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Conversazione col poeta Veniero Scarselliin: Pomezia-Notizie, XIII, n.8, 2005 Veniero Scarselli ha recentemente pubblicato tutti i suoi graffianti e coinvolgenti poemi in un unico volume di 436 pagine, dal titolo Il lazzaretto di Dio, sottotitolo “Rospi diavoli aquile serpenti” (Bastogi editrice, 2004) corredato di un esaustivo studio critico-biografico di Federico Batini e di una interessante postfazione dell’Autore come guida alla “Poesia della filosofia”. Ricordiamo che il Poeta ha un suo sito web personale contenente tutti i suoi poemi integrali: www.venieroscarselli.it.
Si può dire che ho provato a scrivere poesiole fin dalle prime classi elementari, suggestionato dalle poesie che ci facevano imparare a scuola, ma è diventata una cosa più seria e sentita solo durante l’adolescenza, l’età in cui si va sospirando dietro ai primi amori; Non avendo il coraggio di abbordare le ragazze ch’erano oggetto del mio amore romantico, le tempestavo di poesie, peraltro devo dire senza grande successo. Un po’ più tardi, verso i sedici anni, la frequentazione di un mio cugino molto più grande, il direttore d’orchestra Ettore Gracis, persona molto colta e intellettualmente vivace, mi ha aperto alla poesia e alla musica contemporanea; ricordo il primo libro che mi regalò, erano gli Ossi di Seppia e io lo divorai; da allora fu una lunga indigestione di poeti ermetici, i soli che spadroneggiassero a quel tempo e che mi diedi subito a imitare. Intanto ero anche molto indaffarato con la ricerca biologica e credo che la lettura dei testi scientifici abbia contribuito a riportare a poco a poco la mia scrittura poetica coi piedi per terra; ci volle qualche anno, ma finii per abbandonare l’autodistruttiva poetica ermetica per recuperare la solida tradizione linguistica italiana e addirittura rinnovare la tradizione del poema epico facendone un’espressione del nostro tempo. Una volta imboccata la strada giusta, ho anche capito che lo scopo della poesia era di divulgare contenuti importanti, più che belle immagini, e che questo si poteva fare solo col poema. Non era in fondo ciò che avevano sempre fatto gli antichi poeti con i loro poemi? Illudiamoci che anche oggi l’umanità sia sazia di vuoti sperimentalismi e abbia voglia di una poesia più sostanziosa!
E’ un potente mezzo di riflessione su tutti i temi esistenziali che assillano il nostro tempo: la fragilità della vita, l’amore, la morte, l’essenza del Divino. Perciò non mi piace più la parola “poesia”. Se mi confronto, infatti, con ciò che scrivono oggi quelli che vengono detti “veri poeti”, mi sembra di essere un alieno venuto da altri mondi; mi pare più giusto chiamarla “riflessione poetica", così non usurpo il titolo a nessuno. Credo anche che io scrivo in versi solo per l’abitudine giovanile, durata molto a lungo, di scrivere singole poesie sull’onda di un’emozione. Quest’abitudine è diventata una forma espressiva, uno stile, e m’è venuto più facile esprimermi in un ritmo poetico anche quando ho cominciato a farne un mezzo di riflessione. Insomma è l’unico modo in cui mi riesce di esprimermi. Il mio lavoro è dunque un’esplorazione del mondo e di noi stessi, tento di farne una rilettura secondo la mia personale visione della vita; una visione cui certo hanno contribuito la curiosità e l’esperienza del biologo ricercatore. Ma il passo più importante è tato quando ho capito che questa esplorazione mal si adattava alla singola poesia: solo il poema infatti mi permetteva di sviscerare un tema in tutti i suoi risvolti con una serie coerente e omogenea di pensieri. Così, da tanto tempo non ho più scritto singole poesie occasionali, ma poemi narrativi con una loro ben precisa architettura e un tema conduttore scandito in singole stanze, o lasse, in cui ognuna tratta un diverso particolare del tema. Ho scelto la suddivisione in lasse, quasi fossero mini-capitoli o paragrafi d’un romanzo, per dare agio al lettore di soffermarsi su ogni aspetto considerato e anche… di riposarsi. Sarebbe forse un po’ pesante dover leggere l’intero poema senza delle soste.
Mi ha sempre interessato investigare le zone più oscure e inesplorate dell’esistenza, gli interrogativi che l’uomo si è sempre posto sulla natura e sull’universo, gli aspetti della nostra vita spirituale e anche carnale, quella che i poeti di solito escludono dall’indagine perché sgradevole, o dolorosa, o inconfessabile, e quindi disdicevole alla poesia. La maggior parte della gente infatti pensa che alla poesia si addicano solo argomenti gradevoli, puliti ed edificanti; mentre a me piace anche rimestare nel torbido e perfino nell’osceno, se da questo può nascere l’anelito al riscatto. D’altra parte non si capisce perché solo alla prosa sia concesso di occuparsi di tutto e senza peli sulla lingua. Io di peli sulla lingua non ne ho mai avuti neanche in poesia, ho sempre detto pane al pane e vino al vino senza escludere anche termini scabrosi e parolacce; ed è per questo che molti mi considerano un prosatore... mancato, o un poeta… maledetto.
