma che certamente ci ha dato
tutta la sua vita a cominciare dall'allattamento.
Come
vi dicevo, questa forma di immediatezza - o immediazione -comincia per Veniero
Scarselli nella notte in cui egli si è volontariamente isolato nella camera
ardente e ci conduce a riflettere insieme a lui. Anch'io ho pensato con lui in
un mondo di immmagini. Vi ricordate Alice nel paese delle meraviglie,
oppure Il regno dei fidi di Emanuele Cante: noi entriamo improvvisamente
per mezzo della poesia in un mondo diverso, in un mondo di immagini in cui ci
immette di forza il Poeta. La prima visione che ci si offre, bellissima, di una
veglia in una sala d'armi, mi ha ricordato un'altra bella poesia di Carducci,
Poeti di parte bianca; anche Nuccio, nel castello della Torre a Mulazzo, nel
castello di Franceschino Malatesta, attende nella notte in una sala d'armi. In
Piangono ancora come bambini, nel momento di più grande meditazione,
quando il Poeta si sente veramente isolato dal mondo, comincia a maturare questa
forma implosiva di dolore, di "restitutio in integrum" verso la madre; ne nasce
una poesia fortemente icastica, piena di immagini, una poesia certamente forte,
e ci rendiamo subito conto che il Poeta tenta una operazione propria appunto
della "restitutio"; essa inizia in questa povera veglia in cui Scarselli, con
parole forti ma emblematiche, dice che è il figlio a partorire il corpo della
madre; ed è bellissima questa forma di restituzione alla vita che lui si può
permettere in quanto poeta; la sua forza deriva proprio da questa sicurezza,
l'unica che gli rimanga nel momento in cui ha perso tutto di quello che poteva
essere il suo rapporto con la madre. Questo modo di ridare la vita comincia
proprio dall'atto iniziale, dall'allattamento: la sua sarà la poppa - poetica -
dalla quale la madre potrà suggere quel latte che ora gli viene a mancare; i
morti infatti - come rappresenta il titolo - piangono ancora come bambini,
restano nudi e inermi alla fine del loro ciclo vitale.
Ricordate la bella filosofia di Heidegger, per cui noi viviamo per la morte;
probabilmente siamo scagliati dal non-essere in questo essere, ma certamente
viviamo per tornare al non-essere. Allora, di fronte a questo muro che Foscolo e
Leopardi chiamavano "arido velo", il Poeta cerca di reagire in qualche modo,
come ha reagito Foscolo, come ha reagito Leopardi; e come si può reagire contro
la morte? Soltanto con la vivezza di questo afflato poetico, che certamente è
l'afflato di Lucrezio; vi ricordate "alma verae": alma è la poesia che può dare
l'alitus, la vita, ritornare a dare la vita. Ma nel primo attimo di questa
ri-creazione c'è lo sgomento della solitudine, perché man mano che il Poeta
comincia ad essere presente a se stesso capisce che si allontanano tutte le
altre presenze, tutte le altre immagini, e lui resta solo dinanzi a questa
presenza terrifica del Male che si cela impunemente - dice Scarselli - dietro
le finte pupille della Morte. La Morte sembra avere una sua prosopopea, per
cui, anche se la mutili, o la uccidi, il Male caparbiamente la rialza;
quindi è una lotta immane, egli deve ostare con il senso heideggeriano di questa
vita inautentica di cui vuole recuperare l'autenticità per mezzo di una forza
poetica che egli sente essere capace di ricreare la figura della madre; e
comincia proprio da quella bellissima "discesa alle madri" di Vittorini di cui
dicevamo, dalla forza affabulatrice della memoria, e detta il primo aforisma:
E' mia per sempre. La prima certezza infatti è questa: che la madre - che
pure è morta per gli altri - resta sua per sempre perché la sua memoria, questa
forza che egli comincia a trovare in se stesso, gliela restituisce. Allora
bisogna proteggerla da quella che è la barbarie del mondo; ricordate un'altra
bellissima immagine di Foscolo, quell'upupa nel teschio, a proposito di Parini
che veniva un po' trascurato; bisogna dunque difendere la madre da questa forma
di barbarie dell'uomo. C'è anche una bella poesia, che denuncia tutto questo, e
che ho particolarmente segnato, la XIII: Anche i branchi cialtroni degli
uomini / abbandonano per terra senza amore / insieme coi propri escrementi / le
sfortunate carogne ingombranti / dei loro inutili vecchi / come i branchi di
animali che pascolano / a testa china incuranti sotto le stelle: una bella
immagine sui cimiteri, le stelle, il desiderio di evadere.
Questo libro è dunque un recupero memoriale, è la memoria che riporta in vita la
mamma di Veniero Scarselli, che, come vedete anche voi, è un grande poeta e ha
questa magia, questa forza, di poterla riportare in vita. Dice così: E'
ancora calda, dolce, forse affabile, / emana il suo solito odore / un po'
stantio di buona vecchia madre. Comincia tutto un gioco di incastri in cui
egli si sente di fronte alla madre come di fronte a una piccola bambola, una
bambola da vestire, da curare; una bambola inanimata, ma che rappresenta una
prima prova di agnizione, come per le bambine è la comparsa dell'istinto e
dell'atteggiamento materno. Nella sua "restitutio in integrum" il Poeta vuole
recuperare questo atteggiamento verso la propria madre e il gioco continua
finché questa piccola bambola (vedi poesia a pag. 27) meriterà il suo bacio
resuscitatore come una bella addormentata nel bosco. Ecco la potenza evocatrice,
fabulosa e affabulatrice, della memoria; il Poeta si rende conto che egli può
operare una sorta di esorcismo contro la morte, una sorta di scongiuro;
importantissimo, perché è un rapporto che in presenza della morte sgomina tutti
i tabù, cominciando dal sesso. Noi sappiamo, conoscendo la produzione di Veniero
Scarselli, che il sesso è stato una componente decisiva e decifrabile per ogni
suo poema; ha avuto una parte importantissima, quasi ossessiva; ora è bello che,
in questo momento di autenticità del rapporto con l'eterno, Veniero Scarselli si
renda conto di poter esorcizzare questo tabù, si renda conto che il sesso fa
parte non solo della vita ma anche della morte e quindi la elimina. Sentite,
XVIII poesia, pag. 28: Oggi la morte / ha consentito d'accedere ai segreti /
tanto a lungo gelosamente nascosti / di quel pube ormai senza veli / né peccato:
era quello della Mamma, / col suo enorme sesso nel mezzo / bello, regale,
possente, / ancora solennemente assiso / sul trono della vita e della morte.
