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Un giorno a Urbania.
Piersanti tra Cesane e mito
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Il 4 ottobre del
2006 sono stata invitata a presentare il mio recente libro di poesia Ipotesi
d’amore (Marsilio, Elleffe, 2006), ad Urbania, da Scuola
Italia, una delle due scuole per stranieri, presenti sul
territorio,diretta da giovani professori molto bravi, i quali alternano le
attività didattiche, in senso stretto, a presentazione di scrittori e poeti
italiani. Urbania è una splendida cittadina medievale delle Marche a pochi
chilometri da Urbino, luogo suggestivo ed indimenticabile per lo studio e le
vacanze, dove fiorisce dall’epoca rinascimentale la produzione della ceramica
istoriata.
A presentarmi era
stato invitato il noto poeta e narratore urbinate Umberto Piersanti, che già
avevo avuto a Padova l’opportunità di conoscere, in occasione delle serate di
poesia, organizzate dal professore e poeta Silvio Ramat. L’incontro con l’autore
urbinate, straordinario personaggio della cultura italiana, mi ha dato la
possibilità non solo di apprezzare, ancora una volta di più, l’enorme bagaglio
di conoscenze, di interessi che lo animano, ma anche di poterlo intervistare.

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Umberto Piersanti a Padova: da sx:
Raffaella Bettiol,
Umberto Piersanti e Luisa di
Sanbonifacio. |
Piersanti nelle
sue raccolte di versi (di cui ricordiamo solo alcune: I luoghi persi
(Einaudi, Milano !994), Nel tempo
che precede, (Einaudi, Milano,2002) canta il mondo magico ed
incantato, vissuto e immaginario, delle sue Cesane, i colli che circondano
Urbino. In queste, come scrisse l’indimenticabile Carlo Bo, riscopre il mondo
intero e compatto della sua anima poetica. Come un moderno
rapsodo il poeta ci racconta le leggende legate ai miti della sua terra, ma
anche il suo passato, la sua infanzia in una dimensione emblematica, onirica,
eppure carica di vita, di passione.
Questa è la mia
prima domanda: cosa rappresentano per te le Cesane?
Le
Cesane sono una serie di colline poste tra Urbino e Fossombrone. Come Urbino
rappresenta la città perfetta, conchiusa dentro spazi precisi anche se liberi ed
aerei, le Cesane sono il cosmo, la
natura panica la totalità per gli urbinati. Alle Cesane da bambino, quando
andavo a trovare mia nonna, – io ero di città, in quanto nato ad Urbino – lungo
i campi e i fossi paravo le pecore di quella volta. Di quella volta, perché
parliamo di un’epoca, di un mondo dove non c’era ancora né l’energia elettrica, né l’acqua corrente, per cui la notte si vedevano rare luci d’acetilene nelle
case e le donne andavano a prendere l’acqua con la brocca. La sera al camino si
narravano fiabe, racconti. Sono vissuto nell’ultima epoca preindustriale, non a
caso, ho fatto il mio primo viaggio in una treggia: un carro senza ruote
trainato da buoi con due pali sotto, che serviva per salire sui greppi. Vengo
da un mondo ancestrale, le Cesane sono il ricordo di questo mondo, che la
memoria trasforma e rende mitico.

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È
un mondo contadino, quindi, quello che canti perso tra memoria e la tua
personale mitologia?
Soprattutto nei
libri che seguono le mie prime raccolte c’è una “fissazione” sulla natura e
l’infanzia. Un uomo, nel mio primo romanzo L’uomo delle Cesane, dice:
“Una volta passati, sogni e ricordi sono la stessa cosa”. Andando indietro con
la memoria io non ritrovo tanto la realtà del mondo contadino, con i suoi sudori
e le sue fatiche, quanto uno spazio alternativo e diverso, uno spazio che
lentamente è diventato mitico, ma non si tratta della mitologia di un Giuseppe
Conte, il quale si richiama agli dei greci, degli incas, degli aztechi, è,
invece, un luogo totalmente trasformato, altro, dove accanto ai contadini, al
mio bisnonno, alla mia nonna, si muovono fate, folletti, dove magari il pastore
sale sull’arcobaleno per cercare la bellezza, l’assoluto ed invece ritorna
indietro per salvare le pecore, che la pioggia ha sparso giù per i fossi.
