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Un luogo della memoria:
Sogliano nella Poesia di Pascoli

Relazione di Bruno Bartoletti
Sogliano al Rubicone, 15 maggio 2004

 

Dopo diversi anni eccoci di nuovo ad entrare nell’universo pascoliano con una sensazione di stupore per scoperte un tempo non vedute, con una rilettura che ogni volta offre spunti di discussione. A dire il vero, leggendo e rileggendo le poesie del Pascoli, non sfugge quel fenomeno di cupo innamoramento da cui è difficile staccarsi. «Entrare nell’orizzonte pascoliano, senza esserne complici, è un’esperienza simile a una tortura; ma, una volta entrati, fatto il primo passo, chiudere l’argomento e tagliare la corda è impossibile: le viscere pascoliane non hanno fine, perché non hanno forma»[1].È come se quell’opera fosse sempre aperta, mai conclusa, sempre in fieri, come se «a ciò che è stato detto» si affianchi, come un mare profondo, «ciò che ci viene nascosto» per una forma di riluttanza e di pudore che il poeta non osava svelare ai lettori e forse neanche a se stesso[2].

Sotto la tragedia familiare, i lutti e le disgrazie che sono seguite a un assassinio rimasto impunito, si avverte e va ricostruita un’altra pagina di storia, è la pagina del tentativo di costruzione del nido, riuscito solo a metà, una pagina in cui Sogliano occupa un posto centrale nelle vicende del poeta, da cui emergono, come messaggi, brecce, schegge, i versi, gli abbozzi, i componimenti: è quel libro della memoria, solo progettato e mai scritto.

La memoria, il ricordo delle cose perdute, sono elementi su cui poggia tradizionalmente la poesia, secondo un motivo di derivazione leopardiana[3]. Non è casuale che una delle sezioni di Myricae[4] porti il titolo di Ricordi e si apra con Romagna, coordinando tempo della memoria e luoghi. «Il ricordo è poesia, e la poesia non è se non ricordo»[5] scriveva nella Prefazione ai Primi Poemetti, e il ricordo era per il poeta soprattutto un riportarsi ai tempi e ai luoghi dell’infanzia per ascoltare la voce dei suoi morti. La seconda edizione di Myricae del 1892 si ampliava con alcuni componimenti dedicati al dolore familiare e la terza edizione del 1894 si apriva con la lunga lirica Il giorno dei morti (alcuni frammenti erano stati già pubblicati nella seconda edizione), una narrazione fosca e tragica, una epifania dell’esistenza svelata attraverso la voce dei morti in un paesaggio tragicamente funebre. «Liriche della memoria»[6] le chiamava Mario Pazzaglia parlando di quella raccolta posta alla fine dei Canti di Castelvecchio, ma come sezione staccata, che va sotto il nome di Ritorno a San Mauro – dono del poeta per le nozze di Emma Tosi, figlia del Sindaco – e che rappresenta forse il primo nucleo di quei Canti di San Mauro già ipotizzati nella Prefazione ai Primi Poemetti[7]. E liriche della memoria, oltre all’intera sezione del Ritorno a San Mauro, possono configurarsi Un ricordo, Il ritratto, Il nido di «farlotti», La cavalla storna, La voce, La mia malattia.

In un libretto ormai lontano nel tempo – è del 1964 - Claudio Varese, prendendo lo spunto dal saggio di Lukács Narrare o descrivere, in cui si mostrava come nella seconda metà dell’Ottocento vada scomparendo la complessità dell’intreccio per far posto alla forma descrittiva, parlava di «poetica di Allora – la poesia della memoria»[8], quale elemento essenziale che fissa l’oggetto nel suo movimento (a tratti ritorna nelle prime poesie l’avverbio «immobilmente» che può essere preso come un avverbio simbolico della poesia che è immobile e insieme in movimento) come succede nella visione che la memoria offre di esperienze vissute ma filtrate attraverso il ricordo. E Libro della memoria, ma rimasto solo allo stato di progetto, come risulta da alcune tracce nelle carte autografe di Castelvecchio, costituita in gran parte di sonetti, doveva rappresentare una parte essenziale della sua produzione; ma non venne mai pubblicato e andò a frantumarsi nella seconda edizione di Myricae[9]

Per prassi consolidata si sa che c’è un tempo cronologico e un tempo della memoria che si interiorizza, allontana e avvicina; spesso prende lo spunto da una visione presente, da una sensazione visiva che si assimila e che per associazione rimanda ad altro, secondo una delle caratteristiche tipiche del decadentismo. Una tecnica che il Pascoli aveva sperimentato con Campane a sera del 1890 (in Myricae), dove le campane del vespro richiamano al poeta altre campane, quelle di Urbino, e più tardi con L’Aquilone del 1900 (in Primi Poemetti) in cui una sensazione olfattiva per semplice associazione lo riporta ai ricordi di Urbino[10].

È interessante notare come questo tema del ricordo, attraverso una tecnica di assimilazione sensitiva, di analogie, fosse accompagnato da un percorso teorico di elaborazione poetica che, prima della prosa Il Fanciullino, trovava una sua anticipazione, sia pure frammentaria, nell’abbozzo di una progettata raccolta di liriche, mai realizzata, Foglie gialle, abbozzo che si trova in alcuni quaderni conservati da Severino Ferrari[11]. Quel testo, che va sotto il nome di L’enfant du siècle, aveva forse alcune reminiscenze di Rimbaud o di Baudelaire, di poeta maudit, o meglio del Victor Hugo di Feuilles d’automne e di Chants du crépuscule[12], ma per un verso è interessante notare quanto il poeta si avvicini a quella corrente simbolista e a quel senso di mistero che animavano le cose, di cui il Pascoli doveva aver tratto le prime esperienze letterarie anche attraverso l’adattamento delle prime quattro strofe del Corvo di E. A. Poe, conservate sempre nei quaderni col titolo di Tenebre[13].

La memoria, sublimata attraverso la voce dei morti, riportava il poeta ai luoghi dell’infanzia, in una regressione su cui tanto si è scritto, a volte con estremo pudore, come nei due brevi saggi di G. Debenedetti in occasione del centenario del poeta, o nell’interpretazione spitzeriana data da Pasolini, che tanto amava i Primi Poemetti, a volte in maniera più coraggiosa nell’interpretazione fortemente psicanalitica, ma rispettosa, che ne diede P. Citati[14]. Emblematica è la lirica La mia sera ( in Canti di Castelvecchio) in cui il tema del nido-culla e della madre ritornano come esempio di protezione e di salvezza di fronte al nulla e alla morte.

Su questo tema della memoria, a volte onirico e trasfigurato attraverso l’uso sapiente e innovativo della parola, il poeta ripercorre il suo viaggio, ma non è un viaggio a ritroso dove nulla è stato scritto e dove la memoria dissacra la conoscenza di esperienze già vissute, come il nuovo Odisseo de L’ultimo viaggio; è un viaggio, come scrisse lo stesso Pascoli, reale, perché quelle poesie «contengono cose non solo vere ma esatte (e il lettore comprenderà anche qui: certe cose non s’inventano, anche a volere)»[15]. Ma sono un viaggio e una verità solo apparenti: il poeta nasconde, sotto la costante di un progressivo canto funebre, un’altra storia che il Pascoli stesso preferiva dimenticare. Con profonda intuizione è il Garboli a darci l’immagine di questo itinerario pascoliano che dai primi madrigali, scritti per Severino Ferrari – La Passeggiata – muove lentamente verso quel canto funebre che fece la sua prima comparsa già con le prime Myricae, per poi aumentare con la seconda edizione[16] e definitivamente con la terza edizione: «il culto dei morti, nella poesia pascoliana, non nasce dal ‘contraccolpo sentimentale’ di una tragedia passata e lontana, ma dal contraccolpo di una tragedia presente»[17]. E sarebbe inutile questa premessa, se il paese di Sogliano non avesse, in questo contesto, un ruolo fondamentale, come paese in cui i sogni e l’avvenire ancora avevano un senso ed occupavano un posto fondamentale.

