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Dialogando con Paolo Ruffilli a proposito di Natura morta

Bibliomanie.it
n. 31, ott-dic. 2012

«Non mi volto indietro a riconsiderare con nostalgia quello che non c’è più». Così lei negli «Appunti per una ipotesi di poetica» che concludono Natura morta (Aragno 2012). Una affermazione che non esclude o comunque non impatta con la spinta a recuperare il tempo… La memoria, lei scrive in queste pagine, «è in essere», e strettamente correlata alla conoscenza come campo di ricerca individuale. L’identità è diversamente configurata nella sua opera in versi o in prosa: in L’isola e il sogno essa era affidata alla memoria, cioè alla attitudine del protagonista a riconoscersi per ciò che è stato – «siamo quelli che siamo stati e che sono stati altri prima di noi», lei tornerà a ribadire nelle illuminanti e incalzanti osservazioni intorno alla sua poetica. In Piccola colazione la questione dell’identità era in qualche modo legata all’agnizione di sé nei luoghi noti o protettivi, e una conferma di questo assunto figura negli «Appunti»: «forse l’identità sta nel nostro coincidere con le cose, nel portarcele addosso come la pelle». C’è un nesso tra queste due prospettive della dimensione identitaria?

Sì, c’è. In una forma sempre dinamica e perfino contraddittoria. Ma, del resto, la contraddizione è il principio costitutivo della realtà. Ciò che poi sfugge alla capacità del nostro linguaggio di esprimere appunto la coincidenza degli opposti, cioè il meccanismo contraddittorio di tutto ciò che è e che ci riguarda. Anche un’identità, per forza di cose, è dunque contraddittoria. Il che non comporta un limite e meno che mai una censura. Perché l’ambiguità è l’energia stessa della vita, probabilmente inspiegabile, per lo meno con il criterio logico della nostra ragione. È questo il motivo fondamentale per cui, come pensava Pessoa, la scienza come la pratichiamo oggi non sarà mai in grado di spiegare davvero il mistero. Ma la scienza, naturalmente, elaborerà col tempo metodi nuovi, più elastici e meno rigidi, che abbiano molto più a che fare con il vuoto e con l’inafferrabilità del così detto reale. Chissà…

Per l’uomo simbolista non funziona la distinzione tra attività teoretica e pratica. È questa una delle invarianze – e forse anche uno dei fondamenti – della sua poetica?

L’uomo è simbolista naturalmente o, se si vuole, innaturalmente (visto che è l’unico essere che va contro natura). E, per questa sua caratteristica, niente mai per l’uomo è quello che è, o che appare. È sempre anche altro. Nell’esperienza degli uomini, fin dal principio, tutto rimanda sempre ad altro. E, in questo misterioso rimbalzo, sta appunto la capacità che da subito si mette in moto nell’operatività dell’uomo prima ancora di qualsiasi intenzione teorica. Dietro a questo impulso che gli viene da chissà dove, istintivamente l’uomo elabora il linguaggio: cioè, simbolicamente, il dire una cosa per intenderne un’altra.

L’inflessione vocale di Natura morta trasmette al lettore un senso di calma infinita. Il modularsi talora persino ipnotico dei versi – benché nelle frequentissime spezzature – si accorda con il respiro della vita, ritmato all’unisono con la sua parola argomentante sul tempo e sul fluire del moto determinato dal tempo. Quasi una antistrofe della fuggevolezza e dell’umorale e in generale dell’imperformativo che marcano i nostri anni con il rischio di interdire ogni prospettiva infuturante. Una intonazione, pertanto, che tende a razionalizzare la morte – se il tempo trattiene anche solo «un lembo della parte // sua futura». Ma l’esito, inoltre, del riconoscimento di uno stato di cose originario e perenne, dov’è inconcepibile ogni illusione di trasvalutarlo. Di qui la distensione, la pacatezza – proprietà eminenti della unitonale voce narrante –, parole che evocano la quiete, promuovono «l’andante cadenzato», designano «la regola del mondo»: acquisizione che si coniuga con l’accettazione di uno status dove nulla pare casuale e tutto sembra essere necessario («il caso è un nome / della necessità»). Come scritto nella nota editoriale, che parla dei versi di Natura morta nei termini di «una serrata rappresentazione (ed analisi) sulla razionalità della natura e sulla naturalezza della storia». In questa cosmogonia «necessaria» in che modo opera l’immaginazione, altrimenti da lei designata «finzione», ossia il «linguaggio per cercare» – il solo, elaboratissimo, percorso per un accesso sostanziale a quella realtà situata «oltre la finta riconoscibile / sagoma del mondo», quello «stato eterno / dentro la vita / disperso e frantumato / dalla vista»?

