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Quando la materia si scorpora di logos

Nella nostra società "omologata" che fine ha fatto quel pensiero da J.B.Guilfort definito "divergente", in grado pertanto di cogliere in modo sempre nuovo i rapporti fra le cose e le idee? La vita attuale, a partire dall'infanzia, scorre ormai tutta su binari di "convergenza", e di ciò comincia a risentire anche la possibilità di nuove scoperte scientifiche.

Accanto al "logos" è necessario sollecitare pure quella forma di pensiero che partorisce immagini fantasiose, è necessario quindi ritornare a parlare di miti, delle leggende fascinose di cui ogni terra è portatrice. Ed è per questo che apprezziamo molto quanti, come la nota scrittrice barese Anna Sciacovelli, si impegnano a riprendere memorie patrie, a dare giusto risalto a quei "sentimenti magmatici", così Ella scrive su "Domenica Sera 5", che si esprimono talora con maggiore carica emotiva e fantastica nella lingua che è propria di una determinata terra, vale a dire nel dialetto.

Nelle antiche ere non era certo in pericolo la creatività poichè essa veniva in ogni modo sollecitata. Se, per esempio, un bambino ci chiedesse oggi spiegazione dell'eco, ci impegneremmo a fargli capire le onde sonore, la ripetizione del suono quando quelle incontrano un ostacolo; cercheremmo cioè di offrire in modo semplice una spiegazione scientifica, la quale non sarebbe di certo sollecitatrice di emozioni.

Che cosa avrebbe, invece, ascoltato un fanciullo greco o di Taras, oppure di una delle tante città della Magna Grecia? La storia di Eco, l'infelice ninfa oreade della Beozia perseguitata per gelosia da Era, da questa punita col non poter parlare per prima, nè tacere, poichè costretta a ripetere le ultime sillabe dei discorsi. Oppure la versione riportata anche da Ovidio: Eco s'innamorò del bellissimo Narciso, ma venne da costui respinta; affranta dal dolore, vagò nei boschi, si lasciò languire, riducendosi a pura voce mentre le sue ossa divenivano pietre. O l'altra versione più drammatica che narrava del dio Pan, del suo amore per Eco, della vendetta per essere stato da lei respinto, della fine della ninfa fatta a brani dai pastori per ordine di Pan, della voce come unico segno della sua esistenza.

Spiegazioni ben diverse da quella offerta da noi, le quali avrebbero sollecitato emozioni, una capacità fantastica accresciuta poi dagli innumerevoli altri miti che venivano raccontati a spiegazione di ogni cosa.

Perché, per esempio, il lauro? Apollo s'innamorò della ninfa Dafne, che si diede alla corsa per sfuggirgli; quando stava per essere raggiunta, chiese aiuto a Demetra ottenendo di essere trasformata nel bisessuale albero di lauro, una unione ermafrodita dei sessi come emblema di rigenerazione sacra. Un mito che ha sollecitato poeti e artisti di ogni tempo. Basti menzionare la famosissima scultura del Bernini, considerata una delle opere più emozionanti dell'arte occidentale. In tanti miti elemento fondamentale è la bellezza con il suo conseguente effetto, che è quasi sempre desiderio di appropriazione, di possesso, presentato come sentimento d'amore.

Ma cos'è in definitiva il mito? Potremmo dire che è una forma intuitiva di conoscenza, con cui le cose vengono animate e personificate attraverso la immaginazione. Una rappresentazione fantastica della realtà, per la quale pure il linguaggio non segue i canoni della razionalità, si fa sensazione. E' quanto succede anche nell'arte, ma, a differenza di questa, il mito non può qualificarsi "individuale", ma di una tribù intera, di tutto un popolo che in esso esprime non la visione razionale ma quella spontanea di sè nei diversi aspetti della sua storia.

Una fantasia da considerarsi ancor più ampliata dal momento che è parto del gruppo. Ed è una necessità poichè proprio in virtù di esso la tribù o il popolo crea se stesso, vale a dire pianta le sue radici. Pensiamo, ad esempio, al mito di Enea con cui i Romani espressero l'origine, la loro impronta nel "tantus labor", considerato punto fermo per la creazione dell'impero.

Ma la visione spontanea faceva sì che i personaggi agissero oltre i limiti dello spazio e del tempo, che avessero quindi dimensioni divine. Col mito si spiegava l'origine dell'uomo e del mondo, il suo destino, e venivano giustificati fenomeni fisici, leggi, tradizioni e istituzioni del gruppo. Esso non va quindi considerato semplice diletto, come qualcuno potrebbe pensare, dal momento che aveva una funzione esplicativa.

In India, per esempio, il sorgere del dì veniva percepito come azione di una pastorella, cioè l'aurora, che, dopo aver aperto il recinto della notte per far uscire le vacche rosse, vale a dire le nuvole colpite dai primi raggi, avanzava su un carro trainato da veloci cavalle portando il sole. Ci sembra di intravedere quasi il movimento del sole mentre la terra rimane ferma ad attendere la luce.

La cognizione dell'universo era inoltre legata ad aspetti religiosi e ciò contribuiva a che il gruppo si riconoscesse partecipando alla stessa emozione, la quale veniva rinnovata in un tempo fissato. Un esempio è il mito di Demetra alla ricerca della figlia Core, rapita da Plutone, dio degli Inferi, ritrovata poi e riportata sulla terra. In questo mito eleusino si voleva simboleggiare la vegetazione che scompare come seme e ricompare poi come pianta. Era un modo per spiegare il mistero della germinazione, ma anche la sorte dell'anima, di cui non si accettava la fine.

Qualsiasi cosa trovava dunque la sua giustificazione attraverso un mito, dai fenomeni astronomici, meteorici e agrari all'origine degli dei, degli uomini e del mondo. Non era neppure necessario che ci fosse un coordinamento tra i vari miti che rifluivano liberi e avevano, proprio per questo, una ricchezza che ci appare straordinaria.

C'era anche in area mesopotamica una necessità ben più profonda, ed era quella di rintracciare nel mito, in questo caso nella figura dell'eroe Gilgamesh, una spiegazione della terribile condizione dell'uomo alla ricerca di una impossibile felicità mentre sul capo gli pende la condanna al male, alla morte ignota.

Ma, per concludere, chi ha l'intenzione non di mettere in opposizione, di assolutizzare quindi quanto più direttamente è proprio ma di vederlo in armonia con la varietà di genti, tradizioni e culture, non rinnega certo l'appartenenza allo stato, alla nazione, nè sminuisce l'importanza della scienza ma sollecita nelle nuove generazioni attenzione a quel patrimonio che dà il giusto sentimento della specificità, e ciò può salvare anche dalla "omologazione".

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