Questa coscienza della realtà di una cosa, di cui noi abbiamo fatto una
mistificazione, è l'inizio di un processo di demistificazione che appunto si
compie per mezzo della poesia; improvvisamente ci rendiamo conto che quello che
era un dèmone maligno, un doppio, un io interiore certamente mistificante,
finalmente esce fuori dal poeta e gli si mette di fronte, separato, diverso: è
uscito, come l'esorcismo fa uscire il Maligno. Egli si rende conto che ciò che
prima era la Mamma ora rappresenta un'altra cosa: e invece mi hanno respinto;
/ anche la madre, chiamata ad altri amori, / a impenetrabili amplessi con la
Morte. / Mi ha lasciato per sempre la mano / e ho potuto conoscere la sua pena /
nel chiudermi la porta della casa. Egli ha capito che questa separazione
riguarda la corporeità della madre, quello che della madre è morto, quello che
bisognava demistificare, quello che segnava la inautenticità del rapporto e in
cui certamente il figlio molte volte soffriva verecondia di fronte alla madre.
Non era mancanza d'amore, ma una sorta di riserbo di cui ora il figlio si pente,
purtroppo soltanto dopo la morte; capisce d'aver giocato in modo equivoco anche
nei rapporti del proprio affetto con la madre, di non aver potuto realizzare un
rapporto totale, e che ora soltanto, in presenza della morte, può recuperare
l'autenticità del suo amore per lei. Mentre l'amore che la madre gli ha dato,
fin da quando ha cominciato ad allattarlo, era una forma di dedizione estrema,
totale, assoluta.
Il
Poeta dunque vede finalmente dal di fuori se stesso e la madre; è una poesia
bellissima quella di pag. 44: Una pia donna / appena uscita dalla messa delle
sette / s'è fermata sulla soglia; / forse ha detto una preghiera, / forse ha
solo figurato se stessa / stesa un giorno sul marmo del mondo / coi fiori, i
nastri, l'abito da sposa; / e un figlio sedutole accanto / a tentare e ritentare
testardamente / impossibili comunicazioni d'amore. Egli si vede accanto alla
madre in questo impossibile tentativo di comunicare. E' importante, perché
questo è il momento in cui il Poeta ha coscienza di quello che i latini
chiamavano l'exitus, l'uscire fuori da questa vicenda in cui siamo
precipitati quando siamo calati nell'essere. L'exitus è "uscire" dall'essere per
ritornare al non-essere, cioè ritornare alla autenticità. Il processo della
morte è compiuto, dice Scarselli. Allora questa veglia è servita a
comprendere il processo della morte, che non è il processo della morte della
madre, ma il processo della morte cosmica, cioè quello che ci permette di vedere
qual'è la vita autentica: Il processo della morte è compiuto. / Tutto è stato
disfatto, abbattuto. / Anche l'anima certo s'è smarrita / nei penosi labirinti
dell'esilio. Ci rendiamo finalmente conto che Veniero Scarselli per
mezzo di questo sacrificio, per mezzo di questo dolore, è riuscito a comprendere
il rapporto che c'è fra l'uomo e questo meccanicismo universale che ci stritola,
ci fagocita, ci costringe ad una esistenza inautentica, ci costringe a sbattere
contro il suo muro, quello che gli antichi greci chiamavano l'ananche, il
destino. Noi siamo schiacciati da questo meccanicismo universale; pensate a
Leopardi, pensate a Foscolo, che si sentivano oppressi; e come si può reagire?
Con la poesia! E' l'unico modo, diceva Foscolo, con cui noi possiamo recuperare
quell'immortalità che altrimenti non abbiamo; non c'è nessuna forma certa di
superamento della vita, neanche quella esistenziale, come dicevano Heidegger e
Kirkegaard, perché tutta la vita è angoscia. Per uscire da questa angoscia,
possiamo solo recuperare i nostri ideali, uno dei quali, importantissimo, è la
poesia. Allora, dove Foscolo recitava e di fiori odorata arbore amica / le
ceneri di molli erbe consoli, Veniero Scarselli finalmente, nell'ultima
poesia, anche questa bellissima, capisce che la sua funzione di recupero è
esaurita, che il suo rapporto ritorna a incasellarsi in quella ragione per cui
tutti i figli naturalmente possono rendere omaggio alla madre con la memoria
supplendo tutto quell'amore in cui secondo loro hanno mancato, ma che non deriva
da mancanza d'amore, deriva da una mancanza di recupero; il quale non può essere
giornaliero, quotidiano, perché il recupero si può avere in presenza di un
trauma, di uno schock, di quello che necessariamente dobbiamo avere e che è la
morte. Come il Foscolo, che volendo recuperare quest'entità parla di "alberi
amici", Scarselli dice: Ma per ora dovrò contentarmi / di custodire il suo
umile giardinetto / con questo muto segno di marmo / e il lumino tremolante
sempre acceso. / Per fortuna ha dei buoni vicini / e ho piantato anche il mirto
odoroso, / la lavanda, il pepolino, la cedrina; / loro a ogni nuova stagione /
risorgono (ecco il mito della poesia che fa risorgere chi altrimenti non
avrebbe nessuna forma d'immortalità) e forse ogni volta / là sotto tremerà
qualche cosa. / Chissà se nel gelo dell'inverno (non è solo il gelo delle
stagioni, è un gelo emblematico, il gelo del cuore) per riscaldarsi sotto
tanta neve / in quelle povere case diroccate / dei loro corpi senza pace anche i
morti / possono almeno stringersi insieme.
