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La poesia della scienza
Veniero Scarselli, maestro dei versi
in: Roma, 12 dicembre 1997
Veniero Scarselli, uno dei più importanti poeti dei nostri
giorni, il 24 Novembre 1997 è stato ospite dei "Lunedì letterari" de La Vallisa,
a Bari nella Libreria Roma. Annarita Fatone, giornalista e poeta ella stessa, lo ha intervistato e
ne è nata un'interessante conversazione che può servire a conoscere meglio
quest'autore eccezionale ma molto appartato, che è stato definito da Giancarlo
Oli "straordinario Maestro". Veniero Scarselli, che aveva una lunga storia di
"scrittore segreto" pur con la sua professione di biologo e docente
universitario, a un certo punto ha scelto di ritrarsi dalla ricerca scentifica
per dedicarsi interamente alla poesia e vivere in uno sperduto casolare
dell'appennino toscano. Il suo primo libro, Isole e vele, è del 1988 pubblicato
con Forum quinta generazione; sono seguiti per la Nuova Compagnia Editrice
Pavana per una madre defunta (1990), Torbidi amorosi labirinti (1991),
Priaposodomomachia (1992) ed Eretiche grida (1993); in seguito, per i tipi di
Campanotto Editore, Piangono ancora come bambini (1994), Straordinario accaduto
a un ordinario collezionista di orologi (1995) e il recentissimo Il Palazzo del
Grande Tritacarne (1998). Del 1997 sono anche: La riflessione poetica, antologia
critica delle sue opere a cura di Vittoriano Esposito, sempre Edizioni Campanotto, e
Fuga da Itaca, Edizioni Confronto, pubblicato a cura del premio "Libero De Libero".
Su di lui esiste già una grande mole di studi e di saggi dei più noti critici.
Non ama la poesia lirico-intimistica né la poesia singola, quindi non ha mai
pubblicato raccolte di poesie sparse; si esprime in una poesia narrativa del
genere romanzo in versi, o poema, che affronta i temi esistenziali più toccanti
e riprende e rinnova la poesia epica in una forma originalmente moderna.
Quando e dove è nato, e dove si è svolta la Sua
formazione culturale?
Ai poeti come alle donne (ambedue sono esseri
immortali) non si chiede l'età. Io sono nato a Firenze da... sempre, e là ho
compiuto i miei studi classici. Dopo un'intensa sperimentazione poetica, ho
optato per la ricerca scientifica e appena laureato in Biologia sono stato
nominato assistente all'Istituto di Fisiologia di Milano, dal grande Margaria.
Questo scienziato è stato per me anche un grande maestro di lingua; posso dire –
per quanto empio possa sembrare – d'avere imparato a scrivere non da tutti i
professori di lettere che ho avuto al liceo classico, ma da uno scienziato. Deve
sapere che io mi sono laureato avendo già al mio attivo due pubblicazioni
scientifiche e con questi allori andavo tronfio come un tacchino. Perciò, quando
ho scritto la mia prima memoria scientifica milanese, sono andato fieramente a
sottoporla al Professore; lui l'ha letta e mi ha detto laconicamente «bene, bravo, però ora riscrivila
da capo». Io sono rimasto di sasso. Non mi spiegò neanche il perché! Io l'ho
rifatta e gliel'ho portata con un po' meno di sicurezza. L'ha letta e ha detto «Non ci siamo ancora».
«Ma cos'è che non va?» ho chiesto; e finalmente mi ha
detto «Guarda come scrivono gli anglosassoni!» e ho dovuto riconoscere che quei
ricercatori hanno una scrittura concisa, esatta, semplice, diretta, tutt'altra
cosa che le frasi piene di fronzoli e voli pindarici cui ero abituato dal liceo.
Insomma, me l'ha fatta rifare sette od otto volte. Alla fine però è venuto fuori
uno scritto pulito e chiaro. Ecco, questa è stata per me una grande lezione: non
stancarsi mai di cercare con cura e pazienza la parola e la frase esatta che
inquadri in modo univoco un concetto.
Ma Lei aveva già scritto poesia?