L’immaginazione è l’elaborazione via via più sofisticata di quella capacità di intendere qualcosa pronunciando qualcosa d’altro. È, insomma, una forma di conoscenza profonda tutt’altro che casuale o arbitraria. In concorrenza con la prassi cognitiva della scienza. È, in fondo, quello che riconosceva appunto uno scienziato di grande qualità come Einstein, che parlava dell’immaginazione come della possibilità di catturare la verità sfuggente delle cose per poi proporla alla dimostrazione della ragione. L’immaginazione arriva appunto a «fingere», cioè ad afferrare dipingendola, a toccare dandole forma, quella verità altrimenti inafferrabile. Ecco il primo senso e valore della finzione, che ci riporta a quella prospettiva simbolica di cui parlavamo, del dire una cosa per significarne un’altra. La finzione è stata fin da subito fondamentale per l’uomo, non solo o tanto per una sorta di legittima difesa, ma per conoscere. Del resto, lo stesso metodo scientifico si fonda sulla finzione nel tentativo di mettere a nudo la verità: replicando artificialmente ogni fenomeno, cioè ripetendolo fuori dalla realtà, in laboratorio.

Rispetto ad Affari di cuore, dove imperversava una soggettività dirompente (che abbiamo visto afferire a una configurazione paradigmatica, deliberatamente o di riflesso legata alla dimensione del poetante-pensante), in Natura morta, come tempestivamente notava Niva Lorenzini (riferendosi alla esigua parte di testi che nel 1984 uscirono in altra stesura su «Il Belpaese» con il medesimo titolo), si verifica «l’esclusione dell’io, del punto di vista soggettivo e privato»; nell’apparente sofisma del convergente-divergente, dell’effettuale-ineffettuale, vediamo scomparire ogni attinenza a pertinenze dell’artifex per una aforisticità – se si escludono le questioni e le perplessità sollevate negli «Interrogativi» –, pacata e pervasiva. I diversi «Libri» in esergo ad alcune sezioni di Natura morta, nonché le altre epigrafi, figurano come anonimi e concorrono anch’essi alla impersonalità che ipersegna quest’opera. In questi segmenti del libro si è ispirato a qualche autore in particolare?

Le citazioni sono tutte autentiche e relative alla produzione parallela sia dei testi taoisti della tradizione che a quelli canonici dei Libri Veda con le loro cosmogonie. Ma non c’è nessun autore particolare dominante e neppure una tradizione specifica prioritaria. C’è, naturalmente, tutta la vasta mole delle mie letture, di ogni genere e tipo, non solo poetiche, ma anche specificamente filosofiche, dal passato remoto fino almeno ad Adorno. Un interesse per il pensiero, non separato né separabile dalla musica. In una chiave che, senza rinunciare alla ragione, non rinuncia neppure all’immaginazione. Con quella possibilità che la poesia di pensiero consente, di uscita massima da sé, dal proprio cerchio chiuso dell’io balbuziente, e dentro quella sinfonia placata che si diffonde senza quasi più ostacoli e barriere.

Poesia e dimensione musicale, un binomio onnipresente nella sua opera; il quale sembra assumere anche la funzione di infondere il senso dell’unità delle voci contrarie, di una concordia discors, o di una discordia concors, come nelle cosmologie rinascimentali…

Sì, per me, in poesia la musica è tutto e il resto viene dopo. Ammesso che si possano separare le cose e, di certo, non è possibile. È una nostra deformazione quella di separare, a maggior ragione in un’operazione creativa, tra forma e contenuto, come del resto tra concreto e astratto, apparente e reale… Trainante, per me, è sempre un’ossessione mentale di tipo musicale, che si innesca e che mi trascina materializzando le parole come note in una partitura. Al di là dell’interferenza continua della ragione, è comunque l’orecchio a dominare la scena. Perciò, sì, la musica fa da elemento unificatore, per una coerenza armonica che è fatta anche di cocci e di vetri rotti.

