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Prefazione a
Credito d'affetto
Franco Lanza
Nella poesia ali Duccio Castelli si possono isolare due
centri d'irradiazione. Il primo, e più lungamente insistito, è la creaturalità
provvidenziale, fondamentalmente e teologicamente ottimistica ma non priva di
incrinature dolorose: essa si incentra sul mistero generazionale, cioè sulla
pianta-uomo, sorpresa di fiorire in un giardino meraviglioso anche se insidiato
da una piega amara che potrebbe ribaltare la favola in tragedia. Ma la
consapevolezza di essere anello di una catena di luce ha più forza
d'ogni
temuta entropia. I bimbi, la divina infanzia degli orfici, sono seconda poesia,
colibrì del mattino, pampini del cuore: e se il tragitto cosmico s'inarca per
incommensurabili distanze di cui la cosiddetta storia appare non più di un breve
palpito ("la luce partita | con le palafitte
| sapete, deve ancora arrivare"),
il dubbio che accompagna questi itinerari vertiginosi è esso stesso un divino
privilegio, poichè "non dona anime | la Natura Iddio".
L'altro centro è di natura linguistica, e rigurda la non
frequente esperienza dell'auto-traduzione. Il lungo soggiorno cileno di Castelli
ha conciliato la prova, talvolta vincente, di una lingua diversa dall'italiano:
una lingua che, nata dal medesimo stampo mediolatino, ha avuto vicende
analoghe (anche se più esposte alle modificazioni
storiche) a quella della solenne impalcatura classico-toscana della nostra
tradizione letteraria. Ora lasciando da parte le traduzioni dello stesso autore
in lingua inglese, cioè in una ,forma intrinsecamente dissimile per
caratteristiche fonetiche e ritmiche, il versante ispanofono del suo discorso
appare non già una traduzione nel senso translitterale del termine quanto un
complemento o glossa del testo italiano, una possibilità in più offerta
all'arpeggio degli aggettivi o all'incisività significante dei nomi. Se per
esempio "Trinidad",
"Cajita China" e "Viejo padre" risultano, tutto sommato neutri in
confronto alla stesura italiana, in altri come
"Tango argentino" e
"Octubre"
l'illusione di un prototesto spagnuolo sembra perfettamente riuscita; e in un
altro ("Colibrì del alba") il picaflor del penultimo verso basta a suggerire una
decorazione in più alla arquitectura chilena che increibilmente rica soggioca al
suo profumo il cuore del poeta accordando il paesaggio con la sua estetica.
Resta da chiarire il titolo: il credito è di indubbio
segno positivo, cioè carità che esige naturalmente corresponsione. Se fosse
stato debito, avrebbe postulato un obbligo restitutivo, e non un effondersi di
calore. In ciò, se non erro, si evidenzia il pregio umano (quindi spirituale,
interiore, potenzialmente infinito) di quest'impianto sentimentale che dalla
pura virtualità poetica, cioè dall'accartocciarsi introverso, esplode
estroverso di musica, e insieme il suo limite artistico; perché se
da una parte
è certo dal fuoco del dare (e non dalla giustezza del ricevere) che prendono
vita le note più alte e vibranti del messaggio poetico, dall'altra mi pare
altrettanto evidente un calo di tensione formale quando il rapporto affettivo si
cala in stampi neo-crepuscolari, quotidiani e prosastici ("Ciao mamma l'ho detto
davvero | ti ricordi | che c'era la fiera qui giù?" oppure: "Popi non ti puoi
ricordare | tra queste stanze di un televisore
| più bianco che nero..."; e si
legga, esemplare, tutta la "Storia di Rosa") dove il livello colloquiale viene
intenzionalmente esibito.
Ma ogni album di versi ha i suoi momenti di pura
effusione inframmezzati ad altri di intrattenimento convenzionale. E
naturalmente è per i primi che Duccio Castelli rimane nella memoria del lettore:
magari soltanto per un'allegoria della vita in chiave surrealistica ("andiamo a
molla | come un tamburino | e a notte
| il Signore ci avvita") o per un'altra di
allucinato espressionismo ("L'agenda sguarnita rincorrerà | gli impegni in
cerchio | come la galliana con la | testa mozzata") o per un'illuminazione
improvvisa che inquadra l'autoritratto in cui anche il futuro, spogliato dalla
retorica del futuribile, accetta docile il proprio destino provvidenziale
conciliato dalla fiducia nelle scelte fondamentali lungo il pellegrinaggio
dell'esistere, non che dalla misura dell'arte:
....incastonato in finestre campigliesche
scelgo la
mossa e vado,
spostandomi il destino
sul foglio di domani.
Con questo coup de dé spurgato da ogni insidia di
sortilegi Castelli esce dalla fissità egizia del modello figurativo ed invita
gli uomini bonae voluntatis a camminare con lui. E' un invito piuttosto raro
nei tempi che corrono: e merita di essere accolto sia per la freschezza
dell'immagine che lo accompagna sia per l'alone caldo d'amicizia che lo
soffonde.
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