Intervento di Salvatore Di Marco
Devo
dire subito che all'inizio il mio approccio con la poesia di Veniero Scarselli -
e mi riferisco ai libri antecedenti a quest'ultimo pubblicato con Campanotto -
tutto sommato non mi aveva gran che coinvolto, probabilmente per certe mie
sordità, probabilmente perché certi libri di poesia, o le mode, ci condizionano
nella lettura dei testi poetici; ma quando ho ricevuto questo Piangono ancora
come bambini, in occasione del premio Acalipha, e mi sono immerso nella
lettura, ho dimenticato sia le precedenti opere di Scarselli che quelle che
erano le mie incombenze di giurato e mi sono trovato alla fine della lettura
sgomento, mi sono trovato lettore indifeso; ma perché? La spiegazione è che qui
non c'è la letterarietà della scrittura; la scrittura letteraria mi è parsa solo
uno strumento, un contenitore ancora troppo piccolo perché potesse essere
interamente riempito non tanto da un dettato poetico interiore ma da una intera
vicenda umana che tocca i punti essenziali dell'esistere: la nascita e la morte.
Non ho saputo distinguere se questo libro è un libro di poesia, una narrazione,
una testimonianza, una pagina di dolore, una pagina che richiede il riscatto
dell'amore contro la morte. Ho cercato di decifrare il mio sgomento, che non era
soltanto una complicità, una solidarietà con lo sgomento dell'Autore; era
qualcosa che coinvolgeva le domande fondamentali che ciascuno di noi o si pone
drammaticamente, o rimuove.
La
vicenda è stata accennata dalla relazione di Alfio Inserra; io mi sono
immaginato questa candida, fragile, indifesa vecchietta, e la solitudine
intorno; e questo figlio che non ha il dolore del figlio, ma il dolore nella sua
essenzialità, dolore che non è rivolta, ribellione contro la morte, ma è il
ripercorrere l'itinerario di un amore, dell'amore che comincia il primo giorno
della nostra vita e che continua come vicenda e ci caratterizza, che segna il
nostro esserci, il nostro destino, il nostro modo di essere uomini. Allora mi è
parso assolutamente superflua ogni ricerca di critica letteraria che tentasse di
collocare l'opera nella variegata mappa delle correnti letterarie dei nostri
giorni; mi è sembrata un'operazione del tutto superflua, perché il libro ha una
sua unicità che lascia passare in second'ordine una valutazione strettamente
critica, tanta è la tensione umana di ogni pagina e di ogni verso. E' solo dopo,
ad una rilettura del testo, che scopriamo una non studiata, non voluta, schietta
coincidenza fra tensione umana e tensione lirica. Il testo non è un insieme di
poesie, ma sono parti collegate, ha un respiro poematico, è un poema, un
racconto, una narrazione organica dal primo fino all'ultimo momento, un dialogo
continuo con la morte e con la vita; e tutto questo dentro un processo di
trasfigurazione, di immagini, di metafore, con un linguaggio che mantiene sempre
una limpidezza (ecco perché credo di recepire il senso della "letterarietà" cui
si riferiva il Prof. Oli) che va al di là della stessa letterarietà perché sta
nella necessità della confessione e ha bisogno quindi di un linguaggio
immediato, cristallino, limpido, immediatamente comunicativo. A questa esigenza
l'Autore risponde proprio con la atipicità del libro, perché urgono, in
interiore, i sentimenti; sono domande, risposte, interrogativi, che tutti noi ci
poniamo quando gli eventi come la morte hanno una loro ineluttabile
definitività. Ripeto: il protagonista, il tema centrale di ogni componimento è
la morte; ma nella mia reazione interiore, come viene avvertito dalla mia
lettura, questo tema, che nel testo è oggettivamente il tema emergente, nel mio
approccio sottintende l'altro tema, che è nascosto, e che è il tema dell'amore.
Ci troviamo insomma di fronte a un libro che ci parla della morte, ma scopriamo
alla fine che c'è l'innominato, il protagonista vincente: l'amore; l'amore nella
sua forma più essenziale, che ci fa singolarmente fragili ma vincenti; l'amore
del figlio e l'amore della madre, che non scende mai dentro nessuna fossa.
Viene fatta
lettura di alcune pagine da
Eretiche grida e da Piangono ancora come bambini.
Intervento di Annamaria Bonfiglio
La
mia non ha la pretesa di essere una nota critica. Per due motivi: il primo,
perché ci sono state delle persone che lo hanno fatto con la competenza che gli
è propria. Secondo, perché la mia lettura dei libri di Scarselli è stata finora
una lettura appassionata ma da "lettrice". Posso dire che mi trovo d'accordo in
linea di massima con quanto detto dal Prof. Oli, quindi appoggio questo
desiderio di recupero della letterarietà della poesia; che in effetti negli
ultimi tempi si è perduta, con tutta la manipolazione del linguaggio che c'è
stata. Mi trovo d'accordo anche con le parole di Salvatore Di Marco. Io ho letto
tutti i libri che Veniero Scarselli mi ha graziosamente inviato; ma la lettura
dell'ultimo libro - questo Piangono ancora come bambini - mi ha
particolarmente toccato; e non tanto per l'argomento; è sicuramente un argomento
che si presta ad essere recepito in una determinata maniera; ma è chiaramente
vestito anche delle parole giuste, del linguaggio giusto, per cui proprio queste
parole si fanno strada nel dolore dell'Autore e diventano veramente scrittura
appassionata, chiara, una passione che arriva al cuore. Non posso dilungarmi in
un discorso più approfondito; mi riprometto di farlo quando avrò un po' più di
tempo. Ripeto, la mia di oggi è solo una testimonianza di valore umano; io credo
che quando il poeta riesce a dare questo senso universale della propria pena,
della propria gioia, della propria emozione, credo che in quel momento egli
abbia raggiunto veramente la felicità della poesia. In Veniero Scarselli è
strettissimo il rapporto fra la parola e gli eventi. Credo che questo sia il
dato essenziale che ho potuto cogliere in una lettura ancora non molto
approfondita.