Quando si tenta di tracciare i confini di una geografia pascoliana, solitamente si è attratti da due poli lontani, ma sostanzialmente affini: la Romagna e la Garfagnana, San Mauro e Barga. Queste due realtà, così geograficamente lontane, in realtà si assomigliano: si respira lo stesso paesaggio, le stesse arie capestri di casa nostra, pur nella consapevolezza di uno sradicamento forzato dalle proprie radici, come dimostra già il lungo componimento, pubblicato nella «Cronaca Bizantina», Romagna, «che è dell’80 o giù di lì», come egli stesso affermava nelle nota bibliografica. E se Castelvecchio ha certamente un punto in più a suo favore rispetto a San Mauro, «perché là ci sono le carte», come disse Garboli nel Convegno a La Torre in occasione del Centenario della pubblicazione dei Canti di Castelvecchio (1903-2003)[18], a San Mauro ci sono i suoi morti, e non è casuale che in appendice ai Canti – l’opera forse più Garfagnana, insieme ai Poemetti, per certe inflessioni di lucchese-garfagnino e barghgiano – aggiunga il ciclo del Ritorno a San Mauro. Ed è, per chi viaggia con la memoria, nel passaggio da luogo a luogo e da tempo a tempo, un sentirsi eternamente in viaggio, come il folle di cui parla Michel Faucault[19].

Io, la mia patria or è dove si vive

è un verso diventato famoso di Romagna, ed è un concetto questo di sradicamento fisico dai propri luoghi, ma di forte legame affettivo, come se la perdita dei propri cari fosse anche perdita dei propri luoghi, così la figura della madre, come tutte le figure dei propri cari, sono fisse e immobili nei luoghi e accanto agli oggetti simbolicamente più vicini al suo stato di orfano e di perdita, così Casa mia, così l’altro «io» fanciullo, mai cresciuto o non ancora cresciuto in quella forma di sdoppiamento, di alter ego, come in Giovannino.

Barga e San Mauro sono i due poli fondamentali attorno a cui si svolge la poesia pascoliana, ma poi c’è Urbino e soprattutto c’è Sogliano, elementi essenziali di una geografia pascoliana assai più complessa e sfumata, che si affaccia per scorci, mai decisamente nominata (uno dei pochi riferimenti si trova in Romagna «l’azzurra vision di San Marino», ma soprattutto in uno dei componimenti che la critica ha ripetutamente analizzato, L’asino, in cui Pascoli ripete, uno dopo l’altro, i luoghi della sua Romagna: Sogliano, San Mauro, La Marecchia, Bellaria, Bagnolo, Montetiffi, Montebello, Luso, Savignano, e poi ancora San Mauro, La Torre, Bellaria). Questo componimento ripercorre tutta la toponomastica più cara al poeta, ma soprattutto è Sogliano al centro di questo viaggio, nato dalla reminiscenza di un ricordo, su cui il poeta tornerà più volte tra il 1886 e il 1897 in una elaborazione del componimento più che decennale, come se il poeta volesse esplicitare nell’immobilità dell’asino e nel viaggio solo sognato del pesciaiuolo addormentato sulle ceste vuote il suo viaggio. Il poeta stava progettando, a partire dal 1896 (“Aspettando i «Canti di Castelvecchio» e i «Canti di San Mauro»”[20]) un ciclo di componimenti che, nel recupero della memoria e nel ritorno a San Mauro, potesse svelare, sul modello di altri viaggi mitici come quello di Ulisse o di Enea, il senso dell’esistenza, la risposta mitica dell’essere al senso della vita.

A proposito di quell’immagine Maria Pascoli, in quel libro di memorie ormai introvabile, scrive:

Andammo a fare un viaggio dalla zia Rita… E qualcosa di questo viaggio ci guadagnò il repertorio delle ispirazioni poetiche di Giovannino. Nello scendere in vettura da Sogliano, a un tratto, il vetturino, piegando molto sul ciglio della strada, disse ‘Bonn viazz, Sciomma’. Guardammo. Un carretto attaccato a un asino era fermo in mezzo alla via. Sopra, addormentato sulle ceste vuote del pesce, c’era Sciomma, il pesciaiuolo che soleva portare il pesce al paese, che allora tornava alla sua lontana casa avendo già venduta la merce. L’asino stava lì fermo sui quattro piedi, movendo solo a quando a quando le orecchie. Questa visione creò il poemetto L’asino, che il martoriato poeta non poté far subito, sebbene lo cominciasse. Vide la luce parecchi anni dopo[21].

Si tralasciano alcuni commenti sui primi abbozzi e manoscritti del poemetto, su cui già tanto è stato scritto[22]. Ci interessa solo osservare come i primi manoscritti offrono immagini ben più articolate e analitiche (si parla infatti anche di “Tribolla” e “San Martino”, della “torre del mio Sogliano”) ed è interessante notare come nelle successive elaborazioni il poemetto si smaterializzi e gradualmente acquisti un alone tra il mitico e l’immaginario, privo di contorni definiti, come se quel viaggio diventasse il simbolo del viaggio di ciascuno verso la ricerca di una identità indefinita e impossibile da trovare. Nota Marco A. Bazzocchi: « Pascoli rende ambiguo ogni particolare di quel bozzetto, mescola se stesso al pescatore e all’asino. Alla fine sono tre personaggi che esprimono il senso tragico di perdita che l’uomo e le creature viventi sentono nell’immensità della natura e della storia. Il gruppo dell’asino e del carro, colto con una prospettiva eccezionale sullo sfondo del sole che tramonta, diventa emblema della fissità che inchioda ognuno al proprio destino»[23].

                            E quando pago
fui della vista, mi rivolsi e, nero
come uno scoglio per un roseo lago,

nero sopra un trascolar leggiero
di tutto il cielo, come un’ombra netta,
nero e fermo lassù come un mistero,

l’asino vidi con la sua carretta[24].

È questa una visione che d’improvviso, dopo le osservazioni iniziali di un racconto che si snoda sulla strada per Sogliano in corriera una sera d’ottobre (il poeta guarda indietro San Mauro, la Marecchia argentina che si snoda «tra chiare brecce di ville borghi città») d’improvviso esplode e fa perdere i contorni definiti e reali per farsi emblema di qualcosa di trascendente, universale e misterioso, in un tramonto che trascolora, con quel colore, nero, ripetuto tre volte, come in certi quadri impressionistici o metafisici, per concretizzarsi solo nell’ultimo verso della prima sezione: «l’asino vidi con la sua carretta». In questo quadro il poeta sembra identificarsi ed il passaggio dal reale al sogno conserva in nuce quello che sarà uno dei miti del poeta, quello dell’Ulisse dell’Ultimo viaggio, o del Il sonno di Odisseo, o del canto di Calypso in cui pare incarnarsi questa donna che aspetta il ritorno dell’uomo e anticipa, per tanti aspetti il tema di Alexandros, il poema conviviale pubblicato in prima edizione nel 1895.

Ma che cosa rappresentava Sogliano per il Pascoli, quali elementi lo legavano a quel paese, al di fuori dei legami personali con la zia Rita Allocatelli Vincenzi, con il cuginetto David, con il monastero dove le due sorelle furono educande dal 1875 al 1882? Negli anni trenta, l’allora segretario comunale Pio Macrelli raccolse in un libretto dal titolo Giovanni Pascoli nei ricordi di Sogliano[25], ristampato in occasione del primo centenario della morte di Placido David (1894 – 1994), una serie di testimonianze e di documenti che fanno intravedere - solo intravedere perché il progetto non ebbe esecuzione - come ci fosse abbozzato, un “ciclo di Sogliano”, cioè una serie di componimenti che, per far parte di un “ciclo”, dovevano rientrare in un organismo più complesso, in una specie di racconto in versi, ciascuno collegato con il seguente, come lo sarà per alcuni sezioni di Myricae e poi con i Canti di Castelvecchio, con l’unica sezione compiuta che fu Il ritorno a San Mauro. Fanno parte di questo ciclo, semplicemente abbozzato, oltre a L’asino, Digitale purpurea, Suor Virginia, e in Myricae Le monache di Sogliano.

