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Una vita immersa nella natura
La tua poesia è impregnata di
naturalismo. Come è nato questo tuo amore così profondo per la Natura?
Era chiuso in me
da sempre, da quando a sei anni vivevo a Siracusa col mare che entrava quasi in
casa, da quando mio padre mi portava a veleggiare con un gozzo da pescatori, da
quando affascinato mi smarrivo fra i grandi ombrosi papiri che costeggiano
l’Anapo, da quando guardavo affascinato i film come Zanna Bianca, da quando
più tardi, vivendo a Firenze proprio dove le ultime case della città si
affacciano sui campi, cercavo bisce nei fossi, rondinini caduti dal nido e
coltivavo il mio giardino per trarne melanzane e pomodori; da grande, diventato
biologo, scappavo da Milano ad ogni week-end per potermi sdraiare sull’erba,
sguazzare sul greto dei fiumi, aspirare gli odori della natura. Ma la stessa
scelta del corso di laurea in Biologia-Scienze Naturali è espressione di questo
antico interesse naturalistico.
Nella prefazione a un tuo libro,
Eretiche grida, è stato scritto che il luogo in cui hai scelto di vivere è un
piccolo “Monte Athos”.
E’ stato il
compianto Vittorio Vettori, e ci ha quasi azzeccato; infatti è un vero eremo.
Quando mi sono accorto che la ricerca scientifica è un cunicolo senza uscita,
fatto solo per le masturbazioni mentali di specialisti il cui unico fine è
scoprire la molecola tal dei tali che s’incastra nel gene tal dei tali, il quale
fa lavorare l’enzima tal dei tali per attivare la funzione biologica tal dei
tali (ma poi, sarà vero?), mi sono stufato, anche se era un bel gioco: tutto
questo non poteva in alcun modo soddisfare la mia sete di conoscenza generale,
quindi ho preso il toro per le corna: pur con la paura di non farcela, ho
mollato tutto e mi sono “rifugiato” con la mia famigliola in un casolare molto
isolato dell’Appennino toscano (non per caso quasi ai piedi dell’Eremo di
Camaldoli e non lontano da quello della Verna). E’ una terra ancora abbastanza
selvaggia che una volta era popolata solo da eremi e piccoli cenobi (un Monte
Athos, appunto). Anch’io, nel mio piccolo, sono vissuto per anni in modo
eremitico senza vedere altri che qualche cacciatore nella stagione della caccia
(che però se ne stava alla larga, quasi provasse… un timore reverenziale). Con
l’aiuto d’una mini-pensione, ho vissuto coi prodotti dell’orto e di una decina
di pecore, in una unione profonda con la natura e in un’economia autarchica
quasi di pura sopravvivenza (che non escludeva di farmi anche del buon vino).
Cinghiali, cervi, caprioli, istrici, volpi arrivano ancora fino alla porta di
casa; il lupo non si avvicina, in tanti anni l’ho intravisto da lontano solo due
volte, ma ogni tanto una pecora sbranata mi ricorda che c’è. Sono stato
veramente felice, finalmente avevo avuto il coraggio di abbandonare gli
allettamenti della società consumistica e in fondo non è stato tanto difficile
rinunciarvi. E’ stata la scelta di chi, nauseato da tutte le distorsioni,
perversioni e costrizioni del consorzio umano, finalmente respirava l’aria
libera. Ora forse potrei facilmente confessare che in quella scelta da
misantropo c’era anche una punta di orgogliosa superbia; ma da quando ho
scoperto che attraverso la poesia potevo avere con i miei simili quell’unione
profonda che prima credevo impossibile, ho cominciato a trascurare il lavoro
agricolo per dedicarmi più intensamente alla scrittura e ho mitigato anche il
rigore e la superbia del mio isolamento con la partecipazione a premi, recital,
presentazioni ecc. Mi è rimasto tuttavia pur sempre un po’ di rimpianto per il
mio buon vino e per i tempi in cui… Berta filava; anch’io filavo davvero, nel
senso letterale della parola, la lana delle mie pecore.
Non ti manca la vita delle grandi
città in cui eri abituato a vivere e lavorare?
Non ho certo alcun
rimpianto per la folla, il rumore, i motori, il materialismo, la vita convulsa,
il delirio consumistico, lo spreco, l’inquinamento, l’artificiosità degli
allettamenti, insomma l’inutilità e vanità di tutto ciò che si fa in città e che
purtroppo sta contagiando a poco a poco anche i paesi più piccoli fino agli
sperduti casolari dei dintorni. Ma non potranno avvicinarsi tanto da ferirmi,
perché quando la terra qui non costava nulla ho messo prudentemente fra me e
loro 38 ettari di insormontabile boscaglia inselvatichita. Preferisco il
silenzio del mio eremitaggio, dove la vita è tutta un’altra cosa: il ritmo è
umano e il tempo non è denaro. Vi sono arrivato come un assetato, assaporando
quell’unione rispettosa con la Natura di cui avevo bisogno, di cui ogni uomo, se
fosse capace di ascoltarsi, ammetterebbe di avere bisogno più del pane. La cosa
più importante per me era sentirmi tutt’uno con la terra, anch’io creatura fra
le sue creature, come un’erba una pianta un animale. Questo bisogno di
solitudine e di integrazione naturalistica era certo dentro di me fin
dall’infanzia, ma purtroppo è solo attraverso innumerevoli esperienze e
delusioni che si arriva a capirlo nella maturità, a vedere ciò che è
genuinamente dentro di noi, il vero significato che vogliamo dare alla nostra
esistenza. Ora che l’ho fatto, non mi stanco di dire a tutti i dubbiosi che è
facile, molto facile; quando si hanno dentro di noi dei valori da salvare, e ci
si crede, è facile tagliare il superfluo e vivere dignitosamente con poco.
Non sei molto ottimista sul futuro
spirituale dell’umanità.
E’ evidente che il genere umano è
irreversibilmente lanciato verso un tipo di vita sempre più artificiale e
meccanicistico che aliena l’uomo dalla Natura e da se stesso; è quasi un cancro
planetario questo spietato sistema capitalistico-consumistico che vive a spese
di un sud del mondo sempre più povero e indigente. Ma è fatale che, per la loro
straordinaria vitalità demografica, i poveri (fino ad ora forse ancora gli unici
incorrotti conservatori dei valori tradizionali della famiglia) si integrino
così bene nel sistema inventato dagli occidentali, da ottenere una totale
omologazione e appiattimento sul nostro modello insensato di vita. E’ anche
probabile che, quando saranno la maggioranza, se ne impadroniscano totalmente
rivoluzionando la nostra decrepita civiltà. La Natura tuttavia non si lascia
imbrigliare dalla follia umana; l’abbandono dei valori della vita su scala
planetaria e la sopraffazione esercitata dall’Uomo sulla Natura hanno già fatto
scattare processi irreversibili che mettono in pericolo la stessa esistenza
umana. Da tempo se ne vedono i terribili segni nell’inquinamento che avanza fra
l’indifferenza di tutti e nella sovrappopolazione che nessuno sa (o vuole)
fermare. Si preferisce cinicamente delegare questa triste necessità naturale
alla decimazione prodotta dalle guerre, dalle carestie, dalle malattie; ma
neanche questo sarà capace di arrestare la perdita dei valori e la marcia dei
poveri alla conquista del “posto al sole” costituito dalle ricchezze materiali.
Non si sono forse da sempre succedute civiltà più vitali a civiltà morenti? Non
è così che avviene sul nostro Pianeta l’evoluzione delle specie e dei popoli?
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