Ho cominciato a scrivere a sette anni,
impressionato, ricordo, dal film Zanna bianca. Allora vivevamo a Siracusa,
proprio sul mare; le mareggiate ci buttavano giù il muretto del giardino; questo
fu il mio primo contatto col mare, l'inizio d'una grande passione.
Pensa che questi ricordi contino nella Sua
produzione?
Certo! il mare ha avuto un'importanza grandissima
nella mia vita: mare, isole, scogli, vele, navigazioni. Il mare impersona
l'immensità del creato. Mi affascinano particolarmente le isole, che poi possono
diventare anche monti; anche i monti sono isole, chi ci vive come me è isolato
dal resto del mondo; nella solitudine e nel silenzio sembra di essere più vicini
alla natura e a Dio. Anche il Monte Athos, ad esempio, del mio libro Eretiche
grida è rappresentato come un'isola; e tale è certo anche per i pochi monaci che
ci vivono. Tornando al periodo passato a Milano e poi all'estero, anche là ho
vissuto come in un'isola una vita quasi monacale interamente dedicata alla
scienza, naturalmente non trascurando di fissare le mie riflessioni con la
scrittura poetica.
Come conciliava attività scientifica e attività
letteraria?
Senza alcuna fatica. In fondo, quando ho
rinunciato alla scienza per la poesia, in realtà ho lasciato un linguaggio per
un altro linguaggio, ma la sostanza del ricercare era la stessa. Anche la
ricerca scientifica è una forma di creatività che si esprime con un proprio linguaggio.
Posso dire quindi che ora faccio in poesia quello che con altri mezzi ed altro
"alfabeto" facevo nei laboratori. La scienza si limita a darci delle
rappresentazioni verosimili, nel senso che soddisfano il nostro innato bisogno
di ordine, il bisogno di vedere il mondo inquadrato secondo leggi coerenti di
causa ed effetto; che poi queste leggi siano o no reali, non ha molta
importanza, dato che il Vero esiste solo nella nostra mente – o in quella di
Dio. Oggi uso il linguaggio della poesia perché in questo momento è quello per
me più congeniale e significante; le sue rappresentazioni del mondo sono più
soddisfacenti anche dal lato emotivo. Anch'io, quando scrivo i fatti della vita
o del mondo, non affermo certo delle verità assolute, ma le rappresento come le
vedo, o come temo, o spero, che siano. Posso dire per estensione che tutte le
attività dello spirito fanno la stessa cosa. E ci metto dentro anche
l'artigiano: anche lui ci dà la rappresentazione di qualcosa che era nella sua
mente, come lo scienziato o il poeta.
Ma Lei ora ha fatto la scelta di abbandonare la
carriera scientifica per dedicarsi completamente alla poesia. Anche vivere in un
casale fa parte di questa scelta?
Inizialmente sentivo solo di dover in qualche modo
abbandonare la scienza perché mi ero reso conto che essa non era capace di
spiegare il mondo come speravo. Il secondo impulso, seguendo la mia inclinazione
per la natura, è stato di fare il contadino; ho trovato un podere abbandonato;
ho cominciato a coltivarlo e ad allevare animali. Era il mitico ritorno alla
terra del post-sessantotto; alle soglie del 2000 ed in piena era consumistica
volevo realizzare l'autosufficienza in un'economia di sopravvivenza. Non volevo
né macchine né televisione, neppure la luce elettrica; con buona volontà e molto
spirito sportivo si faceva quasi tutto ciò che serviva, perfino il sapone e le
candele, si filava la lana delle pecore, si facevano maglie e calzerotti, che
però... pungevano maledettamente. Ma a poco a poco si è dovuti scendere
fatalmente a compromessi: le maglie che si compravano al mercato non pungevano e
la corrente elettrica costava meno fatica delle candele. Forse un po' in crisi,
dopo qualche anno ho cominciato a occuparmi sempre meno del podere e sempre più della poesia,
che non avevo mai abbandonato, anzi quello era stato un periodo molto fecondo.
Il rapporto con gli animali quanto conta nella Sua poesia?