Come per L’asino, anche per Digitale purpurea (Primi Poemetti) apparsa sul «Marzocco» il 20 marzo del 1898, si descrive un altro viaggio di vita e di morte, svolta sotto forma di dialogo. Leggiamo dal libro di Maria Pascoli:

Un giorno, dopo la merenda e la ricreazione all’aperto, noi educande con la nostra Madre Maestra c’incamminammo per un sentiero che aveva ai due lati due giardini, uno cinto dal bussolo e l’altro senza veruna siepe. In questo scorgemmo una pianta che non avevamo mai veduta, non essendo mai solite a passare da quel luogo. Era una pianta dal lungo stelo rivestito di foglie, con in cima una bella spiga di fiori rossi a campanelle, punteggiate di macchioline di color rosso cupo: la digitale purpurea. La curiosità di poterla guardare bene da vicino e di sentire se odorava ci spinse a entrare nel giardino; ma appena ci fummo fermate presso la pianta, la Madre Maestra ci intimò di allontanarci subito di lì, di non appressarci a quel fiore che emanava un profumo venefico e così penetrante che faceva morire. Indietreggiammo impaurite e ci portammo leste leste sul nostro cammino. Io rimasi per un pezzo con la paura di quel fiore velenoso, e quando si doveva passare nelle sue vicinanze me ne stavo più lontana che fosse possibile senza nemmeno guardarlo. Questo puerile e insignificante mio racconto ispirò a Giovannino il poemetto. Il dialogo tra le due ex compagne di convento, Maria e Rachele (in cui c’è la sostanza del lavoro), è di sua immaginazione. In Maria ha voluto raffigurare me, ma Rachele l’ha creta lui[26].

Racconto che certamente Pascoli doveva aver ascoltato dalle sorelle. Come per L’asino, da questo situazione reale, il poeta costruisce in un racconto in versi un’altra visione. Strutturato nel rapporto tra passato e presente, di cui Rachele è l’interprete, il componimento ci dà una visione dell’ignoto, una interpretazione del senso cosmico che pervade quell’esperienza volta a trasgredire il divieto di accostarsi a quel fiore «fior di… morte». Maria «esile e bionda», colta in una sua ingenua purezza, non sarebbe mai passata vicino a quel fiore,

ché si diceva: il fiore ha come un miele
che inebria l’aria; un suo vapor che bagna
l’anima di un oblio dolce e crudele.

Ma Rachele «esile e bruna», in un accostamento tra l’esperienza passata e il presente, distinti e pur collegati nella stessa esperienza, riporta alla luce quella «grave sera», quell’inoltrarsi «leggiera, | cauta, su per i molli terrapieni | erbosi», quella voce appena udita come una tentazione a trasgredire e ad esplorare quel divieto, fino ai versi finali:

… E fu molta la dolcezza! molta!
tanta , che, vedi… (l’altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta

con un suo lungo brivido…) si muore!

C’è un orto chiuso, c’è il ricordo dolce di quell’esperienza conventuale, c’è un monastero, «pieno di litanie, pieno d’incenso», ci sono le suore fanciulle nell’orto «bianco qua e là di loro», ma c’è quel fiore:

In disparte da loro agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,

l’alito ignoto spande di sua vita.

Viene naturale pensare ad una interpretazione simbolica del testo, come ad una proiezione conturbata dell’amore, o della sessualità del poeta, su cui ha insistito una certa critica psicologistica, nel binomio amore/morte. Una visione questa che non è l’unica nel poeta, un tema di derivazione romantica o leopardiana e, se si vuole, dettato dall’esperienza d’amore vietato per il poeta, o dalla fuga matrimoniale di Ida[27]. Giovanni Getto a proposito scrive: «Quale sarà dunque l’esperienza ormai scontata e già preannunciata dall’avventura di quella sera lontana? Sarà forse l’amore, un amore che conduce alla morte (ma ora, invero, senza nessuna sconvenienza: allontanato, come risulta, da quell’età e da quell’ambiente). Sarà forse qualcos’altro: poniamo, una malattia mortale – non si dimentichino quegli occhi ‘ch’ardono’ – una malattia voluttuosamente accolta e covata e lasciata, senza cura, al suo corso naturale: morbosamente goduta come mezzo di distruzione e avvio al mistero della morte»[28].

Più puro è l’amore gioioso, anche se non privo di riferimenti simbolici, cantato in Il gelsomino notturno, pubblicato tre anni dopo. In Digitale purpurea «si rivela l’originale capacità narrativa di Pascoli»[29], come lo sarà nell’altro componimento che si svolge nell’interiorità di un percorso tutto teso a una vicenda di immagini, di suoni, di fantasie in cui l’immaginario e il reale si intersecano, si integrano, e la morte «che trapassa da presentimento a coscienza, da presagio a presenza»[30]: Suor Virginia, pubblicato su «La Riviera ligure» nel gennaio del 2003.

Anche qui l’occasione ci viene offerta dai ricordi di Maria Pascoli:

La finestra che era nel nostro dormitorio diventava un incubo per me nelle sere d’estate, perché la Madre Maestra, nell’accompagnarci a letto, la lasciava aperta per far entrare il fresco; l’avrebbe chiusa la suora conversa quando avesse sbrigato le sue faccende in cucina e venisse a dormire anch’essa. Ma a volte tardava più del solito, e appunto una di quelle sere in cui essa era in ritardo, io fui presa in modo invincibile dalla paura. Mi sembrava di sentire dei passi giù a basso sotto la finestra, del calpestio di foglie, degli svolazzi d’uccelli. Qualche ladro doveva esserci di certo, pensavo terrorizzata, che si preparava a venir su. Tremavo, sudavo e tenevo gli occhi sbarrati verso la finestra. Poi non potendo più resistere (l’Ida e le tre compagne dormivano e io non volevo che si svegliassero per non comunicare anche a loro la mia paura) allungai un braccio alla parete che avevo dietro il letto, e picchiai con le dita due o tre colpetti, sperando che qualcuna delle suore che avevano le stanze lungo il corridoio potesse sentire e venisse. Infatti una venne; ma era suor Virginia che si diceva fosse piuttosto severa, e io, temendo una sgridata, non mi azzardai di dirle nulla e feci finta di dormire come le altre. Essa col lume in mano ci passò tutte in rivista, nessuna si mosse. Dovette certamente pensare che i picchi non venissero di lì, e se ne tornò via. Dopo qualche minuto la mia paura si fece anche più insopportabile e di nuovo ripetei i colpetti; e di nuovo venne suor Virginia e trovò tutte le ragazze ancora tranquille immerse nel sonno. Nemmeno quella volta io ebbi il coraggio di dirle che chiudesse la finestra e rimasi con la mia paura che aumentò sempre più, sì che dopo un breve tempo ribussai di nuovo e più forte; ma suor Virginia non venne più. Quasi subito arrivò la nostra suora sorvegliante e io le dissi che chiudesse la finestra perché mi faceva paura così aperta e non potevo dormire. Essa la chiuse, come del resto la chiudeva le altre sere, e finì così il mio orgasmo e presi sonno. Il mattino seguente, dopo la messa, mentre le suore e le educande erano in refettorio a prendere il caffè, suor Virginia raccontò ciò che le era accaduto la sera avanti: d’aver sentito a breve distanza di tempo picchiare al muro tre volte e d’essere andata, le prime due volte, alzandosi dal letto, a vedere se fossero state le educande, ma evidentemente non erano state loro a bussare perché dormivano tutte; e perciò alla terza picchiata non andò più pensando che fosse stato San Pasquale che le annunziasse la sua prossima morte, perché, il santo, i suoi doveri li avverte tre giorno prima perché si preparino. “Che dice?” disse la nostra sorvegliante “non dormivano davvero tutte le ragazze! Una, la Mariuccia, quando arrivai io, era sveglia e mi disse quasi piangendo che chiudessi la finestra perché aveva paura e non poteva dormire”. “Ah sì?” fece suor Virginia; “brava! Lo faccia un’altra volta, e io verrò là con un bastone.

