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Prefazione a
Amolore
Vittorio Vettori
Un canzoniere esemplare
In che senso si può dire che questa ampia silloge
poetica di Duccio Castelli viene di fatto a costituire un canzoniere esemplare?
Per la verità, in più sensi, aventi tutti sostegno e
riprova nell'impressione di viva sorpresa che prende e simpaticamente
(simpateticamente, a voler essere precisi) colpisce l'ignaro lettore cui tocchi
per la prima volta inoltrarsi nell'ordinata selva dei novantasei componimenti
dove, incrociando mirabilmente unità e varietà, il messaggio del canzoniere con
perentoria incisività esemplarmente si inscrive.
Un canzoniere appunto, come si diceva, esemplare. Anzitutto nel senso della continuità, si potrebbe
aggiungere, "diacronica", realizzata dall'autore col semplice atto compositivo
del mettere insieme le quarantacinque liriche nuove intitolate Amolore con le
cinquantuno trascritte dai precedenti libri (undici da Emigranza, sette da
Doppi
e metà, ventidue da Credito d'affetto, ancora undici da Tempo barbaro): tutto un
percorso esistenzialletterario caratterizzato dalla più rigorosa e in pari tempo
più spontanea coerenza, per cui risultano perfettamente legittimi e naturali i
lusinghieri giudizi che sulla poesia di Castelli furono di recente
espressi da lettori autorevoli (e critici creativi
altamente qualificati) come Franco Lanza e Giorgio B. Squárotti.
Qui sarà giusto e opportuno fermarsi per osservare che
il principio costitutivo della continuità, lungi dal formare un criterio
normativo assoluto, si completa vitalmente e si integra nella scrittura poetica
di Castelli con una spinta di contrapposta discontinuità sulla linea di uno
sviluppo dinamico equivalente al ritmo alterno di un organico disegno
architettonico in cui il poeta, milanese di nascita e comasco di vocazione e di
vita, sigla la propria duplice appartenenza novecentesca alla Milano di Giò
Ponti e di "Casabella" e alla Como di Casa Terragni in una posizione di
equidistanza dove profondamente vive e respira una terza e più personale
appartenenza: quella specifica del poeta alla "linea lombarda" principalmente
rappresentata nei nostri decenni dal luinese Vittorio Sereni.
E tuttavia l'esemplarità di questo singolarissimo
canzoniere non si ferma qui. Questo canzoniere è esemplare anche in altri due sensi
che rni sforzerò di chiarire brevemente, con due considerazioni riguardanti
proprio la specificità poetica di quella "linea lombarda" a cui Duccio Castelli,
come abbiamo già detto, palesemente e – ripetiamolo
– esemplarmente appartiene.
Prima considerazione. Reagendo all'entropia di quello
che egli stesso chiama "tempo barbaro" con la 'sintropia' (o 'neghentropia' che
dir si voglia) di uno spazio liberato e redento all'insegna dell'ordine e
dell'armonia, Duccio Castelli recupera in interiore homine il senso assoluto del
Tempo come Atto spazializzante, per cui a conti fatti l'escatologia coincide con
la protologia, l'origine con la meta, la morte con la 'seconda nascita', in
un'estensione massima della curvatura eisteiniana (cui letterariamente risponde
e corrisponde quella orfico-rilkiana), sicché, lavorando à rebours sullo
spessore ritmico-simbolico della linea linguistica di appartenenza (la "liena
lombarda" appunto) negli ultimi anni del secolo e del millennio, Castelli è
potuto ex novo approdare alla riva di piena verità poeticamente irradiante nella
quale già operava nei primi anni del Novecento il capofila della suddetta "linea
lombarda" e cioé Clemente Rebora, su cui converrà rileggere, da Plausi e
botte, il giudizio tipicamente vociano del ligure Giovanni Boine: "Lascitemi
dire, lasciatemi scrivere la parola grande".
Seconda considerazione. Come Clemente Rebora, 'lombardo'
.finché si vuole, però in primis 'italico' civismundi, travalicava di fatto ogni
limite regionale e poteva esser compreso nella sua interezza soltanto
all'interno del più ampio movimento culturale incentrato su "La voce" e su
"L'anima" come su "Il Frontespizio" e su "La Tradizione", così anche Duccio
Castelli, quasi Rebora redivivo, alter et idem, richiede una lettura non più
soltanto lombarda ma molto più larga, se è vero come è vero che nel revival
vociano tra Novecento e Duemila si può identificare un asse
euromediterraneo facente capo per l'Italia ai palermitani Aldo Gerbino e Lucio
Zinna, al capuano Giuseppe Centore, ai fiorentini Fornaretto Vieri e Francesco
Giuntini, al viareggino Dilvo Di Sacco, al lombardo Duccio Castelli.
In particolare, le novantasei liriche del giuntiniano
"La catena dei giorni" rìmano alla perfezione col presente canzoniere lombardo,
scandito non a caso in altrettanti motivi o momenti. Punti-luce, punti di riferimento, espressioni vittoriose
della Parola che nella sua inesauribile esemplarità sempre di nuovo libera e
salva.
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