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Quello che ancora non sai

Valeria si fermò di botto, attratta da un clangore strano. Sembrava un cozzare di latta, il rumore che fanno i barattoli battuti l’uno contro l’altro per scacciare i passeri dai terreni freschi di semina.

Proveniva dal sentiero che costeggiava i filari delle viti e si avvicinava in fretta.

Traballando sulle gambe grassocce partì al trotto con un riso gioioso, le braccia leggermente aperte e i pugni chiusi.

“Valeria, dove vai? Torna subito qui!” urlò Agnese.

La bambina si voltò appena verso sua madre che chiamava dalla porta di casa; puntò l’indice della mano destra verso un punto non visibile dalla casa e proseguì il suo trotterellare gioioso.

Due figure le venivano incontro e lei agitò le manine, salutando festosa nel linguaggio tipico dei bambini che iniziano a parlare.

“Calein, calein!” cantilenò indicando i loro elmetti, simili ai “bucalèin”, i vasi da notte che sua madre, la sera, metteva sotto il letto.

Non le fecero festa; parlavano una lingua strana che non capiva. Allora si fermò, questa volta improvvisamente impaurita.

I due soldati tedeschi, giovanissimi, erano l’avanguardia di uno dei tanti comandi in ritirata, ma lei questo non poteva saperlo e tanto meno capirlo.

“Valeria, Valeria!” urlava sua madre che la guardava impietrita dall’angolo della casa.

Uno dei due soldati la spinse con il calcio del fucile.

“Kaputt!” e rise.

Valeria cadde battendo il sederino sulla terra dura. Fece la mescola, ma le lacrime rimasero lì, sul bordo delle ciglia. Non era una bambina che piangeva facilmente!

Si alzò pronta a protestare tutta la sua rabbia, ma pur così piccola, intuiva che c’era qualcosa che non andava, qualcosa di insolito.

“Sei cattivo!” sussurrò quando, girate le spalle, stava già correndo verso sua madre.

“Mi farai morire!” disse lei entrando velocemente in casa con la bimba in braccio e nello stesso tempo chiamando a gran voce suo padre.

Sull’uscio le altre donne di casa guardavano mute, ma non rassegnate.

6-4-42

Carissimo marito ti do risposta dei tuoi scritti con ritardo; mi dovrai scusare ma abbiamo molto da lavorare e non ho mai un minuto di tempo. Ho notato che hai detto che ora stai meglio e che ti hanno cambiato un po’ il mangiare che ti danno e che è migliore. Appena avrò un po’ di tempo ti spedirò un pacco con del pane.

Caro marito mi chiedi una fotografia della bambina, ma ora non l’ho ancora fatta fotografare e non so dirti quando potrò andare dal fotografo, e per ora non te la posso mandare.

Caro marito ho notato che tua sorella ti ha scritto che sono andata a casa sua il giorno della Madonna con la bambina, io non te lo avevo detto perché avevo paura che mi dicessi che avevo solo il pensiero di andare alla festa, ma non ci sono andata per quello. Volevo contentare le tue nipoti che hanno voluto vedere la bambina e in un giorno che non si lavorava nel campo.

Caro marito ti faccio sapere che ieri, il giorno di Pasqua, e venuta tua cognata Adalgisa con il bambino, si è meravigliata di Valeria che è così ingrassata che non credeva quasi pesasse tanto.

Caro marito ora non ho altro da dirti, quando scrivi fammi sapere se hai avuto ancora la febbre e se stai bene.

Ti mando i miei più cari saluti.

Tua moglie

Scritti semplici e un po’ sgrammaticati dove galleggiava il timore di Agnese di fare qualcosa di sbagliato. E poi quel non chiamarsi per nome!

Le o della nonna erano un tondo leggermente oblungo.

“O come le lacrime del sole!” diceva raccontandole poi la solita favoletta.

“Devi sapere che tanti anni fa, ma proprio tanti, addirittura ancora prima che io nascessi, il sole e la luna vivevano insieme nel cielo. Giocavano, si aiutavano e si facevano compagnia. Diventati adulti, entrambi pretendevano di essere i padroni assoluti dell’universo. Iniziarono a litigare e al Buon Dio dispiaceva molto. Così risolse la questione stabilendo che il sole sarebbe diventato il re del giorno e la luna la regina della notte. Ma mentre la luna poteva giocare con tutta la corte delle stelle, il sole era solo. Divenne triste e il cielo si oscurò per nascondergli le guance piene di lacrime che scivolarono sulla terra, rotonde proprio come la lettera o!”