In Natura morta si ragiona su uno stato di cose: in una condizione così configurata, quale margine di scelta è concesso all’individuo?

Lo stato delle cose è uno stato oscuro e fluttuante, dove l’individuo ha una parte attiva inevitabile. Non si spiegherebbe altrimenti, fin dalla sua comparsa sulla terra, l’istinto dell’uomo all’artificio, cioè l’istinto a impadronirsi della realtà, in tutti i modi e con tutte le conseguenze anche negative. L’individuo ha più scelta di quanto non appaia a prima vista… Vuole sapere se credo nel libero arbitrio? Sì, nonostante tutti i condizionamenti e tutte le costrizioni. Ed è da sempre che l’uomo, forzando la situazione, esercita la libertà di decidere, magari sbagliando e perfino a suo danno. Da un certo momento in poi, l’uomo ha cominciato a interrogarsi sul suo rapporto con lo stato delle cose e a darsi delle possibili risposte. Ai due estremi, troviamo da una parte la convinzione che la realtà sia pura apparenza rispetto alla quale si sia chiamati ad esercitarsi come in una dolorosa palestra, dall’altra la convinzione che la realtà sia il prodotto del puro caso. Sia gli uni che gli altri, comunque, non sembrano affatto rinunciare al margine di scelta…

La nozione di «vuoto», una delle sue «parole che contano», in Natura morta dà l’impressione di esulare dall’orizzonte della parte più appariscente di Affari di cuore e di precedenti sue dichiarazioni – nelle quali lei si riferiva alla vacuità inerente all’esistere –, viene riabilitata e cambia radicalmente di segno…

Il vuoto che lascia un amore finito o la scomparsa di una persona cara ha poco a vedere con la nozione di vuoto che riesce ad elaborare una persona nel corso della sua vita. Certo, dalle singole esperienze di privazione e nel rapporto con ciò che non c’è o non c’è più, vengono comunque degli stimoli che ti aprono a considerazioni altre e nuove. Già il fatto di sperimentare sulla propria pelle l’effetto elastico per cui si scopre che il più alto grado di presenza è l’assenza induce (o dovrebbe indurre) alla riflessione sulla natura ambigua dello stato delle cose. Ci si dimentica di chi (di ciò che) è presente e si ha nostalgia di chi (di ciò che) è assente… Poi si cominciano ad aprire gli occhi, se non altro prendendo atto che ogni pieno contempla inevitabilmente il vuoto. Ma ci si fa ancora più avanti, scoprendo per esempio che un bicchiere o una bottiglia contano appunto per il loro vuoto o accorgendosi che si vive nel vuoto della casa. I pensatori orientali ne avevano da sempre evidenziato l’importanza. I filosofi occidentali, fino a Kant, a suon di ragione ne escludevano invece l’esistenza. Gli scienziati, per parte loro, hanno scoperto non solo che il vuoto esiste ma che ha tanti aspetti e varietà che definire nell’ottica del contraddittorio è ancora poco: antimateria, buchi neri… Il vuoto e l’assenza sono, paradossalmente, ciò che consente la presenza e la vita.

Ferme restanti tali ricognizioni, in Natura morta il vuoto ha peculiarmente a che fare con l’«incontro trascendente / con la totale alterità», nella misura in cui, in questa sua prospettiva, è l’assenza della vita a fare da «stampo» e da «impronta» al fattuale e all’essere vivente. Come la morte dà un senso alla vita e al suo linguaggio, così il lutto «chiama la vita / non altra morte», lei asseriva in La Gioia e il lutto («l’orma, / appassita / eppure intanto rifiorita, / di ogni cosa», vi leggevamo). Di qui la portata – sotto il profilo sia individuale che universale – della iperbolica diade «gioia e lutto», tale da indurre Pier Vincenzo Mengaldo a suggerire in prefazione di leggere il primo degli elementi del binomio «non solo secondo, ma terminale», ad emblema del senso ultimo del suo libro sull’Aids. Che idea ha lei del trascendente?