Io
ringrazio comunque Veniero Scarselli per avere scelto la nostra Associazione, il
nostro gruppo di amici, per la sua visita a Palermo e ringrazio il Prof. Oli che
ci ha regalato il piacere della sua presenza e quindi anche delle sue preziose
parole; ringrazio Nicola Romano, che ha coordinato con grandissimo amore e
grandissima fatica, ringrazio Alfio Inserra e Salvatore Di Marco, ringrazio
Tommaso Romano che ci ha ospitati in questa prestigiosa sede. Il mio compito si
riduce a questo, come ospite. Grazie anche a tutto il pubblico; e ora ascoltiamo
la parola del Poeta.
Intervento di Nicola Romano
Prima
però vorrei dire a Veniero Scarselli che con l'ospitalità critica che abbiamo
voluto offrirgli siamo veramente convinti di avere compiuto un'operazione
interessante per la poesia; sappiamo il suo valore nel campo poetico nazionale,
conosciamo la sua visione della poesia, a parte quelle che possono essere le
tematiche e a parte quella che può essere la sua scrittura; a causa della quale
all'inizio abbiamo trovato - diciamolo pure - una certa difficoltà di
accostamento alla sua poesia. E' anche vero che adesso ci andiamo convincendo un
po' di più, perché ci immedesimiamo di più con la sua scrittura; l'ultimo libro,
come è stato detto prima, è più immediato, lo riconosciamo tutti; ma io penso
che sia compito di un poeta anche cogliere e accettare le testimonianze che
arrivano da amici e poeti che tutto sommato sono delle risposte criticamente
avvertite.
Noi
lo ringraziamo veramente di cuore per averci permesso di presentarlo agli amici
che seguono la poesia a Palermo. Dopo la parola di Veniero Scarselli io vorrei
aprire un dibattito perché tutto sommato la pentola sul fuoco l'abbiamo messa,
abbiamo visto per così dire il contrasto fra un certo genere di poesia che va di
moda oggi e la ricerca che porta avanti Veniero Scarselli. Quindi se abbiamo
qualcosa da chiedergli per illuminarci meglio sul campo della sua poesia,
saremmo tutti più soddisfatti. La parola a Veniero Scarselli.
Intervento di Veniero Scarselli
Devo
dire che sono veramente commosso per la calorosa accoglienza e la partecipazione
colma di interesse, di cui tutti ringrazio. Soprattutto sono commosso e
meravigliato per la profonda penetrazione e aderenza a quello che è il mio mondo
poetico, dimostrata dagli illustri relatori. Sono commosso perché finora - devo
ammetterlo - pochissimi, nel corso di analoghe manifestazioni, hanno dato prova
di una comprensione così profondamente emozionale dei miei scritti. Permettetemi
quindi di aggiungere solo poche parole per illustrarvi la filosofia che muove il
mio bisogno di scrivere.
Io
non sono per costituzione un solitario, ma credo di esserlo diventato durante
l'adolescenza perché mi sono mancati dei veri amici che crescessero con me e
condividessero gusti e pensieri. Sta di fatto che da grande mi sono ripiegato su
me stesso e ho finito per rinunciare anche al mondo sociale, abbandonando la
professione di ricercatore e ritirandomi in campagna. Come compensazione però
sono andato sempre più sviluppando l'unico mezzo di comunicazione con i miei
simili di cui fossi capace: quello che io chiamo sinteticamente la "riflessione
poetica". Vi ho fatto questa piccola confessione perché forse vi interessa
capire che cosa rappresenta per me la poesia. Ebbene, essa è l'unico strumento
che ho, per trasmettere e condividere le mie riflessioni con quelli che
considero miei simili, miei fratelli. Attraverso di essa, e con un uso
tradizionale del linguaggio e della grammatica, io quasi li costringo (qualche
maligno dirà ghignando che io li violento) a dividere con me il mio immaginario
e le cose della vita che vado scoprendo. Poiché ora avrete capito che per me la
poesia è una forma di conoscenza, anzi la forma più elevata di conoscenza, non
vi farà meraviglia che io abbia potuto trasferire la mia curiosità, e la mia
forma mentale di ricercatore, dalla biologia alle cose meno palpabili della
poesia. Oggi anch'io posso dire di avere degli amici, forse dei fratelli, nei
miei amatissimi 25 lettori. Non molti di più, forse, poiché quello che scrivo ha
ancora per molti una componente di sgradevolezza. Dopo questa serata forse avrò
la speranza che questa componente si sia un po' smorzata, già mi sono accorto
che molti hanno mostrato di capire e accettare, addirittura abbracciare, il
mondo del mio un po' inusitato immaginario. Comunque ora cercherò di convincervi
- se non vi scandalizzerete per il paradosso - che questa componente di
sgradevolezza in poesia non solo è inevitabile, ma è anche indispensabile, e
dovrebbe essere benvenuta.