Le favole della nonna erano ricche di dialoghi e di esclamazioni di stupore e per Alisa, che si divertiva molto, era diventata una piacevolissima abitudine quella di trascorrere interi pomeriggi seduta con lei al tavolo della cucina “piena di odori buoni”.

Il giorno dopo successero due cose: Corrado ricevette la posta di sua moglie e l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania.

Dalle lettere che riceveva dal marito o dai fratelli, Agnese riusciva a sapere poco di un conflitto che coinvolse quasi tutti i paesi del mondo, ma a lei bastava che Corrado tornasse. Sapeva di dovere fare attenzione a molte cose; a quali suo padre glielo diceva sottovoce ogni volta che si incontravano. Da sua madre aveva imparato a passare pressoché inosservata ovunque andasse. Era consapevole del pericolo, di cosa significassero le idee diverse e sperava, anzi era convinta come tanti altri, che la guerra sarebbe finita presto.

Non fu così.

12/06/40

Caro marito, rispondo alla tua lettera per darti mie notizie e per dirti che le cose non vanno bene coi i tuoi, ma ho imparato a difendermi. Non ti scrivo molto per non farti stare in pensiero perché se ti racconto tutto ti viene la rabbia. Con tuo padre non si può andare d’accordo, non gli va mai bene niente. Tua madre è sempre in cantina in mezzo alle botti del vino e tuo fratello maggiore non fa che lamentarsi del lavoro nei campi. Con le tue sorelle faccio quello che posso anche perché, per avere un po’ di pace, mi tocca fare i lavori più pesanti. Anche a una mia amica succede come a me quando ci incontriamo ai confini del campo ci facciamo coraggio insieme.

Caro Corrado ti prego di smetterla di sgridarmi se non ti scrivo. Faccio del mio meglio, ma adesso c’è tanto lavoro perché iniziano a mietere e io ho anche i lavori di casa da fare. Hanno chiamato anche mio fratello Giovanni così non può venire ad aiutarci. Corrado io ti perdono però dici sempre che dobbiamo portare pazienza e poi sei proprio tu che la perdi per primo.

Caro Corrado ho scambiato la pelle di un coniglio con un po’ di lana da quello del camioncino così ti posso fare degli altri calzetti. Non è proprio buona, ma la lana della tosatura l’adoperano le tue sorelle. Avevano detto che se la cardavo e la filavo me ne davano un po’, ma l’ho già usata per farti una maglia.

Caro Corrado adesso devo salutarti perché devo risparmiare anche sulla candela. Il petrolio tuo padre lo nasconde, ma io ho scoperto dove lo tiene e qualche volta ne prendo un po’.

Caro Corrado fammi sapere presto tue notizie che mi fai piacere.

Ti saluto e spero di ricevere presto una tua lettera

Tua moglie

17/06/40

Carissima moglie rispondo alla tua lettera con molto piacere. Agnese tu non puoi credere la contentezza che ho provato a sentire che tu mi perdoni.

Agnese mi dici che hanno chiamato anche tuo fratello Giovanni. Mi dispiace, ma spero che non sia niente e che anche per gli altri ci siano speranze.

Agnese ho inteso anche che mi dici che hanno incominciato a mietere il grano. Vorrei essere a casa anch’io ma non so se mi daranno il permesso. Non ti posso assicurare perché è molto difficile, ma proverò a vedere se potessi venire a casa ad aiutarti un po’ di lavorare che ne hai così bisogno.

Agnese se verrò a casa ho tante cose da dirti e una grande voglia di vederti. Agnese non puoi credere quanto sia il desiderio di vederti per dirti tutto il dolore che ho provato per averti lasciato così in un pasticcio, ma ora sono contento perché sento che dici che ora andate d’accordo abbastanza. Ogni giorno che passa non faccio altro che pensare a te, mi sembra di vederti davanti ai miei occhi, ma purtroppo c’è la lontananza. Spero che venga presto quel giorno che potrò stare vicino a te per sempre.

Agnese ogni volta che penso ai giorni passati che ti ho fatto passare così tanto dispiacere, mi viene da piangere perché ti ho trattato in un modo che non meritavi, tu che sei la più buona delle donne. Io spero che tu avrai ancora fiducia in me, e devi credere che io ti voglio ancora bene come sempre e te ne vorrò per tutta la vita.

Agnese non ho altro da dirti e non mi rimane che salutarti ricordandoti ogni momento.

Spero anche di vederti presto ma non ti so dire il giorno.

Ti saluto di nuovo e ti mando i miei più affettuosi baci.

Tuo marito Corrado

Agnese non aveva mai avuto difficoltà a muoversi in bicicletta, sapeva guidare il calesse e condurre le bestie attaccate al carro o all’aratro.