Il trascendente è appunto tutto ciò che trascende l’evidente, il toccabile, il qui e adesso. Ma, indipendentemente da ciò che uno crede o pensa, la tendenza a trascendere è una caratteristica costituzionale degli uomini. È un istinto, un’inclinazione, un impulso, una disposizione, cha va al di là di qualsiasi consapevolezza o fede. È ciò, appunto, che ci ha resi simbolisti fin da subito, a differenza di tutti gli altri esseri viventi. Qui non serve scomodare le religioni storiche, che hanno cercato di dare confini appunto storici a tale inclinazione. L’uomo aspira all’oltre, è attratto dall’oltre, vi aspira come fosse trascinato da una molla, da un elastico che lo fa rimbalzare metaforicamente verso l’alto. Siamo nel mistero della vita, naturalmente. E dobbiamo fare i conti con l’altra faccia della vita, la morte. Al di là di qualsiasi considerazione, l’istinto ci suggerisce qualcosa che appare ancora una volta contraddittorio, che le cose non sono come appaiono, che c’è altro che continua oltre ciò che sembra cessare.

Lei scrive: «Ma la natura morta / non è senza vita: // tutto si trasforma senza cessare di essere». La metamorfosi – ove essa non sia una ripetizione dell’uguale – è sempre rigerminazione, rigenerazione? La natura morta richiama necessariamente altra vita, partendo dal suo assunto per il quale «solo ciò che si trasforma è destinato a durare»?

Ce l’abbiamo sotto gli occhi, ma non ce ne accorgiamo: che tutto si trasforma, a partire da noi stessi. È il meccanismo stesso della vita: quel movimento inarrestabile per cui il processo consiste appunto nel suo continuo modificarsi. Vivere, insomma, è morire continuamente. Quante filosofie e religioni hanno metaforizzato questa metamorfosi in atto di cui siamo parte, riconoscendo che tutto rinasce dalle proprie ceneri. Un’evidenza, certo, destabilizzante. E, per reazione, ecco nella stragrande maggioranza dei casi, l’impossibilità di credere che solo ciò che si trasforma sia destinato a durare. L’uomo infatti è conservatore e vorrebbe preservare nel tempo se stesso e il resto che gli sta a cuore… Ma come si fa a conservare ciò che si trasforma? Evitandogli di modificarsi. Cioè impedendogli la «resurrezione». Con un atto, insomma, di desertificazione.

Il secondo dei due testi inaugurali di Natura morta, «Terra», presenta una struttura innodica (anche in virtù dell’iterazione anaforica) mentre trasmette una eco della romantica natura naturans, senza tuttavia i romantici cedimenti nichilistici…

L’idea di natura che posso testimoniare è quella di un «insieme» di cui l’uomo è parte, corpo complesso e contraddittorio che rende possibili le condizioni di vita, senza per altro assicurarle. Fin da subito, istintivamente, l’uomo si è sentito a rischio dentro questo corpo indifferente, pieno di risorse ma anche di rischi. E istintivamente, fin da subito, l’uomo ha messo in campo la sua capacità di artificio, per impadronirsi di una realtà dalla quale si sentiva compresso e schiacciato. È in quest’ottica che, per quanto mi riguarda, credo oggi che la natura vada sì difesa, ma anche lasciata alla sua metamorfosi e nel limite del possibile corretta, perché non è affatto la madre benefica che qualcuno sogna che sia.

Il finale spostamento della riflessione – nel «Piccolo inventario delle cose notevoli» – al corpo vivente costituisce l’inveramento dell’astrazione nel concreto, la sintesi avvenuta tra spirito e materia, tra alterità e immanenza, in una compagine dove è evidente la valorizzazione della medietas, della misura?

Sì, lei ha colto l’intenzione, compresa la valorizzazione della misura. Misura come operazione con cui si confronta una grandezza con un’altra. Ma misura anche come concetto connesso con il problema dell’integrazione, cioè come funzione che riconduca all’insieme. Quello che lei chiama inveramento dell’astrazione nel concreto, sintesi di spirito e materia, di alterità e immanenza.

