Nell’immaginario, gli angeli sono figure di luce,
alate per muoversi liberamente nell’aria, apparire e scomparire, lasciando a noi
uomini un trasalimento, una fugace eppur profonda sensazione d’esser portati al
limite dell’immenso e dell’eterno.
Sulla soglia di questo confine, ci portano le belle
liriche di Gianni Calamassi, raccolte sotto il titolo di Angeli stanchi.
Già il titolo ci dice come Calamassi colori il candore
angelico dell’ immaginario di riflessi proiettati dalla nostra vicenda umana,
quasi a intridere di terra, di fatica, di sangue i lembi delle vesti lucenti,
per trattenere fra noi queste creature, come sono state trattenute, immobili
nelle statue, nei cimiteri di guerra a proteggere pietosi gli uomini che si
sono empiamente uccisi ..
Gli angeli di Calamassi.sembrano raccoglier e portare
messaggi anche dalle voci del mondo,dai fremiti della natura; ci guidano
all’ascolto attento di una vita fertile, pervasa di sussurri che rendono ricco e
assorto il silenzio.
E’ la lirica ”Silenzioso canto malinconico”quella che
apre la raccolta. I versi, pur intrisi di quotidianità, (“Premono gomiti
acuti, ridono guance | flaccide, dentiere bianchissime, borse aperte ai piccoli
zingari | dalle dita sapienti; macchine | fotografiche con occhi indiscreti…”) aprono
a una dimensione interiore affidando all’ossimoro ”salire la discesa”
l’espressione dell’affanno esistenziale. Questa prima lirica è rivolta a un
“tu”, un interlocutore che riemerge in altre liriche, quasi un’altra voce che
può essere intesa solo nel silenzio (..”lascia | che a parlarti sia il mio
silenzio, | che il tuo silenzio sia la mia voce”).
Sembra che soltanto in questo dialogo percepito senza
suoni possano prender vita le parole e i ritmi della poesia di Gianni Calamassi.
A un “tu” che invita a essere un danzante Pulcinella o
un furbo Arlecchino confessa la sua “vita silente” un Pierrot (in “Le Maschere”)
che si è consumato nel desiderio di una vita d’amore; nella lirica ”Ascolta”, il
“tu” ha un silenzioso volto femminile (“..amica mia silenziosa..”) davanti al
quale si scioglie il pianto del poeta, e le lacrime danzano “sul tenue filo
incorrotto” che li lega e li divide come un filo di luce fra l’alba e la notte.
Quel volto promette la speranza di un giorno nuovo e “il saper di tua vita”
consola chi affida a quell’ ascolto il dialogo liberatorio dalla sua solitudine.
Irrompe intanto la prima delle creature
ultraterrene, ”Angelo della pioggia”, che appare fra l’acqua del fiume e quella
degli ultimi scrosci di pioggia che rendono lucidi, al primo apparire del sole, i
colori già ingrigiti delle case, degli alberi, dei prati. Sorride e canta, questo
primo messaggero, perché rivela la gioia di questi colori rinnovati, ma tace le
sue parole che son percepite soltanto come mobili ”frange” nella sua ”voce di
suono” :.. ”Cosa vuoi che dica la mia bocca | pozzo di nomi che non ho detto | e forse
non dirò, parole | che non si possono udire…”. Il mare accoglie l’angelo della
pioggia, e la distesa d’acqua custodisce e nasconde le sue parole non dette.
Perché le parole si svelano “nell’ombra, mentre
svanisce il suono” – ammonisce il poeta nel suo dialogo silenzioso (in ”L’ombra
delle parole”) ”stanno nel cuore”.
E’ nella profondità appena percepibile del
significato, grumo della coscienza di sé nel mondo, che la ricchezza espressiva
della parola si addensa, intrisa di emozione prima che il suono modulato la
renda chiara e distinta comunicazione. E’ questa la parola che Gianni Calamassi
predilige; questa la parola che cerca, questa la parola che lo tormenta nella
tensione di decifrarla.(“…il messaggio criptato | da risolvere senza mai
capire..”).
“Sono vivo soltanto per la penna”, dice
nella lirica “Abbracci”, in cui il dialogo silenzioso si rivela più intimo e appassionato, ma
soltanto per la catena di parole che l’intrecciano a chi lo ascolta; le parole
sono leggere, dai suoni smorzati (“carezzare, sussurrare” in ”Non cercarmi”), quasi
una vibrazione d’aria che va a spengersi.
“Senza sole” e ”Non cercarmi” sono le liriche
dell’assenza, martellata sui ”non...non”..è “fuggitivo il fuoco del legno che non
arde”… ”accanto al sasso l’erba | non sussurra più la sua crescita.”
Il verso che chiude queste liriche, ”il
tempo | dell’attesa si è esaurito”, sembra chiudere il dialogo che invece si
riaccende quando “L’Angelo dell’Amore” entra ”piroettando”, ma questa volta il
messaggero luminoso che incede sicuro porta profumi di rose e musica e sfavillio
di ali soltanto per il “tu” ascoltatrice (“il tuo angelo è arrivato”). Le nozze
annunciate dall’angelo dell’amore sono una festa che ha la gioia di una
primavera risvegliata, ma al poeta rimane soltanto l’angoscia di un richiamo
senza speranza. Eppure l’angelo dell’amore, quasi fosse il soffio animatore
della vita, trattiene la sua anima ”strappata dal corpo”sull’orlo di un abisso
mortale perché non c’è luogo in cui possa stare senza di Lui (“perché il tuo
angelo dell’Amore è qui”).