Ho un rapporto molto intenso con tutti gli animali. Ciò che scrivo è pieno
degli animali più diversi, dai lupi alle aquile, e anche quelli che la gente
considera con ripugnanza, dai topi ai rospi, agli insetti, ai serpenti. Qualcuno
vorrebbe perfino fare uno studio sul bestiario che si incontra nei miei libri.
Se la vita è evoluzione, il concetto vale anche per
la Sua poesia?
Sì, certo, anche la scrittura si evolve, come anche la
concezione della vita e il modo di vedere il mondo. Da quando ho iniziato, sono
passato attraverso tutti gli sperimentalismi ed avanguardie; a un certo punto
però anche la mia scrittura si è stabilizzata, e ciò si chiama in genere
"maturazione". Quando ho ritenuto di averla raggiunta, ho raccolto in un libro,
Isole e vele, quanto ritenevo che fosse pubblicabile della mia ultima produzione
fra il '65 e 1'88. Devo dire anche che all'atto di metterla insieme, mi si è
presentato il problema di dare un ordine logico alla successione delle poesie.
Fino ad allora avevo scritto, come tutti quanti, poesie quando capitava, però
adesso mi ripugnava doverle accatastare senza un ordine significante. Mi sono
sempre chiesto con quale criterio gli altri autori mettessero insieme le loro
poesie per farne delle sillogi; io comunque le ho ordinate in modo che
evidenziassero l'evoluzione di una vita. Forse non ci sono perfettamente
riuscito, tuttavia credo si possa dire che il libro ha l'andamento del romanzo;
così gli ho messo il sottotitolo, forse un po' pomposo, di romanzo lirico. Non
ho mai pubblicato raccolte di poesie, in seguito le ho sempre espressamente
coniate seguendo una vera e propria trama e legandole strettamente l'una
all'altra come piccoli capitoli di un romanzo, spesso osservando addirittura
l'unità di tempo e di luogo.
Ci sono autori, italiani o no, cui Lei si è
ispirato e che può considerare "modelli"?
Fra i classici, certamente Dante e Leopardi;
nonostante l'antiteticità delle loro concezioni, hanno letteralmente imbevuto i
miei scritti. Mi sono nutrito anche di Montale, Ungaretti,
Quasimodo, De Libero; hanno sicuramente contribuito alla mia formazione, però
adesso credo che non vi sia più traccia di essi, io almeno non ne sono
cosciente. Fra i viventi, non sono molti quelli che amo, forse Rossano Onano,
per la scrittura visionaria che in certo modo ci accomuna, anche se alquanto
oscura; oggi infatti cerco solo la scrittura trasparente e diretta, e con alti
contenuti spirituali. C'è un poeta, ad esempio, molto appartato, Vittorio
Cozzoli, che scrive francescanamente ma in modo originale di Dio e delle cose
semplici della vita, dei frutti della terra, degli animali, del miele, dei
fiori. E' un'ulteriore prova, che ciò che manca oggi alla poesia sono solo dei
contenuti che possano convincere, e avvincere, il lettore per la loro importanza
esistenziale.
C'è un fondo autobiografico in quello che scrive?
C'è sempre una base autobiografica di partenza e
credo che ciò valga per tutti gli scrittori.
Oggi Lei si sente soddisfatto della Sua poesia? Come
lettore di se stesso, si piace?
Sì, mi sembra di aver raggiunto la maturità
stilistica cui ogni autore aspira. Inoltre, limo per così tanti anni ogni mio
scritto che i pentimenti sono quasi impossibili. Mi turba solo il tormento
esistenziale che vi traspare, l'amarezza della mia visione della vita, anche se
la tempero con l'ironia, il paradosso, il grottesco. Forse vorrei saper scrivere
di cose edificanti, capaci di dare fiducia, serenità. Comunque, sì, mi piaccio,
confesso anche di farmi matte risate quando mi rileggo; naturalmente, se c'è da
ridere!
Ci sono prosatori che hanno avuto un peso per Lei?
Quando leggevo più di adesso, me ne sono piaciuti
molti, ad esempio il Moravia de La noia, Berto de Il male oscuro. Ma solo
Dino Buzzati mi è veramente rimasto dentro e credo che sia visibile in ciò che
scrivo l'influenza della sua tragica visionarietà. Devo ammettere comunque di
non essere un grande lettore: sono lentissimo, leggere un libro mi impegna a lungo anima e corpo, mentre il tempo che posso
dedicarvi è purtroppo molto ristretto.