E’ semplice: comunque lo si classifichi, il genere cui mi sono dedicato esclude rigorosamente ogni forma di oscurità ermetica: la limpidezza della scrittura e l’osservazione scrupolosa delle regole di sintassi sono per me un principio inderogabile; lavoro instancabilmente a un testo fino a farne sparire ogni frase o parola che possa suonare ambigua od oscura; fino al punto che qualcuno ha accusato i miei versi, con neanche troppo velato disgusto, di essere “prosastici”. A molti sembra infatti che per fare poesia si debba lasciare al testo almeno un po’ di oscurità; credono in questo modo di alimentare la fantasia del lettore e non si accorgono neanche che, se così fosse, tutta la poesia “antica” in blocco fino agli inizi del Novecento non sarebbe più poesia, dato che si è sempre data da fare per esprimere il pensiero in modo trasparente e lineare guardandosi bene dall’oscurità. Ma non si ricordano neanche gli anni di scuola, dove ogni professore di liceo non mancava di farci notare i passi in cui l’oscurità faceva scadere il risultato poetico; vorrei che qualcuno mi spiegasse questa comica contraddizione. A me comunque sta bene lo stesso: se oggi vige ancora questa moda dell’oscurità ermetica, vorrà dire che io non sono poeta ma “libero pensatore”; sono contento lo stesso, perché a me importa solo di esprimere i pensieri in modo trasparente e in un ritmo musicale il più possibile accattivante; il mio vero scopo è di scuotere gli animi e le intelligenze inducendole alla riflessione priva di tabù su ogni argomento che ci tormenta. Si può ben dire che il lupo ha perso il pelo ma non il vizio: in pratica io ho trasferito nei miei scritti lo stesso “vizio” mentale dello scienziato e la sua irriducibile inclinazione alla limpidezza dell’espressione.
E’ stato il compianto Vittorio Vettori, e ci ha abbastanza azzeccato. Da quando infatti mi sono accorto che la ricerca scientifica era un cunicolo senza uscita, fatto solo per le masturbazioni mentali di specialisti settoriali il cui unico fine è scoprire la molecola tal dei tali che s’incastra nel gene tal dei tali che fa lavorare l’enzima tal dei tali per attivare la funzione biologica tal dei tali (ma poi, sarà vero?), mi sono stufato, anche se era un bel gioco: tutto questo non poteva in alcun modo soddisfare la mia sete di conoscenza generale, quindi ho preso il toro per le corna: pur con la paura di non farcela, ma costretto dalla mancanza di alternative, ho mollato tutto e mi sono “rifugiato” con la mia famigliola in un casolare molto isolato dell’Appennino toscano (non per caso quasi ai piedi dell’Eremo di Camaldoli e non lontano da quello della Verna). E’ una terra ancora abbastanza selvaggia che una volta era popolata solo da eremi e piccoli cenobi; uno, da tempo disabitato e quasi un rudere, è situato addirittura a poche centinaia di metri dalla mia casa. Anch’io, nel mio piccolo, sono vissuto per anni in modo eremitico senza vedere (da lontano) altri che qualche cacciatore nella stagione della caccia (che però se ne stava alla larga, quasi provasse… un timore reverenziale). Con l’aiuto d’una mini-pensione, vivevo coi prodotti dell’orto e di una decina di pecore, in una unione profonda con la natura e in un’economia autarchica quasi di pura sopravvivenza (che non escludeva di farmi anche del buon vino). Ero veramente felice perché finalmente avevo avuto il coraggio di abbandonare gli allettamenti della società industriale e consumistica e perché in fondo non era stato tanto difficile rinunciarvi. E’ stata la scelta di chi, nauseato da tutte le distorsioni, perversioni e costrizioni del consorzio umano, finalmente respirava la vera libertà. Ora forse potrei facilmente confessare che in quella scelta da misantropo c’era anche una punta di orgogliosa superbia; ma da quando ho scoperto che attraverso la poesia potevo avere con i miei simili quell’unione profonda che prima credevo impossibile, mi sono dedicato più intensamente alla scrittura mitigando anche il rigore e la superbia del mio isolamento con frequenti comparse in pubblico, per premi, recital, presentazioni ecc. Mi è rimasto tuttavia pur sempre un po’ di rimpianto per il mio buon vino e per i tempi in cui… Berta filava; e io filavo, nel senso letterale della parola, la lana delle mie pecore.