Da questo racconto il poeta costruisce una storia d’amore e di morte, un viaggio nell’inconscio fatto di sensazioni e di suoni, di rumori appena ascoltati, sussurrati; è un componimento in cui il suono prende il sopravvento, con quel «Tum tum… tum tum…» che dà l’incipit al componimento.

Narrazione, a nostro modesto parere, gonfia di pathos con alcune reminiscenze dantesche (coreografia delle undicimila vergini) e con riferimenti decorativi dell’area tardopreraffaelita. Garboli parla, a proposito di queste storie di monache, di «tormentone» che non è giusto trovi una fine e afferma che «leggere Suor Virginia in dittico con Digitale purpurea sarebbe ingiusto (nei confronti della Digitale[31]. In effetti su un altro piano ci pare si muova Digitale purpurea. Non possiamo tuttavia far passare inosservate alcune immagini che, per la loro ricerca linguistica, ci paiono interessanti: il «sordo sgnaulio» di un gatto, lo «sfrascare» per il cipresso degli animali, lucciole rare che brillano «come spiando», l’urlo del cane alla catena e «il canto più lontano d’un rauco vagabondo», come pure le immagini degli occhi chiusi «nel loro guscio», o della bimba che s’era rivolta «sul cuore; all’altra; a ragionarci in sogno».

Ci troviamo con questi tre componimenti (L’asino, Digitale purpurea, Suor Virginia) di fronte a un tema fondamentale nella poesia del Pascoli: il tema del viaggio, di cui il Pascoli non era che il «pellegrino», un viaggio verso l’infinito nebuloso e vago come in L’asino, che per tanti aspetti anticipa l’altro viaggio di Alexandros, un viaggio verso la morte come in Digitale purpurea e Suor Virginia. I tre poemetti nascono da un ricordo, da esperienze di vita vissuta, ma il ricordo si fa sogno e trasfigura l’immagine in un alone mitico di un viaggio senza ritorno. Sono componimenti di morte, di una morte desiderata o sognata, una specie di canto rovesciato che alle note carducciane o d’annunziane contrappone un canto di morte senza ritorno.
 

In quegli anni si era consumata progressivamente la distruzione del nido, prima ancora del matrimonio di Ida, la distruzione di una vita felice che era durata fino al trasloco da Massa a Livorno; e a Livorno, fra il 1887 e il 1892, si doveva consumare la crisi, e con la crisi del nido si manifestava progressivamente il culto dei morti; ma quel culto dei morti era solo un’apparenza dietro la quale si nascondeva un’altra verità: «il mito funebre nasce per perpetuare il nido»[32], ed è questa una nuova lettura che ci dà Garboli. Significativa è la lettera a Severino Ferrari datata 12 dicembre 1892:

la mia vita […] è turbata da molte ragioni e specialmente dalla considerazione dell’inutilità e vacuità e vanità della vita mia e delle mie sorelle. Giunti a questo punto, ci siamo accorti tutti e tre, credo, che abbiamo sbagliato nella somma la vita; e non si rinasce.

E in versi il poeta scriveva: «… La vita | che tu mi desti – o madre, tu! – non l’amo».

Sono versi di Colloquio, componimento inserito in Myricae nell’edizione del 1894, preceduto da Ultimo sogno e seguito da In cammino. Ma dall’edizione del 1897, Ultimo sogno sarà posta alla fine, passando dal terzultimo all’ultimo posto, quasi una epigrafe in questo romanzo poetico rappresentato da Myricae. Scritto durante il periodo della distruzione del nido, in Ultimo sogno il Pascoli si descrive in punto di morte, e la morte non è se non guarigione dalla vita nel silenzio improvviso che chiude il componimento. In questo itinerario trovano voce, oltre alla madre, le due sorelle, Ida e Maria, Maria e Rachele: così Digitale purpurea poteva rappresentare la morte colta nell’infrazione di una legge di castità e di innocenza, come aveva fatto Ida; e prima ancora in Il vischio (pubblicata su «La Vita Italiana» nel 1897, poi in Primi Poemetti), la distruzione del nido rappresentava la distruzione dell’Eden e dell’innocenza, dell’età sognata e desiderata («Non li ricordi più, dunque, i mattini | meravigliosi?»), il tempo felice, ma poi «Una nube, una pioggia… a poco a poco | tornò l’inverno», mentre «Un dì (donde mai sorto?) | brillava il sole al suon delle campane: | tutto era verde, verde era quell’orto». Ma poi venne quella pianta che radicò sull’altra e le tolse la vita «Sei tu, checché gemmasti allora, | ch’ora distilli glutine di morte».

Tempo felice, dunque, un giorno; tempo di morte poi. Tempo che si snoda attorno alle tre date che segnano l’itinerario non solo biografico del poeta: 1882, 1889, 1895, in cui Sogliano appare come il porto, l’Eden in cui si possa ancora rifugiare l’animo del poeta.

Come Digitale purpurea, storia di monache è anche il componimento (ma ben diverso il tema) Le monache di Sogliano, pubblicata nella seconda edizione di Myricae (1892) dopo essere rimasta per parecchi anni nel cassetto. Entrerà a far parte della sezione Ricordi di Myricae, costituita tutta da sonetti, ad eccezione di Romagna e, appunto di Le monache di Sogliano, in quartine. Il titolo originario era Ora pro nobis e su una copia fatta da Maria a Massa possiamo leggere anche il luogo e la data della sua composizione “Sogliano 17 agosto 1884”. Il poeta si trova a Sogliano in vacanza in visita alle sorelle. Qui capiterà spesso ed è un susseguirsi in quegli anni di un andirivieni per e da Sogliano. C’era stato la prima volta, come si legge nei Ricordi di Maria, a tre anni e mezzo; ci ritorna subito dopo la laurea, nel luglio del 1882, data storica perché in occasione di quella visita durata dieci giorni scriverà alcuni versi, intitolate poi da Maria Il pellegrino e raccolti insieme ad altri versi (sono le cosiddette «Poesie famigliari») nell’edizione zanichelliana del 1912 con il titolo di Poesie varie, edizione accresciuta nell’edizione del 1914.