Vi
anticipo, con un po' di sano gusto polemico, che secondo me l'odierna crisi
della poesia non è crisi di forma e di stile ma solo crisi di contenuti. Io
credo infatti che anche riguardo al modo di concepire la poesia stia finendo
un'epoca. La ventata vivificatrice del decadentismo sembra esaurita. Sotto gli
occhi di tutti è la folla di suoi nipotini che scorrazzano tra futurismo ed
espressionismo, ermetismo e lirismo intimista, poesia "sfogo" e sperimentalismo
d'avanguardia: una babele di correnti accomunate da un'unica colpa: aver
prodotto una frattura fra i poeti e il loro pubblico e aver confinato la poesia
in un vero e proprio ghetto. Toccare ogni giorno con mano il rifiuto del
pubblico a leggere poesia è una cosa che fa male al cuore. Ebbene, a me sembra
chiaro che la poesia non possa più interessare la gente, finché si ostina a non
voler prendere in considerazione i veri e brucianti, paurosi problemi
esistenziali dell'uomo di oggi. Sembra quasi che vi sia un tacito accordo fra i
poeti per evitare questi problemi, forse perché si teme, a torto, di urtare la
sensibilità del comune lettore di poesia. Eppure nessuno sa perché tale pudica
delicatezza sia riservata solo alla poesia, mentre ai prosatori tutto è
permesso, perfino di offendere il "comune senso del pudore". Sta di fatto che i
poeti preferiscono o ispirarsi ad effimere emozioni private, come se fossero le
cose più interessanti del mondo, oppure occuparsi di acrobazia delle immagini
piuttosto che del peso dei contenuti; infatti si dedicano per lo più a forzare
l'analogia e la lingua accostando funambolicamente parole inaccostabili nella
speranza che ne scocchi qualche scintilla, ma in realtà conseguono solo
l'oscurità, cioè la negazione del messaggio. Ambedue hanno insomma rinunciato
alla comunicazione, l'uno a causa dell'ovvietà e inconsistenza dei contenuti
sentimentali, l'altro a causa dell'astrattismo formale. Io credo invece con
tutto il cuore che una poesia incapace di costringerci a riflettere sul mondo e
sulla nostra condizione, anche a costo di sconvolgerci, una poesia che non serva
ad accrescere la consapevolezza della nostra vita, una poesia cioè che dopo la
lettura ci lasci uguali come prima, credo proprio che non serva a nulla.
Vi ho
detto in anticipo che la mia era una dichiarazione polemica e forse per qualcuno
antipatica; tuttavia la ribadisco, in barba a tutti coloro che proclamano la
purezza della poesia fine a se stessa o la bellezza della poesia inutile. Come
può una tale poesia interessare gli uomini d'oggi, sempre più tormentati da
problemi esistenziali e metafisici? Io rivendico dunque la bellezza della poesia
utile, e per "utilità" intendo che la poesia, come la scienza, debba
ubbidire all'innato bisogno dell'uomo di conoscere, trovando delle
rappresentazioni della realtà che ci circonda o che è in noi. Penso dunque alla
poesia come a una potente forma di esplorazione della realtà, una forma non
logica di rappresentazione del mondo, e non trovo giusto che sia ridotta alla
funzione di esprimere banalità sentimentali oppure oscuri funambolismi verbali.
Mi permetto quindi di dissentire dalla famosa e fortunata teoria, diventata
opinione corrente, che la poesia sia espressione del sentimento. Ma
badate bene, perché non vorrei essere frainteso né considerato sacrilego:
nessuno vuole evitare di suscitare emozioni e sentimenti; e anche se lo volesse
sarebbe impossibile, dato che ogni immagine si trascina dietro sempre,
inevitabilmente, una qualche emozione. Tuttavia ritengo che le emozioni siano un
prodotto secondario, anche se inevitabile; e che comunque non siano
assolutamente il fine ultimo della poesia. Come strumento potente di conoscenza,
questa consente la contemplazione oggettiva e consapevole, l'intelligenza,
di un'esperienza che pure ci ha emozionati; e non può essere quindi l'emozione
stessa, e tanto meno la sua espressione. La poesia è dunque, secondo me,
un vero e proprio atto di riflessione - espressa in un linguaggio figurativo
analogico - su una determinata esperienza; perciò, invece di degradarla ad un
mero titillamento di emozioni, facciamo che lo scopo della poesia sia di nuovo
quello che gli è stato sempre riconosciuto in passato, di tradurre a livello
cosciente ciò che tutti più o meno percepiscono, ma che non tutti sono abituati
a formulare oggettivamente e solo dopo il suggerimento del poeta esclamano <toh,
non ci avevo pensato!>
Tutte
le attività dello spirito hanno però un'altra importante, ma abbastanza
misteriosa, proprietà di suscitare il cosiddetto piacere estetico. Ebbene, non è
una domanda oziosa chiedersi che cosa sia concretamente questo piacere estetico
che ogni giorno ci è dato di sperimentare perfino quando si contemplano dei
soggetti sgradevoli. A me pare che sia il piacere (azzardo anch'io la mia
piccola teoria filosofica) che si prova nell'accogliere dei contenuti che per
essere veicolati da una forma ordinata e armoniosa riescono ad essere assimilati
dalla mente più rapidamente ed efficacemente di altri; ricordiamoci infatti che
l'idea di ordine e armonia è innata in ognuno di noi. Questa mia idea della
poesia può essere forse considerata pragmatica, o utilitaristica; ma sta di
fatto che il piacere che ci dà la poesia (come altre forme di arte) sembra
essere dato dalla velocità e immediatezza con cui viene recepito il messaggio.
La forma dunque è essenziale in ogni caso, ma sarà esteticamente soddisfacente
solo quando, grazie a lei, il contenuto può raggiungerci nel modo più efficace.
Si comprende quindi come mai anche le cose sgradevoli o ripugnanti, l'orrido,
possano essere oggetto di conoscenza estetica, cioè di poesia, quando vengano
confezionati in modo armonico, cioè efficace.
Vi ho
rammentato queste cose abbastanza ovvie, perché so che a molti non piace che io
mi occupi in poesia di soggetti sgradevoli; vorrei allora farvi notare che il
problema dell'accettazione dell'orrido in poesia non è un problema estetico, ma
morale. Ci si deve chiedere cioè se sia lecito che la poesia si occupi di cose
sgradevoli, ecco il punto cruciale. Ebbene, se la poesia è una forma di
conoscenza, l'unica forse capace di darci delle rappresentazioni soddisfacenti
del nostro mondo, bisogna decidere se del mondo vogliamo sapere e vedere tutto,
o soltanto gli aspetti che non ci turbano. In altre parole bisogna decidere se
vogliamo che la poesia ci suggerisca solo serenità, o piuttosto materia su cui
riflettere, anche se inquietante come sono tutti i problemi esistenziali. Ormai
avrete capito che io ho optato per questa alternativa, e so che i problemi non
danno mai serenità. Ma d'altronde, su cosa d'altro vorremmo riflettere?