Resta il mistero, il diaframma anche quotidiano nel quale «lo sguardo umano» si infrange: «Sicuri dell’effetto / che non cadrà il muro / tra il cercatore e il suo desiderato / né tra l’amante / e l’oggetto del suo amore»…

Contro ogni pretesa della nostra curiosità, il mistero è la garanzia paradossale della vita. Meccanismo trainante, elastico di ritorno, vuoto appunto da riempire. È il buio rispetto al quale noi cerchiamo di accendere una luce, facendo l’esperienza di nuovo contraddittoria che, più luci accendiamo, più cresce e si infittisce il buio. Meccanismo che sanno bene gli scienziati: il non sapere ci spinge a cercare e a spiegare, ma quanto più troviamo e spieghiamo tanto più si allarga il campo della nostra ricerca.

La contaminazione di generi letterari strutturalmente eterogenei viene diffusamente praticata nella sua opera, quale reificazione di quello che lei ha definito «principio di contraddizione». Inoltre, con il suo argomentare per ossimori lei sembra voler sorprendere l’istante non esclusivamente tetico. Lo schema ossimorico diviene lo strumento per presentificare la dialettica ambivalenza degli opposti, quella varia unitas che nel suo libro è invocata pressoché pervasivamente. La «necessità del paradosso», la consustanzialità e l’immedesimazione di poli contrari tutt’altro che inassimilabili in virtù del loro vincolo necessario, insomma… Tuttavia, questa inflazione ossimorica – che non diminuisce, anzi incrementa la pregnanza degli effetti – potrebbe anche rifarsi a un altro dei suoi motivi ispiratori, quello della pienezza prossima e distante, della centralità del «segno» e del «dato» di Camera oscura, del «flash inaspettato», della traccia intravista e persa, della condizione – in Natura morta – dell’«eppure non compiuto», o della cosa «che di colpo cessa / di essere in procinto», dell’intermittenza o della manifestazione sempre parziale dell’evento?

L’ossimoro è, da sempre, un «naturale» approdo del linguaggio della poesia allo sforzo di esprimere quello stato contraddittorio della realtà di cui si è qui più volte detto. È, in fondo, uno dei pochi resti del linguaggio paradossale che usava la tradizione sapienziale di libri come i Veda o il Tao, che oltre tutto erano prevalentemente testi poetici. Se la realtà è contraddittoria, come si può far coincidere una cosa e il suo contrario? Con l’ossimoro, appunto. Ma per me, naturalmente, vale anche l’altra opportunità che l’ossimoro consente, quella di cui lei parla della traccia intravista e persa, dell’atto non compiuto che di colpo ha smesso di essere in procinto di accadere. L’ossimoro consente di attualizzare in essere ciò che non è o non è ancora, permette all’evento di essere avvenuto e insieme di essere sul punto di avvenire. Insomma, una serie di opportunità espressive che offrono all’ambivalenza estrema della vita di trovare finalmente pronuncia.

Nei suoi versi lei afferma che ciò che è stato non muta ma viene assunto in virtù del fatto che è già mutato. Aveva presente, a proposito del mutamento, anche la sua prospettiva di Camera oscura (ripenso soprattutto alle sezioni di carattere esclusivamente meditativo che si frappongono ai gruppi di foto in versi)?

Sì, il riferimento a Camera oscura è calzante. Le parti che lei cita rientrano in una problematica che mi è sempre presente e che, nel discorso fotografico, aveva trovato già le sue ragioni nell’evidenza che ciò che è stato non muta ma viene assunto in virtù del fatto che è già mutato. Basta pensare a una foto qualsiasi e alla sua natura di «istantanea» che ha appunto catturato un istante del soggetto fotografato. Quell’istante vi appare ormai immutabile, eppure è evidente che la sua condizione è già mutata. E non importa che la foto sia di un anno fa o di un’ora fa. Quell’istante ormai immutabile è già mutato mentre si fissava. Tutto ciò che compare su una foto riposa sul vuoto.

I versi di Natura morta costituiscono – almeno esteriormente – l’estremizzazione della formula mengaldiana della sua consuetudine a «pensare poeticamente». È così? È possibile definire Natura morta un’opera filosofica in versi in cui viene decostruito «il sogno di non contraddizione» attraverso un percorso che ha di mira il rilevamento dell’«intima correlazione» dell’apparentemente incoerente?