Sogliano sarà ancora al centro di un itinerario tutto personale e drammatico in quel terribile 1895, quando Ida andrà sposa a Salvatore Berti. Ed era stato ancora Sogliano ad entrare prepotentemente nella sua storia in quell’altro anno, ugualmente gravoso di ansie, che fu il 1889, quando Ida aveva finito con l’accettare le visite sempre più frequenti in via Micali, a Livorno, di quel ragazzotto romagnolo, Fortunato Vitali, come per ripagarsi di quell’idillio sorto inaspettatamente tra il poeta e Lia Bianchi, tenuto nascosto alle sorelle, ma svelato a loro dalla figlia del Carducci. Quel rapporto, che nella visione del Pascoli finiva col distruggere quel nido a tre, gettò il poeta in una fase emotiva ai limiti dello smarrimento, come ci racconta Maria e come possiamo intuire da quel frammento di tre coppie di terzine trascritto da Maria e datato in calce «1889». Ci racconta Maria che quel frammento si riferisce al soggiorno del fratello a Sogliano nel luglio del 1882, quando i tre si rividero per la prima volta dopo nove anni. Ida e Maria erano uscite dal convento e abitavano presso la zia Rita. L’arrivo venne a loro annunciato quando si trovavano in chiesa a Messa. Furono giorni di gioia e di lunghe passeggiate «per la strada nuova che si estende ai piedi del colle su cui si adagia comodamente tutto il simpatico paese di Sogliano» (probabilmente quella via era Via Verziero, la circonvallazione – ora via Egisto Ricci -; ma non esisteva già più la rocca malatestiana abbattuta nel 1865 con il monte che venne spianato per far posto alla piazza). Furono momenti felici, di intimità famigliare, di spensieratezza. Il poeta lo ricorda come tempo felice e contrapposto a quell’altro tempo (1889) di drammatico avvenire per la messa in pericolo dell’unità del nido. Il Pascoli si mette a nudo, nella sua verità, fino ad annullarsi, a scomparire:

Eppur più non sapevo io di me nulla

in un fenomeno di autodistruzione e di annichilimento. Ma non è, o almeno non sembra, se veritiera la testimonianza di Maria di versi scritti a distanza (1889), un componimento del ricordo nel rapporto tra presente e passato, come lo sarà in Campane a sera, o in L’aquilone, o in Digitale purpurea. Il passato viene qui attualizzato e il poeta entra nel «vissuto» di Sogliano e lo fissa come in una pellicola senza la mediazione del ricordo.

Questa notte, vegliando, ho riveduto,
per via, Sogliano desto dall’aurora
che gl’indorava il campanile arguto.

È il 1889, un altro momento critico nella storia di ricostruzione e conservazione del nido e Sogliano, l’altro paese, l’Eden, lo accompagna ancora una volta nei momenti critici, se questo inedito, conservato e recuperato da Maria, riporta il poeta ai momenti belli vissuti a Sogliano nel 1882, quando le sorelle erano quasi ventenni, il poeta laureato da poco, e la vita sembrava spalancarsi con tutti i suoi sogni; e se ancora, a distanza di qualche anno, datandolo Massa, agosto 1886, poteva scrivere i versi: «O Sogliano, il pensiero a te rivola, | dove fiorì la nostra fanciullezza» (XXVIII Agosto).

E sarà ancora Sogliano il luogo della mediazione e del tentativo di rinascita del poeta in quell’altro anno ancora più tragico – il 1895 - per il fidanzamento e il matrimonio di Ida. Quel matrimonio ha una sofferta preparazione. È il 1894, lo stesso anno della terza edizione di Myricae, lo stesso anno della morte di Placido David[33], quando, verso la fine di settembre Ida parte per Sogliano, dove resterà per più di un mese. Tornerà dopo i Morti, fidanzata. Quel fidanzamento getterà il poeta in una crisi depressiva e di pianto, secondo i ricordi di Maria. A Sogliano Ida tornerà nella primavera del 1895, attirata da «un suo miraggio lassù che sembrava volesse seguire»[34]. Nella lettera a Ida, datata 30 aprile 1895, il poeta rinovera ancora quel tempo felice, quel 1882 a Sogliano, quando aveva ventotto anni:

la mia età di Sogliano, la mia età presso a poco, quando con mille stenti preparava la mia casetta, i miei lettini per le mie adorate.

E per Sogliano parte il 5 maggio del 1895 per definire definitivamente quel fidanzamento di Ida con Salvatore Berti. Seguono giorni e lettere strozzate d’amore e di odio, di ribellione e di fastidio, e ancora ritorna il ricordo nostalgico per quei giorni trascorsi a Sogliano: «trovar voi due,, avervi al petto avvinghiate tutte e due, come ai tempi di Sogliano» (a Ida e Maria, Roma, 13 giugno 1895).

Qualche giorno dopo, il 19 giugno, scriverà a Maria:

No, mia dolce Mariù, non sono sereno. Questo è l’anno terribile, dell’anno terribile questo è il mese più terribile. Non sono sereno: sono disperato.

Ida si sposerà il 30 settembre, a Livorno, in bianco e fiori d’arancio, accompagnata all’altare dal fratello Raffaele. Il poeta è assente, né partecipa al rinfresco, resta nel suo studio in attesa che Ida passi a salutarlo. Questo è lo strappo che segna definitivamente, anche fisicamente, il suo rapporto con i paesi d’origine, e dal 1º ottobre decorre l’affitto di quella villetta a tre piani – oggi Casa Pascoli – a Castelvecchio, località «ai Caproni», a sei chilometri da Barga[35].

È ancora Sogliano l’anno successivo, il 1896, al centro di quella pausa sentimentale e ultimo tentativo per il poeta di costruirsi una vita propria, il fidanzamento con la cugina Imelde, figlia della zia Luigia e del defunto zio Morri (morto nel 1875, già segretario comunale di Sogliano e poi di Rimini), e tutto questo all’insaputa di Maria, spedita lontano, a Sogliano, ancora a Sogliano, come a relegarla in un luogo da dove le fosse impossibile uscire e da dove non potesse sospettare di quel progettato fidanzamento, nonostante la promessa di una prossima visita.

A Sogliano cominciai presto a sentire delle voci che mi sconvolsero tutta […] Tutti i conoscenti che mi vedevano si congratulavano con me, mentre io confusa e stordita non trovavo altro da dire se non che non sapevo niente, che doveva essere una ciarla […] avevo perduto il sonno e l’appetito; ero diventata in pochi giorni un’ombra. Finalmente egli il 13 maggio mi scrisse brevemente che veniva[36].

È il 15 maggio quando fratello e sorella si incontrano alla stazione di Savignano:

il programma di Giovannino era di ripartire nello stesso giorno per Jesi, ma io lo pregai tanto che accondiscese di recarsi anche lui a Sogliano e di trattenersi fino all’indomani.

E qui si ha il primo chiarimento, il tentativo di conoscere più a fondo quel rapporto del fratello con la cugina, ma non fu sufficiente tanto che – è il 5 giugno – a Sogliano, non sentendosi Maria affatto tranquilla, convince il cugino Emilio David a seguirla, prende la diligenza alle tre di notte per Savignano, da dove in treno raggiungerà Bologna e poco dopo alle otto è nella nuova abitazione del fratello che è ancora a letto. Qualche giorno dopo li raggiungerà anche Ida, che è incinta di sette mesi e che non vede il fratello dal giorno delle nozze. Il ciclo si è concluso, Ida esce di scena mentre Maria «prende finalmente possesso del fratello ma cambiando di ruolo, declassandosi a serva e cane fedele (Gulì) e subendo, per opposizione complementare, un processo di trasumanazione che la beatificherà come Vergine Madre dotata di liturgia propria (‘Maria Santa’, il ciclo dell’Avemaria) e la consacrerà come sacerdotessa del culto funebre (Sibylla, la ‘firma’ di Maria)»[37].

Dunque Sogliano è al centro di questo itinerario, non solo biografico del poeta, («Sogliano è un paese fatale», secondo una espressione molto incisiva di Cesare Garboli), ma è al centro di quell’itinerario poetico che da Sogliano aveva preso l’avvio in quel lontano 1882; e le espressioni più volte ripetute dal poeta di una vita che si prometteva felice e serena non si trovano sempre per altri suoi luoghi, da cui lo strappo feroce verso la Garfagnana, non si trovano nemmeno per San Mauro, che, pur restando al centro di un suo ciclo poetico (Ritorno a San Mauro), in qualche caso è oggetto di espressioni non sempre di gratitudine da parte della sorella Mariù[38].