Esclusivamente sulle cose allegre e piacevoli, che generalmente sono anche ovvie
e poco interessanti? I soliti palpiti d'amore, la primavera, la natura, i voli
di rondini? Ma dove sta scritto che la poesia deve esplorare solo cose
piacevoli? Senza contare che, oltre all'orrido, esistono anche gli innumerevoli
aspetti buffi e ridicoli degli esseri viventi: il loro aspetto corporale e le
loro realtà biologiche, che sono sempre state accettate come ovvie ma
impronunciabili, e su cui mai l'occhio esploratore della poesia si è soffermato;
eppure ovvie non sono affatto per l'occhio non distratto, non solo del biologo
ma anche del profano. Io penso che anche in poesia sia meglio guardare in faccia
la vita senza autocensurarsi, purché lo scopo naturalmente non sia il gusto di
rotolarsi nella morbosità fine a se stessa. Penso che per uscire dal ghetto in
cui si sono autoconfinati i poeti e poter interessare veramente il pubblico, si
debbano lasciar da parte fiori e farfalle e si debbano invece affrontare
finalmente le realtà della vita che tutti scansano, offrire una nuova lettura
del mondo, indurre insomma alla riflessione ogni essere umano in grado di
leggere.
Ma
c'è qualcosa di più. Credo che tutti siano d'accordo se dico che il poeta non
deve rinunciare a esprimere, insieme a una coerente visione del mondo, anche una
coerente concezione morale. Ebbene, io credo che ciò si possa realizzare ben più
efficacemente assemblando le singole poesie in modo che vi sia un filo
conduttore avvincente; ancora meglio, coniandole direttamente nella forma
unitaria e narrativa di un vero libro, anziché lasciarle sparse e disordinate
nelle cosiddette sillogi. La continuità narrativa infatti è già capace da sola
di esprimere un supermessaggio più complesso e articolato delle poesie prese
singolarmente. E' un supermessaggio, in quanto raccoglie, articolandoli in un
contenuto più generale, tutti i messaggi particolari e più semplici delle
singole poesie. Inoltre, una poesia singola, per quanto significativa, non può
suscitare nel lettore l'interesse e il coinvolgimento continuato, la tensione a
riflettere, che può produrre invece una storia; succede fatalmente che di una
poesia singola non resti nella memoria che una labile traccia.
Per
concludere, consentitemi di ribadire questo principio: la poesia che non insegni
qualcosa, o non induca alla riflessione arricchendo la nostra consapevolezza,
rinuncia alla sua funzione più importante, conferitale fin dall'antichità, di
trasmettere agli altri una concezione della vita, una saggezza, una coscienza
morale, che possano costituire per tutti ancora oggi dei punti di riferimento.
Intervento dell'Assessore Tommaso Romano
Sono
stato inserito nel programma, spero, non solo per aver dato la sede a questo
convegno, ma per intervenire su Scarselli, che conosco bene. Mi scuso con
qualcuno perché non ho potuto seguire tutti gli interventi, essendo stato
impegnato col Consiglio Provinciale. Però era molto importante sentire
innanzitutto il Prof. Oli, che ho naturalmente ascoltato per intero; gli altri
parzialmente, e me ne dispiace; ma molto interessato mi ha, come sempre,
l'intervento di Scarselli. Con Scarselli abbiamo avuto, e abbiamo, una non
fittissima, ma buona, corrispondenza epistolare; ci siamo conosciuti, io l'ho
apprezzato, e lo apprezzo; perciò vorrei dire su di lui qualcosa di più.
La
sua poesia mi ha colpito soprattutto per questa impostazione genuina rispetto
all'esistenza. Egli dice con pathos poetico le cose della vita; ma non è solo
una visione, è una adesione alle cose della vita; la quale è
accompagnata anche da una scelta esistenziale, e questo dobbiamo dirlo con
forza. Qui non siamo davanti a chi per hobby scrive poesia; qui siamo davanti a
chi ha scelto di vivere coerentemente con quello che è il dettato direi quasi
dantesco, cioè veramente con quell'imperativo categorico che ti fa uscire dalle
strettoie e dalla quotidianità e ti fa fare una scelta radicale di vita. Questa
scelta radicale è la poesia. Ecco perché Scarselli, quando parla specialmente
delle cose più intime, di quelle che non si oserebbe nominare per falso pudore,
si esprime spesso con una certa brutalità, quasi volendo far violenza al
lettore; però anche là c'è, tutto sommato, un grande rispetto per come egli le
dice. Io ho letto tante sue poesie, tanti libri ch'egli mi ha mandato, anche in
altre occasioni, quindi per me questa di oggi è una grande conferma; secondo me
Scarselli sostanzialmente scrive un diario, un lungo diario, una confessione
pubblica. Mentre tutti noi scriviamo facendo finta di dare ascolto a noi stessi,
magari con tanti buoni intendimenti, con tante belle metafore (che poi annullano
magari la verità, quella brutale, che dovrebbe uscire), in Scarselli tutti
questi eufemismi proprio non ci sono. Può piacere, può non piacere, questo è un
problema assolutamente individuale, come sempre nella storia del mondo, nella
storia dell'arte, nella storia della poesia; però ci sono certamente nella sua
poesia domande esistenziali forti, interrogativi che si pongono imperiosamente
alla nostra coscienza. E' questa radicalità di vita, che mi fa sperare che gli
eremi, che ognuno di noi si va creando, si possano veramente realizzare, come
lui è riuscito a realizzarli, non solo nel nascondimento della poesia, della
pagina bianca, ma proprio anche nella vita. La sua è una scelta radicale. A me
queste scelte piacciono; e sono convinto che il mezzo termine spesso è un
fraintendimento, è la non-scelta definitiva, è quello stare in mezzo che poi non
significa nulla. In questo senso Scarselli è radicale; e a me questa poesia
radicale - devo dire la verità - piace molto.