Quando si parla
di un Piersanti legato ad un mondo contadino si dice una verità molto parziale,
perché solo dicendo questa frase, c’è il rischio di fare un discorso realista o
neorealista, che è lontanissimo da me. Il mio mondo è diventato un altrove. Le
mie Cesane sono sì uno spazio preciso e determinato, ma sconfinano nel
cielo, si perdono nella galassia. Paolo Volponi
molto giustamente aveva detto che, se inteso bene, locale fa rima con
universale. Aveva aggiunto inoltre che non si poteva pensare a Pascoli senza la
Romagna o la Garfagnana, o a D’Annunzio senza l’Abruzzo e la Versilia o a
Pavese senza le Langhe.
L’avanguardia nel
nostro paese ha sempre seminato dei pregiudizi modernisti, secondo i quali il
luogo rimane sempre in una dimensione ristretta e contingente. Anche la
tradizione lombarda, tutta metropolitana, ha guardato con diffidenza alla
dimensione del luogo. Certamente non basta che il poeta scelga un luogo per la
sua bellezza estetica. Il luogo, per usare una bella espressione del noto
critico letterario Roberto Galaverni in Dopo la poesia
(Fazi, Roma 2002),
deve diventare la sua patria poetica. Personalmente ritengo di aver fatto delle
Cesane la mia patria poetica.
Il
tuo mondo poetico, come abbiamo visto, è estremamente personale, ti senti in
qualche modo una voce isolata?
Che il mio
percorso sia estremamente personale e che io non abbia dietro di me dei
discepoli è verissimo, ma se si parla degli apporti letterari e culturali io
sono legatissimo alla tradizione italiana novecentesca e naturalmente a quella
precedente. Nei miei libri è rintracciabile il Carducci della malinconia virile,
vi è molto del Pascoli. Ho subito l’influsso di Montale; mi sento
particolarmente vicino ad Attilio Bertolucci, per rimanere nella mia terra, al
primo Volponi de Le porte dell’Appennino e del suo mondo
contadino. Nel mio verso c’è tutta la tradizione alta dell’Italia centrale.
Tu
non sei soltanto poeta hai scritto infatti tre romanzi: L’uomo delle Cesane (Camunia, Milano 1994), L’estate
dell’altro millennio (Marsilio, Venezia, 2001)
e da poco è uscito Olimpo (Avagliano,Roma, 2006),
che cosa unisce il poeta Piersanti allo scrittore?
Direi che è lo
sguardo sulle cose: l’occhio del protagonista è quello del poeta. Vi è nei miei
romanzi e nella mia poesia sempre la carnalità, ma anche la sacralità delle
“cose”, c’è infine la natura che s’intreccia con la storia e la vita. Nel mio primo
romanzo L’uomo delle Cesane, tento di dare un affresco realistico e
affascinante, visionario ed elegiaco della gente montefeltresca, attraverso le
esperienze del protagonista, il giovane Roberto, il quale vive le profonde
trasformazioni della società, tra gli anni quaranta e gli anni ottanta.
Ne L’estate
dell’altro millennio affronto l’epica, il tema della guerra, la seconda
guerra mondiale, attraverso i due protagonisti, appartenenti a due mondi,
all’apparenza opposti: uno è, infatti, un giovane studente di lettere, l’altro
un contadino.
In Olimpo,
invece, racconto due storie che si fondono in questo romanzo: un professore,
infatti, più che maturo, ha una breve relazione con una giovane ragazza no
global. La loro percezione del mondo è assolutamente antitetica eppure il loro
rapporto, seppur breve, è ugualmente intenso, autentico. Luca,
il professore, narrerà alla giovane una storia remota, lontana: il tentativo
dell’ascesa all’Olimpo di due giovani, Anticlo e Laodoco. È la rievocazione di
un mondo antico con le sue regole, i suoi divieti. Anticlo rappresenta quel
grande momento della civiltà occidentale in cui l’uomo, superando la percezione
politeista, pone il centro dell’essere nella natura, in quanto tale. Mi
riferisco alla filosofia presocratica. Nel romanzo, a questo personaggio faccio
pronunciare la famosa frase di Senofane di Colofone : “Perché gli dei adorati
dai traci hanno i capelli biondi e gli occhi azzurri e quelli degli etiopi hanno
la pelle scura e le labbra camuse? Questo è perché gli dei non esistono, ma ogni
popolo li foggia a sua immagine e somiglianza”. I miei due protagonisti, i
quali, entrambi, alla fine rinunceranno all’ascesa all’Olimpo, sono, in qualche
modo, danteschi e omerici. Da una lato la conoscenza li spinge alla ricerca
dell’assoluto, di una diversa dimensione, dall’altro il richiamo della casa,
degli affetti e della loro terra finisce con il prevalere. Tra il cielo e la
terra i miei protagonisti scelgono sempre quest’ultima,alla quale sono legati
da un amore totale. Le “cose” sono avvertite con una partecipazione di tipo
panteistico.
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