«Qui ci vogliono bene, e qua resteremo» dice Maria scrivendo alla sorella Ida il 12 luglio 1898 a proposito dell’accoglienza ricevuta a Castelveccio. L’anno precedente, il 20 settembre, il Comune di Barga aveva conferito al poeta la cittadinanza onoraria, già deliberata in maggio[39]. E Sogliano, l’altro paese, il paese «fatale», nella seduta Consigliare del giorno 8 marzo 1906, delibera la Cittadinanza Onoraria a Giovanni Pascoli, con voto unanime, come unanime fu l’approvazione della proposta del Consigliere Raggi Geom. Giuseppe di intitolare «al nome di Giovanni Pascoli una via del Paese e precisamente la Via Monache dove è il Convento in cui furono educate le Sue Sorelle».

Il 1906 è dunque l’anno del conferimento della Cittadinanza Onoraria a Giovanni Pascoli, cittadinanza che era stata richiesta a gran voce dai presenti il 21 febbraio, prima della partenza del poeta, su suggerimento dell’Assessore Sabattini Claudio, cittadinanza che il Sindaco Zanuccoli aveva promesso nel suo discorso pronunciato nel teatro comunale in occasione della visita del poeta a Sogliano il 20 febbraio dello stesso anno. E si conoscono le numerose lettere, rapporti di stima, biglietti augurali, l’apprensione per la malattia del poeta, fino al manifesto funebre della Giunta Municipale, il cui incipit suona in maniera altisonante, secondo lo stile dell’epoca:

C I T T A D I N I !

Venit hora! La grande, la fatale ora è giunta:
Giovanni Pascoli
non è più.

Nello stesso anno del conferimento della cittadinanza onoraria – 1906 - il poeta faceva pervenire al Comune di Sogliano il volume di Myricae, con questa dedica:

A Sogliano al Rubicone
donde, bambino, ebbi le prime rosee aspirazioni
della dolce vita così amara!,
dono con animo grato,
con animo ancora pieno di quelle fanciullezze
lontane,
24 giugno 1906, Bologna,
per mano del Dott. Arturo Zanuccoli sindaco
del piccolo grandemente amato paese di Romagna.

Possiamo ben capire allora come Sogliano sia al centro di un itinerario poetico e dovesse, se non fosse stata la stessa indole del poeta a confondere le carte e a mescolarne la storia, far parte di un ciclo, avendone tutti i presupposti: rappresenta infatti il punto di partenza e di arrivo, è la meta di un viaggio come quello dantesco, che il poeta, come un nuovo Ulisse, insegue nel tentativo di ricostruzione del nido e degli affetti. Quel viaggio si consuma con quei pochi versi (Questa notte, vegliando, ho riveduto) non a caso scritti in terzine, e mai conclusi (ma nel frattempo si era anche conclusa la storia di Ida con quel ragazzotto romagnolo di nome Fortunato Vitali) che Maria aveva raccolto e conservato, datandolo «1889». È il «pellegrino»Pascoli in un viaggio a ritroso nella memoria, forse il primo viaggio, prima ancora di quello di Schiuma o di Ulisse, un ritorno che, nel significato della guazza che cade sui gerani – nella tradizione popolare simbolo di purificazione la guazza – e nelle «lagrime ardenti, larghe, mute, spesse» che gli cadono lungo le guance, rappresenta nel contrasto tra la serenità contemplativa di Sogliano e l’angosciosa testimonianza di una perdita di affetti, il punto focale di una vita già spezzata. Tutto si concretizza in un sogno che fa da proiezione di uno stato d’animo («poi mi son ritrovato in una stanza») dove il poeta rappresenta la perdita e l’annullamento di se stesso (…più non sapevo io di me nulla»)[40].

Questo tema del «viaggio», in cui il poeta si sente nuovo «pellegrino», è la ricerca, ancora prima del viaggio di Odisseo, di una identità o di una verità nascosta che il lettore può solo intravedere. Ancora una volta è Sogliano al centro di questo itinerario, Sogliano come simbolo di serenità in cui Ida e Maria spesso si trovano e si rifugiano; partita definitivamente Ida, resta Maria, resta il poeta e resta soprattutto Sogliano, l’altro paese, il mito.

Come nei libri delle tue preghiere,
libri che tutto il tuo segreto sanno,
i fior che tu ponesti, or è qualch’anno,
colti a Sogliano nelle rosee sere[41]

Maria, Giovanni, per una vita a due, quando il «nido», che sarà uno dei simboli ricorrenti accanto a «culla» - sono i simboli dell’intimità, della madre, della notte, del ritorno, delle radici[42] - si frantumerà e risorgerà dalle sue ceneri, ma non sarà più lo stesso. A Maria la dedica del volume Odi e Inni:

Alla mia adorata sorella d’amore
e dolore Mariù!
19 marzo 1906 – Giovanni!

A cui la sorella, come reciproco messaggio, rispondeva:

Va a Sogliano, a cui sono
tanto riconoscente, a cui il mio cuore
sempre ritorna, Maria Pascoli
24 giugno 1906

Ecco allora il Pascoli, che a Sogliano si era fermato nel febbraio 1906 e che in marzo dello stesso anno aveva ricevuto la cittadinanza onoraria, «l’ultimo figlio di Virgilio«, secondo un’espressione di D’Annunzio ripresa da Manara Valgimigli, farsi interprete sottile di un viaggio della memoria. Incominciamo dalle origini, da quel 1882 più volte ricordato dal poeta come l’anno della serenità e della speranza e che Maria ricorda con accorate parole nei suoi ricordi. Quell’anno, che i versi inediti Questa notte, vegliando, ho riveduto riportano alla luce con senso struggente di rapita nostalgia e di dolore, quel paese da cui il poeta ebbe «le prime rosee aspirazioni della dolce vita così amara» - tempo e luogo – svelano nell’interpretazione di un altro componimento da parte di Cesare Garboli, il senso di quell’attaccamento, di quell’amore per le sorelle, ma anche l’inevitabile perdita che l’eterno pellegrinaggio comporta[43].

A poco a poco il velame si apre e la visione sembra farsi più chiara.

La prima poesia che ci fece, in Sogliano, e che mi riempì di gioia il cuore e gli occhi di lagrime è quella che comincia: ‘Narran le pie leggende’[44].

Una poesia scritta a Sogliano subito la laurea, nel luglio 1882, quando il poeta da Argenta si era recato in visita alle sorelle che, uscite dal monastero, alloggiavano in casa della zia Rita, con quella quarta strofa cancellata, nella quale Bologna è una «orrida città», come a non volere lasciare traccia di quella esperienza che lo aveva trascinato fino al carcere, e dove il poeta, parlando alle sorelle che lo proteggano, quasi con un senso di colpa, si finge novello pellegrin. Ida ha 19 anni, Maria 17 e Giovanni le aveva dimenticate dal giorno in cui aveva messo piede a Bologna e non le aveva più viste, da quando, bambine, avevano meno di dieci anni. Il Pellegrino è dunque la prima poesia scritta a Sogliano, e questo tema del pellegrino sarà il nucleo tematico, l’asse portante di tutta la poesia pascoliana. Ritorna in un’altra delle Famigliari, Ida, scritta a Matera con la data, «a mezzanotte, 1882»:

Nel mio lungo ed aereo cammino
io vidi campi azzurri e stelle d’oro.
Quando passavo come un pellegrino
io sentiva cantare angeli in coro.