Intervento di un'ascoltatrice
Premetto che il contenuto della poesia di Scarselli, e in particolare di questo
suo libro, per me va bene, l'ho accettato e condiviso, mi sono anche rivista in
quegli attimi dolorosi della vita che lui ha così bene descritto. Però nel corso
della sua dichiarazione di poetica mi è sembrato che abbia ribadito l'idea
fondamentale che la poesia sia soprattutto riflessione. Io, che sono una profana
della poesia, una semplice appassionata, non una studiosa, mi chiedo se la
poesia non debba invece essere intesa come totale espressione dell'uomo nelle
sue varie sfaccettature, ed esprimere la molteplicità dei sentimenti. Perché
nella nostra epoca dobbiamo rifiutare il sentimento? Non è detto che il
sentimento debba essere sempre sdolcinato, il sentimento è quello che anima la
vita di tutti; perché lo vogliamo sminuire? Che dire allora di tutta la poesia
che ci ha preceduto, quella di tutti i tempi, che ha informato la vita dell'uomo
nel suo lungo percorso? Che ne facciamo, la dobbiamo rigettare?
Risposta di Veniero Scarselli
Per
carità, niente di tutto questo! Ci tengo a precisare e ribadire ciò che ho già
detto, cioè che non voglio affatto sminuire il sentimento e tanto meno
allontanarlo; ho soltanto detto che lo scopo primario e dichiarato della vera
poesia non è mai stato la titillazione volontaria del sentimento; nessun poeta,
in nessun tempo, ha mai fatto poesia col solo scopo di suscitare sentimenti e di
commuovere; nei tempi più antichi l'intenzione fu di narrare i fatti del mondo e
degli uomini insegnando a vivere rettamente (poesia epica), più tardi fu di dare
voce ai propri pensieri e accadimenti interiori (poesia lirica) e infine, da
cento anni a questa parte è stato il tentativo di penetrare in modo intuitivo
l'indicibile, l'irrazionale (simbolismo, futurismo, ermetismo e così via). Oggi,
se si vuole che la poesia abbia ancora un senso e una sua nicchia fra le
attività dello spirito, credo che questa possa essere soltanto l'esplorazione e
acquisizione consapevole delle verità che stanno nascoste nel mondo o
dentro di noi, invisibili ai più, o semplicemente trascurate, e che il poeta
s'incarica di formularle razionalmente per esplicitarle a se stesso e agli
altri; dunque, una conoscenza e una lettura del mondo e di noi stessi, una
riflessione sui fatti della vita, dacché l'uomo è all'eterna ricerca di una
spiegazione. Durante questa operazione sono fatalmente evocati anche i
sentimenti; ciò è inevitabile perché i sentimenti esistono e non si possono
abolire né frenare; qualunque cosa si faccia, si dica, o si scriva, evoca
necessariamante un'emozione, un sentimento; ma questi sono una specie di
prodotto secondario e inevitabile, non sono lo scopo dichiarato della poesia.
Quindi, ripeto, io non rifiuto le emozioni, tanto è vero che io stesso,
scrivendo, mi commuovo. Posso concedere che un'emozione sia spesso la causa
prima, il motore iniziale che induce a una riflessione esistenziale, la
cosiddetta ispirazione, ma non il fine ultimo. Ciò che nobilita la poesia
facendola diventare un altissimo atto creativo è solo la ricerca consapevole
delle verità della vita.
Intervento di un ascoltatore
Semplicemente volevo osservare che non si sta parlando della poesia in genere,
ma di quella di Veniero Scarselli. E allora volevo dire, a proposito della
poesia che ho potuto ascoltare, che il Poeta in un momento di emozione
grandissima si è trovato davanti a un dilemma: scrivere queste emozioni o andare
dallo psicanalista. Lui ha preferito la prima soluzione e gli è riuscita bene.
Risposta di Veniero Scarselli
Grazie per la caustica osservazione, che mi offre il destro di rispondere
precisando ancora meglio ciò che ho già detto alla precedente ascoltatrice. E'
certamente vero che io ho scritto Piangono ancora come bambini sotto
l'urgenza di una forte emozione; ma non sono stato certo attanagliato da nessun
dilemma, se andare dallo psicanalista oppure sfogarmi scrivendo il libro. Per
me, come per qualsiasi poeta, lo scopo dello scrivere poesia non è di
"sfogarsi", o scaricarsi in qualche modo. Ripeto ciò che ho già detto: è vero
che l'emozione è qualche volta (non sempre!) l'ispirazione allo scrivere; ma di
qui a dire che si scrive per "sfogarsi", cioè per abbandonarsi alle emozioni e
crogiolarvisi, il passo è lungo. Al contrario, direi, si scrive semmai proprio
per star lontani dal pantano delle emozioni e raggiungere attraverso la
contemplazione un livello superiore di lucida consapevolezza conoscitiva. Ma
tutto questo non è una peculiarità della mia poetica; qualunque poeta - e come
paradigma cito per tutti Leopardi - compie questa operazione; tutta la poesia
insomma è sempre stata o narrazione o riflessione. Però, se col termine ambiguo
"sfogarsi" l'ascoltatore intendeva il raggiungimento di questo livello di
contemplazione, ha ragione: ho preferito lo "sfogo" della poesia piuttosto che
lo psicanalista!
Intervento di Salvatore Di Marco
Io
faccio una brevissima considerazione. Ho ascoltato questa che possiamo chiamare
una dichiarazione di poetica di Veniero Scarselli. Può essere condivisibile,
come può non esserlo. Quello che tutto sommato mi interessa non è tanto il
principio, la poetica, il sistema filosofico, ma l'atto concreto di poesia; per
cui, se noi vogliamo farci un'idea di che cosa sia Scarselli, o chiunque altro
sia impegnato in una scrittura letteraria, forse le poetiche da cui egli parte
aiutano poco a capirlo. Ad esempio, se devo basarmi sul libro di cui si è
parlato, io trovo una profonda differenza fra le dichiarazioni di poetica e il
modo in cui l'uomo-poeta Scarselli si muove e realizza queste cose; e non mi
meraviglia, perché ci sono le poetiche, e ci sono poi i poeti coi loro atti
concreti di poesia; ci sono, dall'altro lato, i tentativi di decodificazione,
cioè le scuole critiche, gli indirizzi di critica letteraria, le metodologie di
approccio alla lettura e così via; c'è un modo di scrivere e c'è anche un modo
di leggere. Le mediazioni, poi, sono alla fine estremamente personali. Voglio
dire che un dibattito sulle pagine che Scarselli ci ha dato ci porterebbe a
confrontarci con la filosofia dei massimi sistemi, alla quale personalmente
credo poco. Infatti, un'idea della poesia ciascuno se la fa per le esperienze
che ha vissuto, per il contesto culturale in cui vive, per il secolo nel quale
ha la ventura di trovarsi. L'idea di poesia che poteva esserci nel Duecento, o
nel Settecento, era profondamente diversa dall'idea di poesia di oggi. Ma dico
anche di più: l'idea stessa di sentimento è già profondamente diversa.