Alla stazione era andata diverse volte, quando Corrado arrivava in licenza lei regolarmente gli portava la bicicletta. Poi tornavano assieme, lei seduta sul cannone e lui che le raccontava della vita che conduceva tra i suoi commilitoni.

Su un treno invece non era mai salita ed un poco spaventata lo era. Aveva portato Valeria a casa dei suoi genitori, e suo padre l’aveva assicurata che l’indomani sarebbe venuto alla stazione a salutarla.

Lei stava aspettando e intanto scambiava qualche parola con il capostazione. Erano stati compagni di scuola e anche se nella vita avevano preso strade diverse, l’antica complicità infantile non era mai scomparsa.

“Stai attenta!” le aveva detto lui.

“Anche tu! – aveva risposto lei – Sono brutti momenti e chissà dove andremo a finire.”

“Pensa a tua figlia e a tuo marito! Ah! Ecco tuo padre. Sarebbe meglio che fosse più collaborativo con noi. Sono brutti momenti, l’hai detto anche tu!”

Lei si strinse nelle spalle e andò incontro a suo padre.

“Stai alla larga da quell’uomo! Sono lontani i tempi di quando andavate a scuola insieme!”

“Babbo, è cambiato il mondo. Ci guardiamo tutti con sospetto e…!”

“Zitta! E’ meglio non fare certi discorsi. Ah, ecco sta arrivando il treno. Il biglietto ce l’hai? Sì, bene! Saluta Corrado e stai tranquilla per la bambina.”

L’aiutò a salire e le allungò il fagotto dove Agnese aveva messo qualche indumento e un po’ di generi alimentari. I soldi li aveva infilati nel reggiseno.

Il viaggio sembrava non finire mai. In mancanza di un orologio, aveva portato con sé la grossa sveglia che teneva sul comodino della camera da letto. Faceva rumore, ma andava a mescolarsi con le voci dei viaggiatori e lei non se ne preoccupò più di tanto.

Di fronte a lei sedeva una donna anziana, salita alla stazione vicina, che dopo poco le chiese se anche lei andava a Verona.

“Posso venire con voi? Siete giovane e sarete pratica!”

“Mica tanto. Io devo andare all’Ospedale Militare da mio marito!”

“Oh, che bellezza! Vado lì anch’io. C’è mio figlio che si è ammalato di polmonite, dicono. Speriamo che lo mandino a casa per sempre. E il vostro uomo che cosa ha?”

“E’ rimasto sotto il mulo mentre portavano della roba su al campo. Andavano su per un sentiero di montagna. L’animale è scivolato e, per evitare che cadesse nel burrone, mio marito lo ha tirato per la cavezza verso di sé. Così gli è caduto addosso!”

“Ma cosa dite! E’ proprio un brutto lavoro! Mio figlio dice che i muli militari sono trattati meglio che i cristiani. Ma cosa si è fatto il vostro marito?”

“Corrado si è rotto una gamba e, dicono, anche una spalla.”

“Oh, poveretta voi! Così giovane e già così disgraziata!”

“Magari è la sua fortuna! Se la gamba non si mette a posto, può darsi che lo mandino a casa anche lui!”

“Io ve lo auguro! Avete dei figli?”

Continuarono a parlare delle rispettive famiglie e Agnese cominciò a rilassarsi.

Scesero alla stazione e, dopo aver chiesto indicazioni, si avviarono a piedi verso l’ospedale.

Agnese aveva fretta di arrivare, ma la sua occasionale compagna di viaggio camminava adagio così fu costretta a rallentare il passo.

Quando finalmente entrò nell’enorme camerone, rimase disorientata alla vista delle due lunghe file di letti, poi si sentì chiamare e marciò verso Corrado.

Nonna Anna ha ricordato tante volte due fratelli, un medico e un professore, ricercati dai fascisti perché sospettati di aiutare i partigiani. Avevano trovato rifugio in campagna, presso una famiglia amica che li aveva aiutati a scavare una galleria proprio sotto un filare di viti. Uscivano solo a notte fonda per ritirare il cibo sepolto nel fosso. Poi una loro sorella volle portare qualcosa di più per festeggiare il compleanno del professore e non si accorse di essere seguita. Il rifugio fu scoperto, lei fu stuprata, il medico riuscì a fuggire e il professore morì fucilato. Il suo corpo restò nei campi per diversi giorni; la gente aveva paura e se ne stava rintanata nelle case. Solo la madre di questo uomo sfortunato sfidò i fascisti e la paura per andare a riprendersi il corpo del figlio. Lo portò via, un po’ trascinandolo e un po’ caricandolo sulle spalle. Poi, misteriosamente qualcuno le fece trovare una carriola lungo il cammino. Otto chilometri per arrivare al cimitero. Questo figlio non riuscì mai a dimenticarlo e quando, superata la cinquantina, partorì un altro bambino lo chiamò con lo stesso nome.