Il pellegrino, sradicato dal suo paese e fuggiasco, trascinato via, sempre in perdita, con il senso ineluttabile di un destino più grande, che si ferma ed ascolta tra la nebbia o le costellazioni in un senso di cosmica fatalità, come in In Cammino (in Myricae), o con la speranza di poter riprendere la strada con il suo bordone che ha ancora una «foglia inaridita che trema», come in Il bordone (In Primi Poemetti). Il Pellegrino si carica dunque di due contrapposte situazioni. Da una parte il porto, la meta a cui tendere, in questo caso gli affetti famigliari; dall’altra la rivelazione della perdita, del senso dell’ineffabile, del destinato a disperdersi, del «nido» non più protetto, perché «gli altri son poco lungi, in cimitero». In questa rivelazione che parte da Sogliano – andata e ritorno – come un ciclo che non verrà mai portato a termine, di cui sono felici testimonianze i pochi versi che ci rimangono e i pochi componimenti di cui abbiamo parlato, sta quel senso di indefinibile, di sconosciuto, di sottintesi, come una storia non scritta o forse ancora tutta da scoprire. Ma, e in questo sta la discrezione e la felice umiltà dei tanti studiosi pascoliani, bisogna fermarsi sempre sulla soglia senza oltrepassarla, attendere e restare in ascolto e ancora rivivere la tragica sofferenza del pellegrino – l’eterno viandante – senza patria e senza tempo, come l’Ulisse senza patria e senza compagni, alla ricerca della sua nuova identità, su cui Calypso innalza il suo canto di morte. Era anche questa la ragione che, molti anni prima della stesura de L’Ultimo viaggio – siamo sempre nel 1882 – quasi a presagire il suo futuro di eterno pellegrino, gli dettava il verso di Romagna:

Io, la mia patria or è dove si vive[45].

Siamo tornati così al punto di partenza e credo, per chi si accosta alla poesia del Pascoli e ai grandi temi cantati nei Poemi Conviviali e nei Poemetti, che una nuova lettura si possa intraprendere. Il poeta poteva ora ripartire e, caduta ogni illusione, poteva rifare il suo cammino a ritroso, alla ricerca di un passato del tutto sconosciuto, senza patria e senza tempo. Così L’ultimo viaggio (in Poemi Conviviali) è anche il viaggio della ricerca di una verità perduta o ancora sconosciuta. È la ricerca di un passato che si è disintegrato dove solo il nulla riemerge:

Solo mi resta un attimo. Vi prego!
Ditemi almeno chi son io! Chi ero!
E tra i due scogli si spezzò la nave.

Poi c’è solo silenzio sul mare dove ancora Odisseo viene trasportato dalle correnti per trovare finalmente la sua pace, fino a raggiungere l’isola e l’ultimo canto di morte che la dea Calypso innalza sul corpo dell’eroe:

Non esser mai! Non esser mai! Più nulla,
ma meno morte che non esser più!

Il nuovo secolo si pare con questa chiaroveggenza, con questa tragica certezza – fallimento della scienza e della coscienza e di ogni verità costituita che Pirandello farà sua distruggendo ogni volto e ogni maschera – e si aprirà quella fase di sperimentalismo e di ricerca fino a giungere a quella corrente ermetica che il De Benedetti chiamerà, con la solita acutezza, “Poesia dell’orfano”[46].

Note


[1] C, Garboli, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli, Einaudi, 1990, p. XXVII, il cui testo è stato inserito e ampliato in Antologia di Poesie e Prose scelte nella collana I Meridiani, Mondadori, 2002.

[2] Cfr C. Garboli nella nota Al lettore, in quella monumentale Antologia di Poesie e Prose scelte nella collana I Meridiani, Mondadori, 2002, tomo I, p. 7.

[3] “La rimembranza - commenta il Leopardi il 14 dicembre 1828 - è essenziale e principale nel sentimento poetico…, il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago” (Zibaldone, II, 1237-8); e ancora il 25 ottobre 1821 aveva annotato: “E son piacevoli per la loro vivezza anche le ricordanze di immagini e di cose che nella fanciullezza ci erano dolorose e spaventose… E per la stessa ragione ci è piacevole nella vita anche la ricordanza dolorosa, e quando ben la cagion del dolore non sia passata e quando pure la ricordanza la cagioni o l’accresca, come nella morte de’ nostri cari, il ricordarsi del passato” (Zibaldone, I, 1244).

[4] Per una lettura ragionata ed esaustiva del laboratorio di Myricae cfr. l’edizione critica delle Myricae a cura di G. Nava, Sansoni, 1974.

[5] G. Pascoli, Primi Poemetti, Prefazione, in Tutte le opere di Giovanni Pascoli, vol. I, Mondadori, 1965, p. 169.

[6] M. Pazzaglia, Tra San Mauro e Castelvecchio. Studi Pascoliani, Collana «Quaderni di San Mauro», La Nuova Italia, 1997, p. 89 e sgg.

[7] “Aspettando i «Canti di Castelvecchio» e i «Canti di San Mauro», il presente e il passato, la consolazione e il rimpianto, aspettando questi canti che echeggiano già così soave nelle nostre due anime sole” G. Pascoli, Primi Poemetti, Prefazione, cit., p. 169.

[8] Claudio Varese, Pascoli decadente, Sansoni, 1964, p. 25.

[9] Cfr. G. Leonelli, L’architettura di Myricae, in Itinerari del Fanciullino – Studi pascoliani, nella Collana «Quaderni di San Mauro», Clueb, 1989, p. 127.

[10] L’Aquilone fu pubblicato nel 1890 sulla «Rivista d’Italia», dedicato ai compagni d’Urbino, si ricorda in particolare la morte del compagno Pirro Viviani, già commemorato nel 1869 in una miscellanea dal padre Geronte Cei, insegnante del Pascoli in quinta ginnasiale e in prima liceo.

[11] I quaderni furono esaminati da Pio Schinetti, che ne diede notizia in un articolo, Pagine inedite di G. Pascoli, apparso su “Il Secolo XX”, maggio 1912, pp. 377-92. Si veda al riguardo la lunga analisi che ne fa M. Petrucciani in Miti e coscienza del decadentismo italiano, Feltrinelli, , 12ª edizione 1976, pp. 154 e sgg.; ed ora in C. Garboli, Antologia di poesie e prose scelte, tomo I, cit., p. 287 e sgg., in particolare per la prosa L’enfat du siècle, pp. 310-314.

[12] Cfr, C. Garboli, Antologia di poesie e prose scelte, tomo I, cit., pp. 310-314.

[13] Cfr. G. Petrocchi, La formazione letteraria di G. Pascoli, Le Monnier, 1953, p. 45; e ancora cfr. C. Garboli, Antologia di poesie e prose scelte, tomo I, cit., p. 350.

[14] Cfr. P. Citati in un articolo apparso su «Il Giorno», 21 marzo 1962; G. Debenedetti, Saggi critici, 3ª serie, Milano 1959, pp. 235-253; P. P. Pasolini, Passione e Ideologia, Milano 1960, pp. 267-275. Cfr soprattutto. M. David, Letteratura e psicanalisi, 2ª edizione, Mursia, 1976, pp. 151-156. Cfr. ancora le interpretazioni che diede G. Barberi Squarotti sul simbolo del «nido», G. Barberi Squarotti, Simboli e strutture della poesia del Pascoli, D’Anna, 1966.

[15] G. Pascoli, Canti di Castelvechio, Prefazione, cit., p. 500; e nelle Note sottolineava il concetto: «Ho bisogno, per alcune poesie (ne nomino soltanto tre: UN RICORDO, IL RITRATTO, LA CAVALLA STORNA), di ripetere alla lettrice e al lettore, che certe cose non s’inventano? In quelle e altre è tutto vero. Quindi quelle poesie non le ho fatte io: io ho fatto (e non sempre bene) i versi.», ivi, p. 700-701.

[16] Cfr i tre sonetti in forma di colloquio – monologo con la madre che compaiono nell’edizione del 1892: 31 dicembre 1889, 1890, 1891, poi raccolti, ma separati, nell’edizione del 1894, per poi trovare la loro sistemazione definitiva nella sezione Ricordi, nell’edizione del 1897 con i titoli di Anniversario.

[17] C. Garboli, Al lettore, in Antologia di Poesie e Prose scelte, cit., tomo I, p. 29 e sgg..