Probabilmente Scarselli combatte e contesta il superfluo della poesia; ma è
tutto sommato ciò che ogni poeta tenta di fare con gli strumenti che ha. E
allora quello che poi alla fine conta sono i libri che si scrivono, le cose che
si dicono concretamente e la capacità che queste cose hanno di accordarsi con la
nostra esperienza di uomini del nostro tempo. Allora la poesia diventa
patrimonio di tutti.
Risposta di Veniero Scarselli
A
Salvatore Di Marco rispondo che ha fondamentalmente ragione quando dice che ciò
che conta è il risultato poetico concreto; ma vorrei anche fargli osservare che
dietro ogni "atto concreto di poesia" prodotto da uomini consapevoli che si
dichiarano intellettuali, c'è sempre stata una consapevole ideologia che lo ha
espresso, cioè una poetica.
A chi
mi ha chiesto spiegazioni sul perché io eviti le sillogi di poesie sparse e
preferisca invece scrivere poemi o racconti in versi, rispondo che quando c'è un
filo conduttore che unisce le singole poesie o, meglio, che percorre un poema
unitario, l'autore riesce ad imprimervi una più larga visione della vita e del
mondo e quindi a lasciare nella coscienza e nella memoria del lettore qualcosa
di più durevolmente significativo. Una singola breve poesia può esprimere un
singolo bagliore di intuizione; manca tuttavia assolutamente quella visione di
insieme che esaltando molte singole intuizioni dà luogo a una più vasta e
articolata meditazione esistenziale. Provate insomma a chiedervi che cosa più
facilmente persista nella memoria, se una singola poesia slegata da tutto,
oppure un vero libro con una sua storia e un suo vero e proprio assunto.
Intervento di Anna Balsamo
Io
vorrei far notare una cosa che qui ancora non ho sentito e che tuttavia il Prof.
Oli ha avuto modo di ribadire in diverse altre occasioni, che cioè Veniero
Scarselli è un poeta epico. Quindi non è vero che il suo star lontano dalle
sillogi sia una cosa strana; fra i poeti che non si sono fermati alla singola
lirica, abbiamo tutti i classici, da Omero a Virgilio, a Dante stesso; e anche
Scarselli è poeta epico. Vorrei inoltre rispondere a quel signore che
scherzosamente diceva che Scarselli ha risparmiato lo psicanalista: è evidente
che egli non conosce le opere precedenti di Scarselli, nelle quali non v'è
davvero traccia di "sfogo" e in cui si manifesta tutta un'epica dell'uomo;
l'uomo sperimenta una discesa agl'inferi come accadeva agli eroi dei poemi
classici. E' una discesa agl'inferi esistenziale per raggiungere una verità
superiore, una finalità dell'esistenza umana cui lui mai rinuncia. Per questo è
un vero poeta epico; c'è una vera e propria epopea scarselliana in tutto il
ciclo delle sue opere; e anche ogni opera è un'epopea a sé. Sarebbe lungo
parlare di ogni opera come lui l'ha trattata; vorrei solo, come esempio, far
osservare che anche nelle prime sue opere, quelle - per intenderci - della
trilogia, che trattavano problemi edipico-sessuali, l'intento non era certo di
"sfogarsi", ma di indagare il perché di quest'avventura esistenziale in cui il
povero protagonista si agitava preso nella trappola dei suoi istinti.
Intervento di Giancarlo Oli
Vorrei manifestare il mio pieno accordo con Anna Balsamo. Non c'è da
sottilizzare o dibattere sui massimi sistemi, perché si arriva facilmente a
classificazioni astrattizzanti. Scarselli ha parlato di poesia come conoscenza;
e non c'è niente da obiettare, perché la conoscenza come fine, pezza
giustificativa della poesia, è proprio quella che viene accreditata anche da
Mario Luzi attraverso un suo filosofo simpatizzante. Quella di Scarselli è però
anche un'altra cosa, è un'altra esperienza di vita che lo ha portato a ritenere,
un certo giorno, che fare ricerche sulle molecole o sugli ormoni non era una
cosa che potesse portarlo alla conoscenza, e perciò si è dato alla poesia; è una
cosa dunque un po' diversa; cerchiamo di non fare degli utopismi astratti.
Vorrei invece insistere ancora sul fatto che la sua poesia recupera una
dimensione di letterarietà quale elemento tipico della lingua italiana e che
quindi, specie in questo momento, può avere un valore altamente educativo.
Per
concludere, permettetemi di dire un'altra cosa, in particolare al Sig.
Assessore. Ho colto qui, nel livello di questa manifestazione, nella
preparazione e nella competenza dei personaggi che mi sono trovato accanto, una
serietà e una buona volontà che purtroppo nel mio paese toscano non trovo. Per
fortuna io faccio il lessicografo e non faccio il poeta; ma quando viene fuori
un poeta del calibro di Scarselli, credete a me, in questo momento dovrebbe
essere considerato una benedizione per Firenze, che è così malata, come disse
altra volta il nostro concittadino Dante Alighieri. Va bene che nemo propheta
in patria, mentre fuori lo si onora; però, davanti a una manifestazione di
così alto livello, in onore di Scarselli, io non posso fare a meno di essere
veramente entusiasta e di testimoniare il mio compiacimento e la mia
gratitudine.
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