Lei scrive anche in prosa?
No, non mi riesce, mi viene solo da scrivere in
versi. Eppure mi piacerebbe scrivere un sano, normale romanzo con tantissime
parole in più, che piacciono tanto alla gente. Sarebbe più facile avere
successo. Invece sono condannato a condensare le parole in pochi versi.
Lei è già un autore che si può dire affermato,
importante; ma che cos'è il successo in poesia?
Essere letto e cercato da tutti per le cose che si
raccontano, quando esse riescono a far diventare i lettori, ma anche lo stesso
autore, più consapevoli di se stessi e delle cose del mondo, e forse più saggi e
maturi. Non è una pretesa arrogante, penso anzi che sia un dovere della poesia.
Prendiamo, ad esempio, un Dante un Leopardi un Pascoli; al loro tempo tutti li
conoscevano e li consideravano maestri di vita. Oggi invece c'è un'insanabile
frattura fra i poeti e il pubblico; e ciò è insopportabile, anche se dovrebbero
essere i poeti a fare "mea culpa", dato che ciò è dovuto vuoi al loro linguaggio
strampalato (e per questo si credono "moderni") vuoi alla mancanza di contenuti
capaci veramente di interessare. Io cerco di scrivere usando la lingua in modo
chiaro e corretto, affrontando i temi esistenziali che da sempre interessano
l'umanità, perché voglio parlare a tutti, non solo agli addetti ai lavori o agli
altri poeti.
Ad un lettore che per la prima volta volesse leggere
qualcosa di Suo cosa consiglierebbe?
Ce n'è per tutti i gusti! A un lettore interessato
ai problemi della coppia, o tentato dall'erotismo trasgressivo con relativa
lotta fra il Bene e il Male, consiglierei Torbidi amorosi labirinti, oppure
Priaposodomomachia. A un credente tormentato dal dubbio, Eretiche grida. A chi
abbia perduto un suo caro, Piangono ancora come bambini, oppure, se vuole
sublimare il suo lutto fino alla meditazione filosofica, Pavana per una madre
defunta. A chi invece piacciano le storie fantastiche con un occhio alle visioni
metafisiche, Straordinario accaduto a un ordinario collezionista di orologi. Ma ora c'è anche l'ultimo libro appena uscito,
Il
Palazzo del Grande Tritacarne, una grottesca e visionaria, metafisica parodia
del calvario ospedaliero, in cui la carne peccatrice è purgata attraverso il
dolore delle amputazioni e alla fine il poco di carne che resta è tritato,
distillato e trasformato in 'spirito.
Quando ha deciso di pubblicare, è stato semplice
trovare l'editore?
Trovare l'editore è facile: basta pagare. La
poesia purtroppo in libreria non si vende, a causa appunto del suo isolamento
dal pubblico. D'altra parte, come si può pretendere che la gente si senta
attratta dai soliti sfoghi intimistici, o da una poesia a base di voli di
farfalle, e per di più scritta in modo ermetico e indecifrabile? Il risultato è
che tutti quelli, buoni e cattivi, che scrivono poesia devono pagarsela. E non
solo: devono pagarsi anche tutto ciò che aiuta a farla conoscere, la spedizione
ai critici e ai giornali, i concorsi letterari, le antologie, le presentazioni,
la pubblicità, tanto che intorno ad essi è cresciuto un florido mercato di vero
e proprio sfruttamento. Infatti ci sono più poeti che lettori, e se ciò può
esser bello dal punto di vista dell'alfabetizzazione (se pure non tutti sembrano
conoscere l'alfabeto) succede che anche i pochi che potrebbero emergere passano
inosservati fra le pile di libri che si accumulano sui tavoli dei critici, i
quali, distratti e annoiati, non sperano più di trovare la perla preziosa.
Quindi, nonostante la pletora di poeti, sono brutti tempi per la poesia. Non so
neanche se, e quanto a lungo, potrà sopravvivere.
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