Era chiuso in me da sempre, da quando a sei anni vivevo a Siracusa col mare che entrava quasi in casa, da quando mio padre mi portava a veleggiare con un gozzo da pescatori, da quando affascinato mi smarrivo fra i grandi ombrosi papiri che costeggiano l’Anapo, da quando guardavo affascinato i film come Zanna Bianca, da quando più tardi, vivendo a Firenze proprio dove le ultime case della città si affacciano sui campi, cercavo bisce nei fossi, rondinini caduti dal nido e coltivavo il mio giardino per trarne melanzane e pomodori; da quando più tardi, diventato biologo, scappavo da Milano ad ogni week-end per potermi sdraiare sull’erba, sguazzare sul greto dei fiumi, aspirare gli odori della natura.
Non ho certo alcun rimpianto per la folla, il rumore, i motori, il materialismo, la vita convulsa, il delirio consumistico, lo spreco, l’inquinamento, l’artificiosità degli allettamenti, insomma l’inutilità e vanità di tutto ciò che si fa in città e che purtroppo sta contagiando a poco a poco anche i paesi più piccoli fino ai casolari intorno a me. Ma non potranno avvicinarsi tanto da ferirmi, perché quando la terra qui non costava nulla ho messo fra me e loro 38 ettari di insormontabile boscaglia inselvatichita. Preferisco il silenzio del mio eremitaggio, dove la vita è tutta un’altra cosa: il ritmo è umano e il tempo non è denaro. Vi sono arrivato come un assetato, assaporando quell’unione rispettosa con la Natura di cui avevo bisogno, di cui ogni uomo, se fosse capace di ascoltarsi, ammetterebbe di avere bisogno più del pane. La cosa più importante per me era sentirmi tutt’uno con la terra, anch’io creatura fra le sue creature, come un’erba una pianta un animale. Questo bisogno di solitudine e di integrazione naturalistica era certo dentro di me fin dall’infanzia, ma purtroppo è solo attraverso innumerevoli esperienze e delusioni che si arriva alla maturità, a capire ciò che è genuinamente dentro di noi, il vero significato che vogliamo dare alla nostra esistenza. Ora che l’ho fatto, non mi stanco di dire a tutti i dubbiosi che è facile, molto facile; quando si hanno dentro di noi dei valori da salvare, e ci si crede, è facile tagliare il superfluo e vivere dignitosamente con poco.
E’ evidente che il genere umano è irreversibilmente lanciato verso un tipo di vita sempre più artificiale e meccanicistico che aliena l’uomo dalla Natura e da se stesso; è quasi un cancro planetario questo spietato sistema capitalistico-consumistico che vive a spese di un sud del mondo sempre più povero e indigente. Ma è fatale che, per la loro straordinaria vitalità demografica, i poveri (finora forse ancora gli unici incorrotti conservatori dei valori tradizionali della famiglia) si integrino così bene nel sistema inventato dagli occidentali, da ottenere una totale omologazione e appiattimento sul nostro modello insensato di vita. E’ anche probabile che, quando saranno la maggioranza, se ne impadroniscano totalmente imponendo le loro regole e rivoluzionando la nostra decrepita civiltà. La Natura tuttavia non si lascia imbrigliare dalla follia umana; l’abbandono dei valori della vita su scala planetaria e la sopraffazione esercitata sulla Natura hanno già fatto scattare processi irreversibili che mettono in pericolo la stessa esistenza dell’uomo. Da tempo se ne vedono i terribili segni nell’inquinamento che avanza fra l’indifferenza di tutti e nella sovrappopolazione che nessuno sa (o vuole) fermare. Si preferisce cinicamente delegare questo triste meccanismo naturale alla decimazione prodotta dalle guerre, dalle carestie, dalle malattie, naturalmente sulla popolazione più arretrata; ma neanche questo sarà capace di arrestare la perdita dei valori e la marcia dei poveri alla conquista del “posto al sole” costituito dalle ricchezze materiali. Non si sono forse da sempre succedute civiltà più vitali a civiltà morenti? Non è così che avviene sul nostro Pianeta l’evoluzione delle specie e dei popoli?
Sì, tanto pessimista da pensare che nel giro di qualche decennio nessuno leggerà più né i miei scritti né quelli di altri. La poesia dovrebbe servire a renderci sempre più consapevoli del significato dell’esistenza; ma già oggi si osserva che la parola scritta interessa pochissimo; il nostro è diventato un mondo di immagini visive, i nostri figli succhieranno tutti insieme dal poppatoio della televisione i suoi indottrinamenti conditi da stuzzicanti spot. Forse è già iniziato quel Nuovo Mondo così lucidamente preconizzato da Huxley e da Orwell. |
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