[18] Per l’edizione critica dei Canti di Castelvecchio, cfr N. Ebani (a cura) Canti di Castelvecchio, La nuova Italia, 2001.

[19] Cfr, M. Faucault, Storia della follia nell’età classica, BUR, 2ª ed. 1977, p. 19 e sgg.

[20] Cfr, G. Pascoli, Primi Poemetti, Prefazione, cit., p. 169.

[21] M. Pascoli, Lungo la vita di G. Pascoli, Mondadori, p. 257.

[22] Cfr. tra gli altri M.S. Ricci Peterlin, Intorno a un testo dei ‘Poemetti’ pascoliani, in «Studi e problemi di critica testuale, 7 ottobre 1973; analisi del testo sono state offerte da G. Leonelli, L’asino del Pascoli – Storia di un poemetto, in Itinerari del Fanciullino – Studi pascoliani, nella Collana «Quaderni di San Mauro», Clueb, 1989, pp. 99-112, M. Pazzaglia, Considerazioni su l’Asino di Giovanni Pascoli, in Tra San Mauro e Castelvecchio. Studi Pascoliani cit., pp. 75-88; cfr pure G. Pascoli, Myricae, a cura di G. Nava, Sansoni, 1974, I, pp. CLXXIV – CLXXV e XXIX.

[23] M.A. Bazzocchi, Pascoli a Sogliano: un paese sognato, in Romagna nella poesia di Giovanni Pascoli, Pazzini, 1999, a cura di T. Mosconi, pp. 42-46.

[24] G. Pascoli, Primi Poemetti, cit. p. 284

[25] P. Macrelli, Giovanni Pascoli nei ricordi di Sogliano, 1933. Il volume ebbe una seconda edizione nel 1942 ed è stato ristampato a cura della dell’Amministrazione Comunale e la Pro-Loco di Sogliano nel 1995, in occasione del centenario della morte di Pacido David, per gentile concessione della dott.ssa Maria Pia Macrelli.

[26] M. Pascoli, Lungo la vita di G. Pascoli, cit., pp. 133-134.

[27] La forzata, ma non troppo, rinuncia a Lia Bianchi, che ha vent’anni, figlia di un maestro di musica; idillio maturato nell’autunno del 1888 a Livorno, all’insaputa delle sorelle, alle quali verrà rivelato dalla figlia del Carducci. La rinuncia a Imelde Morri, sua cugina, figlia della zia Luigia e dello zio Morri residenti a Rimini, è il 1896. Il matrimonio nel 1895 di Ida – per il poeta è una fuga – con Salvatore Berti, giovane possidente di Santa Giustina.

[28] cfr. G. Getto, Da Carducci a Pascoli, Esi, 1965, pp. 154-157.

[29] Cfr. M. Pazzaglia, Pascoli, Salerno Editore, 2002, pp. 147-149

[30] Ivi, p. 155.

[31] Cfr. Garboli, op. cit., tomo II, p. 1234.

[32] Ivi, p. 31.

[33] Placido David arriva da Sogliano a Livorno nel marzo del 1891, dove resterà per due anni, fino al 1893, ospite del poeta, di Ida e di Maria; morirà a Sogliano nel settembre del 1894, di tumore. Il poeta era particolarmente legato al cuginetto e, quando seppe della gravità della malattia, era corso a Sogliano, giungendovi troppo tardi, lo stesso giorno della sepoltura.

[34] M. Pascoli, Lungo la vita, cit., p. 410.

[35] La casa verrà acquistata nel 1902 e sarà abitata da Maria fino alla morte (5 dicembre 1953).

[36] M. Pascoli, Lungo la vita, cit., p. 481-483.

[37] C. Garboli, Trenta poesie famigliari, cit., pp 97-98.

[38] Significativo è il fatto che l’11 giugno 1903 il poeta si trovi a Forlì per una vista ispettiva al Ginnasio Liceo e che, trattenutosi in Romagna per più di una settimana, non faccia visita a San Mauro; come pure le espressioni di Maria nei confronti del paese natale in occasione della malattia del poeta – tifo, una lunga malattia che durerà tutta la primavera – è il 1898 e il poeta si trova a Messina – (La mia malattia, in Canti di Castelvecchio 1903): «fa che si sappia che è e che è stato tanto male. Del resto si sa a San Mauro, ma nessuno si è degnato di mandargli un augurio. Bravi, bene, benone! Ma Giovannino saprà anche rinnegare quel paesaccio, che in fin dei conti, è stato sempre micidiale per tutti noi» (Maria a Ida, 4 maggio 1898); e ancora in una lettera sempre a Ida datata 12 luglio 1898, narrando l’accoglienza ricevuta a Castelvecchio tornata Maria con il poeta da Messina per le vacanze estive: «è stata una dimostrazione che ci ha commossi e compensati in parte dell’indifferenza di un altro paese che pur dovrebbe via via farsi viso con qualche buona parola e con qualche augurio. Qui ci vogliono bene, e qua resteremo».

[39] A proposito del conferimento della cittadinanza onoraria in una lettera inviata al sindaco di Barga, Giulio Giuliani, il Pascoli scrive: «Sebbene in coscienza io creda di non meritare questo spregio e quindi non me ne turbi e contriti molto, non si turbi e contriti la S.V. Ill.ma se anche per mia parte io respingo e rinunzio quella cittadinanza d’onore che il 15 maggio del 1897 il consiglio comunale mi decretò e che il 28 luglio del 1907 gli elettori mi hanno ritolta. Ché gli elettori hanno tacitamente ma chiaramente detto che nessun onore Barga riceve da me e che nessun onore io merito da Lei…». Il 28 luglio 1907 erano avvenute le elezioni amministrative e Giovanni Pascoli, candidato consigliere comunale del partito della “Crema”, era rimasto sconfitto. Sbollita la collera, in seguito il poeta si convinse a rinunciare alla cattiva idea di respingere la cittadinanza onoraria. Il Pascoli si era presentato anche nelle elezioni amministrative del 1905, quando le due liste rivali “Popolo” e “Crema” si erano accordate, e il poeta in quella occasione ebbe il maggior numero di preferenze, 428; ma la Prefettura non convalidò la sua elezione, non risultando egli iscritto nelle liste elettorali del Comune di Barga. Si veda G. Pia (a cura), Caro Giovanni…,, stampato dalla Tipografia Gasperetti in collaborazione con la Fondazione Ricci – Castelvecchio Pascoli, nel 1995, in occasione del centenario dell’arrivo del poeta a Barga.

[40] Cfr. C. Garboli, Trenta poesie famigliari, cit., pp. 251-257.

[41] Ivi, pp. 211-212. Il sonetto intitolato A Maria è datato Massa 1885 e fa parte della stessa raccolta di «poesie famigliari» o «Poesie varie». Anche nel giorno più nero (il poeta immagina il proprio funerale nel cuore della sorella) Sogliano si contrappone nella sua limpida luce serale.

[42] Cfr, G. Durand, Les structures anthropologiques de l’imaginaire, Bordas, 1969. Soprattutto cfr. G. Barberi Squarotti, op. cit.

[43] Cfr. C. Garboli, Trenta poesie famigliari, cit., p. 189-206

[44] M. Pascoli, Lungo la vita, cit., pp. 134-135.

[45] Il 1882, l’anno di Sogliano è infatti anche l’anno di Romagna, la cui stesura erroneamente o volutamente il Pascoli ha voluto anticipare al «1880 o giù di lì» (la prima stesura era apparsa in «Cronaca Bizantina» il 1º dicembre 1882 con il titolo di Colascionata) e in Romagna ritorna quel verso che sottintende l’amara esperienza del pellegrino, sempre in viaggio e perciò senza posto fisso e senza patria: «La mia patria or è dove si vive».

[46] G. Debenedetti, Poesia Italiana del novecento, Garzanti, 1974, p. 61.

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