È un fatto che per me la realtà conta solo se pensata. Mengaldo aveva ragione e mi ha reso consapevole di un fatto che continua sempre quando scrivo, che si tratti d’amore o di follia o di oggetti apparentemente astratti come il tempo o il vuoto. Ma, nella mia esperienza, niente in realtà è astratto. Il mio modo di essere è quello che gli inglesi definiscono «in touch», a contatto. Ed ecco come la realtà attraverso il tatto si materializza nel pensiero. Perciò per me non importa che si tratti d’amore o di tempo o di vuoto o di qualsiasi altra cosa: tutto ciò che tocco è la materia del pensiero. Ecco realizzata l’intima correlazione dell’apparentemente incoerente.

In che termini la sua visione di sublime potrebbe costituire una valorizzazione del sub limen? La sua formula dell’«inversamente proporzionale» – per la quale, come lei scrive, «più basso è il tono e più alto è l’effetto» – fornisce la possibilità di nominare ciò che altrimenti sarebbe destinato a restare sotto la soglia? Secondo lei, la poesia è sublime nella misura in cui approda, circoscrivendo, a una sostantivazione?

Giusta parola: sublimazione. Nel senso del far emergere ciò che nasce dal basso, ma anche come trasformazione di una sostanza dallo stato solido a quello di vapore. Proprio come fanno i mistici trasformando i visceri in tensione spirituale, la poesia compie il prodigio della parola che si accende (non importa il genere grammaticale). E si accende proprio perché, per la legge dell’inversamente proporzionale, è leggera, piena di vuoto e di assenza. Quel vuoto e quell’assenza che fanno da risucchio per il lettore, spinto con forza verso ciò che è alluso.

E sulla linea della formula dell’«inversamente proporzionale» è il suo modo di porsi al lettore, nel senso che meno enfatico è il suo atteggiarsi – alle presentazioni dei suoi libri, ad esempio – e più si percepisce lo spessore della sua visione del mondo. Solidissima, benché versata nello sgretolamento del suo verso volutamente discontinuo e brevilineo che descrive nella sua ipotesi di poetica, una versificazione per frammenti quale mimesi o comunque semiotica dell’«incespicare» dell’io nella frantumazione pulviscolare della modernità. La sua estraneità alla verbosità e all’enfasi roboante che talora sembrerebbero alonare certi contesti costituisce unicamente l’esito di una vocazione a farsi capire? O piuttosto sta a connotare un modo di essere nel mondo e di relazionarsi all’altro da sé che non necessita di pose o paramenti, ma si mostra nella sua evidenza e nella sua rilevanza trasparenti e tangibili?

Non è il problema del farsi capire che mi spinge a scrivere e a parlare come scrivo e parlo. No, perché per me non si pone affatto il problema di una comunicazione. Non scrivo per farmi leggere. Scrivo per me stesso, dietro a un’ossessione della ricerca per la ricerca, in una chiave di gnosi. Del resto, non faccio lo scrittore professionale, che deve intrattenere i suoi lettori. E neppure il conferenziere che si propone di coinvolgere i suoi ascoltatori. Anche quando parlo in pubblico, come quando scrivo in privato, vado dietro alle parole che emergono dal mio profondo. E il mio profondo non può che far emergere quelle parole essenziali, in un discorso balbuziente e smozzicato, che non si preoccupa affatto di un possibile maquillage per rendersi più presentabile.

Nei suoi «Appunti» lei fa riferimento alla fotografia. Sottoscriverebbe, almeno in parte, queste parole di Giuseppe Pontiggia (tratte dal romanzo La grande sera): «Per capire che il mondo non è come lo si immaginava può bastare a un adolescente qualche mese decisivo. Ma per capire che non è come lo si è visto occorrono decenni. La seconda maturità è un frutto amaro e tardivo, a volte tossico, ricco di acidi che hanno il potere di trasformare una fotografia a colori in una radiografia»? Non potrebbero funzionare da didascalia, se non altro a un paio di «parentesi» di Diario di Normandia (a Honfleur, Calvados: 11 agosto e a Saint Aubin, Calvados: 14 agosto, ad esempio)?

Sì, senz’altro. Liberarsi dagli abbagli della vista è una delle cose più difficili. Siamo naturalmente vittime degli inganni dell’evidenza. È uno degli aspetti più deleteri della così detta realtà. Occorre appunto l’immaginazione: cioè la capacità di entrare dentro l’immagine, perché la sua verità riposa nel retroscena, oltre l’apparenza.

14-16 agosto 2012

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