Di episodi come questo ce n’è una infinità. Più quelli accaduti alla fine della guerra.

Nonostante ciò, continuavano a lavorare la terra come potevano: c’era la trebbiatura, il fieno da tagliare e da rivoltare perché si essiccasse, portarlo poi nelle cascine… Dopo arrivava il momento della potatura... C’era la solitudine dei campi, il chiederti continuamente a chi appartenesse la figura che si stagliava in lontananza.

I nonni, e anche mia madre, quando raccontavano queste cose guardavano lontano, verso l’orizzonte, quasi cercassero le persone che avevano fatto parte della loro vita e avevano perso, vittime di una guerra massacrante come ogni guerra. E credo che, al centro di queste figure e dei loro ricordi, ci fosse Fiorenza, la zia bambina che non è diventata adulta.”

Valeria tacque. La figura di Fiorenza era tra loro, ferma tra la gente in fuga che rischiava di travolgerla, materializzata con le sue lacrime silenziose come solamente fanno i bambini spaventati e impotenti davanti a eventi che non capiscono.

“L’aeroplano arrivò all’improvviso e, sempre all’improvviso si abbassò. Addosso a noi, sfollati in fuga in cammino verso un casolare lontano, era arrivata la rabbia di una mitragliatrice. Una marcia scomposta dove la solidarietà, che ci aveva un tempo unito, sembrava scomparsa nel continuo dilemma se badare a sé stessi o ricordarsi che c’erano anche gli altri.

Qualcuno afferrò Fiorenza, per metterla fra coloro che già stavano ammassati dentro un fosso tra sterpi, insetti e ranocchi. Mia madre raccontava che quando tutto finì, sembravamo fantasmi usciti da chissà dove. A lei si era spezzato il bastone, a Fiorenza la vita. Nonna Anna la teneva in braccio: sembrava una bambola rotta.

I miei nonni non ne vollero sapere di proseguire e tornarono indietro e noi due andammo con loro. Io non capivo l’immobilità di mia zia, posata dentro la carriola e nemmeno perché non mi lasciassero salire accanto a lei.

Le avevo preso un piedino, privo di una scarpa finita chissà dove, e lo tenevo stretto dicendo: ‘Nonna, ti aiuto io!’. Faticai a capire che non avrei più giocato con lei: una bambina, mia zia, maggiore di me di appena sette anni.

Le persone sembrarono risvegliarsi e la pietà per i morti, per quella bambina morta, li riscattò almeno per un poco dal loro abbrutimento. Ci salutarono tutti mentre voltavamo la schiena. Ascoltavo mia madre, quando mi raccontava queste cose, con dentro il rimpianto per non avere ricevuto prima quelle confidenze, quando ero una ragazzina e non una donna fatta.

Il giorno successivo cercai Fiorenza per tutta la casa. Mia nonna mi disse di non cercarla più perché era andata via e non sarebbe tornata. Sembrava arrabbiata e non capivo il perché. Mia madre piangeva e il nonno stava sempre con le braccia penzoloni come non sapesse dove tenerle.

Solo a guerra finita mia madre cercò di spiegarmi cosa vuole dire morire. Qualche mese dopo mia madre tornò in ospedale per curare la sua forma reumatica. Non la cercai. Nella mia testolina pensavo che anche lei se ne fosse andata con l’aeroplano.

Ti sto raccontando un mucchio di tristezze. Scusami. Non pensavo che le lettere che ti ho dato mi avrebbero portato a tanto!”

Alisa la guardò con affetto:

“Invece mi hai fatto un regalo stupendo. Oltre ad avermi fatto conoscere un pezzo di storia dei nonni che non conoscevo, mi hai dato modo di riflettere su tante cose. Credo sia una cosa bellissima essere amati come è stata Agnese. Mi dispiace per Corrado. Posso chiamarli così, vero? Mi sembra di avere trovato due amici!”

Valeria guardò la nipote e fece un piccolo sorriso. Era un po’ commossa, ma anche svuotata, perché tutto quel raccontare alla fine era diventato una specie di autoanalisi, molto più profondo di quei bilanci che faceva di tanto in tanto, isolandosi in uno dei suoi rifugi.

Alisa l’abbracciò con affetto. Avvertiva la barriera sottile, infinitesimale, sufficiente però per mantenerla distante da una donna che aveva avuto tanto dalla vita, ma sembrava quasi abbarbicata, almeno in certi momenti, all’unica cosa, che non aveva avuto…

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