La festa delle nozze ritorna nella prima strofa di
“Angeli stanchi”, la bella lirica che dà il titolo alla raccolta..”Vedo ancora
volare angeli stanchi | e candidi abiti da sposa..”
Gli angeli non sono più identificati, ma sono visti in
una moltitudine indistinta che ondeggia nel vuoto al di sopra degli uomini,
quasi avessero perduto l’orientamento del volo e il significato dei messaggi.
E’ il poeta/uomo che li guarda, quello che cerca il significato di quel volo
smarrito e di quei messaggi dimenticati. Lo cerca nell’esperienza folle
dell’umanità che alla festa delle nozze contrappone la distruzione dei
primordiali vincoli d’amore :”le madri impazziscono | con i figli stretti al
petto e vestiti | senza corpo di uomini soli”.
Lo fa introducendo perentoriamente il tema della
guerra; gli”angeli stanchi” sembrano librarsi ancora una volta staccandosi dai
pietosi monumenti dei cimiteri, coprendo di candore lo strazio dei
cadaveri: ”Vedo volare solo angeli stanchi, | come vele sospinte dal soffio della
morte | raccolgono corpi senza nome... " Il cielo si ritrae per l’orrore,
“disperso fra stella e stella”.
Spengono nel buio il loro biancore luminoso anche gli
angeli (“Non vedo più volare angeli bianchi”); il poeta è solo con la sua
coscienza lacerata ad ascoltare ”l’urlo silenzioso della guerra”.
Le due liriche che seguono ”Pace” e ”L’uomo si
mobiliti” scaturiscono dalla sua disperata ribellione a quest’urlo inesorabile
che sembra annientare ogni voce che gli si opponga.
Irrompe il più alto Messaggio di pace, non più portato
dagli angeli, ma dall’Annuncio evangelico:
”..prendi per mano il tuo nemico | e al petto |
stringilo”.
Ritorna il ”tu”interlocutore, ma questa volta abbraccia
un “voi” che esprime la pluralità di tutti gli uomini che vogliono tessere ”filanti scialli di pace
| … con l’iride dei fiori”. L’arcobaleno dell’”amore che
si fa pace” dissolva nella sua molteplice luminosità il viola che “orla” il
sudario di un uomo ucciso da altro uomo!
Si alzano voci da tutto il creato ”Non si può sparare
sui fratelli, | si gela il grano-mormorano | non fate un mondo di macerie, | l’uomo
si mobiliti,…”.
In questa lirica, il “tu” ha il volto della
giovinezza: forse “l’amica mia silenziosa” lo ha sempre avuto e il dialogo di
parole senza suono ha significato la malinconica consapevolezza di un declino
individuale. Ma ora la voce del poeta esprime la consapevolezza di essere parte
di un’umanità che lotta per un destino di giustizia e di pace; la giovinezza è
tutta la nuova generazione, che il poeta vuole proteggere perché arrivi il
tempo di una pace ”che balli agli angoli della strada”.
L’ultimo angelo, “L’angelo nero”, ha il volto,
segnato dalla fatica, di un uomo. L’angelo non vola, non può volare
”…appesantito | dal tappeto marocchino arrotolato | sulla spalla…”: è anch’egli un
fiore di giovinezza, ma gli è tolta la speranza perché sa di avere un tempo
troppo breve per riuscire a portare il suo messaggio. Le ferite della
terra, quelle inferte dalla storia insanguinata degli uomini, lo tengono
schiacciato sull’orlo di un cratere; le belle ali sussultano nei fremiti di una
morte annunciata. Perciò urla “alla luce”. Nessun uomo che voglia la pace potrà
ignorare che anch’egli aspetta ”il suo giorno”.
Dal grigiore mortale di quelle piume d’ali appesantite
da un fardello di miseria parte sommessamente, ma perentoriamente, il
messaggio: non ci sarà giorno per nessuno, se anche l’angelo nero non ne vedrà
la luce.
Le liriche che seguono (“Sepolcri
imbiancati”, ”Bengala”, ”Notte lucente”, ”Papaveri”, ”Un desiderio come di ginepro”)
sono come colpi d’immagini, rese da lampi di colori di odori, di suoni, di
sapori, di sensazioni tattili, che ci immergono nel mondo creaturale della
natura, dal biancore gelido della luna (in “Sepolcri imbiancati”) al ”volto del
prato” che ”di porpora si copre” (in ”Papaveri”).
Ancora colori e suoni del mare e del cielo sono la
materia dei “Sogni”, che sfuggono alle parole del poeta, ma agitano il suo cuore
e gli danno la libertà di mettere ”..nuove | pietre lungo la strada | che
percorro..”, ma senza lo slancio di una gioia vitale perché ”..i sogni son nuovi
dubbi | che nascono senza sforzo”. Eppure.”Non trafiggeteli come farfalle, | i sogni
sono vivi, | e possono essere gli ultimi | anelli di una ferrea catena | di rimpianti”
Non è questa, tuttavia, la lirica con cui Gianni
Calamassi si congeda.
La raccolta di Angeli stanchi è chiusa in prima
persona da ”Ho un debole”, che è come un saluto a braccia aperte per chi soffre,
lotta, sorride per gli altri; per chi prega aprendo alla speranza; per chi va
incontro ”al nuovo giorno” senza attese infingarde…; ”…per i sentimenti
irragionevoli, | impronte di silenziose tracce che sicure | albergano nell’animo
dell’umanità .”