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Insopportabile era la parola esatta. Quel bastardino nero, uno sgorbietto a dir la verità, era veramente insopportabile. Ciò che me lo rendeva tale era il suo modo d’abbaiare. No, non era “abbaiare”, era un breve ma continuo latrare acuto e sgraziato: metallico. Si aggirava nervosamente, avanti e indietro lungo tutto il terrazzino al terzo piano del condominio accanto al mio. Non conosceva sosta né d’estate né d’inverno. I suoi padroni, evidentemente, lasciavano sempre aperto un pertugio per lui. Boh! Fatto sta che per tutto il giorno, come un vigilante inquieto e investito del proprio ruolo, non faceva che uscire, rientrare, riuscire nel terrazzo guardando nervosamente tutt’intorno e pure giù, anche in giardino, per non farsi scappare nulla, per tenere sotto controllo ogni cosa, pronto altrimenti ad inveire a tutta gola verso qualunque cosa fosse in movimento. I nostri condomini appaiati, uguali, sono stati costruiti negli anni ’70 e hanno di fronte un vasto appezzamento di terreno rimasto non edificabile (a quell’epoca il piano regolatore della città vi aveva previsto una strada poi mai realizzata) cosicché , pur essendo situati in una zona residenziale hanno una vista naturale di grande respiro. La fauna che trova appoggio e rifugio sui pini dei nostri giardini è di tordi, merli, passeri, pettirossi ed ultimamente anche corvi e cornacchie nerissime. Figurarsi se quel cagnetto nevrotico avrebbe accettato che qualcuno di questi si fosse appoggiato, avesse saltellato sul suo terrazzino. Non solo, ma giù, di là del suo giardino nel grande campo erboso, i gatti avevano l’impudenza di strusciarsi e lamentarsi durante i mesi dell’accoppiamento. “Ma chi erano, cosa stavano facendo?” Con il muso fuori della ringhiera, mostrava i dentini aguzzi e ringhiava, si agitava, guaiva persino col singulto: soffriva molto. Allora, serrando la porta del mio terrazzo da dove avevo visto la sceneggiata, e guardando con occhi dolci la mia gattona bellissima: una siamese che avevamo chiamato Greta, (come la “Divina”) che era stesa mollemente e con languore al caldo sul termosifone del salotto e che mi guardava socchiudendo gli occhi azzurro cielo, mi dicevo: “Vuoi mettere avere un gatto anziché un cane? Anche quelli di piccola taglia in fondo sono cosi seccanti con il loro bisogno di attenzioni, con i loro “bisogni” d’altro genere e le necessarie uscite che devi programmare”. E poi, abbaiano, sono invadenti, guarda quel “coso” quanto disturba…. Greta l’avevo comperata cucciola in un negozio d’animali dieci anni prima. Dalla vetrina la notai subito: era così piccola e sola in quella cesta. Mi guardò con un musetto triste e uno sguardo indifeso… Di lì a poco era il compleanno di mia figlia e sapevo quanto desiderasse avere un gattino. Detto fatto: seguendo l’impulso e il desiderio, la comprai e la portai a casa dentro una scatola con i buchi. Ci accorgemmo subito che, pur affettuosa a suo modo, era una gattina molto paurosa, ritrosa a farsi toccare, che si spaventava al minimo rumore. Chissà che imprinting natale avrà avuto, ci venne da pensare. Pian-piano crescendo e solo di sua volontà, a volte veniva e si accoccolava sulle nostre ginocchia, oppure in piena notte la sentivo balzare sopra il letto per acciambellarsi vicino ai miei piedi. Poi, come tutte le siamesi, aveva degli scarti imprevedibili: dalla totale immobilità improvvisamente e con gli occhi spiritati prendeva a correre al galoppo e a far di sponda lungo tutto il corridoio di casa. Ma la vera specialità era un’altra: Greta parlava. Bastava guardarla dritta negli occhi: lei rispondeva con un “Gnah!” perentorio. A dirle qualcosa, a sussurrarle un discorsetto, drizzava le orecchie con un che d’annoiato e poi si concedeva con miagolii prolungati che cambiavano di tono e di modulazione. Continuavamo così un botta e risposta che era diventato parte del nostro legame. Durante la lunga convivenza c’erano anche giorni interi durante i quali stavamo ognuna per proprio conto. Lei non amava sentire il ticchettio della macchina da scrivere elettrica che avevo allora e se ne andava dallo studio brontolando e borbottando. Si rintanava spesso senza poi dare risposta in qualche angolo nascosto e invisibile dell’appartamento. Lo faceva anche quando sentiva suonare il campanello. In quei casi, sgattaiolava come un siluro, via, a pancia rasoterra accompagnando la fuga con un farfugliamento tutto gutturale della voce. Crebbe, diventò adulta restando sempre fra le mura di casa, usufruendo però anche di un provvidenziale terrazzino con un po’ di verde e tanta erba gatta sempre fresca . In quello spazio aperto, dove ugualmente si sentiva sicura, avevo sistemato una piccola casetta di legno con tettoia. In primavera, ai primi tepori, se ne stava accomodata mezza dentro e mezza fuori e annusava l’aria arricciando il naso; sonnecchiava con quel fare però sempre vigile dei gatti; attenta quando qualche passerotto, che non l’aveva vista, planava in cerca di briciole. Lo seguiva nei vari saltelli, negli spostamenti restandosene però ferma immobile: a tradirne la tensione era solo un’impercettibile tremolio dei baffi. Una gatta sensibile, delicata, timorosa, ed anche per questo molto amata. Quella gatta una sera di gennaio, prima di andare a letto, non la trovai più in casa. All’inizio pensai alla sua solita cocciutaggine di non rispondere ai richiami. Poi, dopo vari tentativi e ricerche in tutte le stanze, dopo aver guardando nei suoi posti preferiti, anche dentro tutti gli armadi, ovunque e più volte, mi prese una sensazione di vuoto, di spaesamento: realizzavo che, anche se incredibilmente, - davvero - non c’era più. Questa sensazione diventò certezza quando controllai la ciotola con il cibo: non era stato toccato dalla mattina. Quando e come poteva essere uscita? Con quel freddo? La sera prima aveva nevicato. Il campo fuori era tutto bianco e ghiacciato. Come poteva essersi infilata giù per le scale? E se fosse caduta dal terrazzino al terzo piano? Ma no, non avrebbe potuto, c’era la neve e non avevo aperto la porta-finestra e poi – figurarsi - se lei si sarebbe avventurata fuori con quella novità. Mentre mi si affastellavano questi pensieri, infilavo la tuta sopra al pigiama, il giaccone, il berretto e la sciarpa e con la pila in mano uscivo per le scale. Su e giù ma niente. “Lo sapevo: quella una volta uscita dalla porta era scesa di un piano-due, e non era più riuscita ad orientarsi. Magari qualche rumore l’ha spaventata…..ha trovato giù il portone lasciato aperto spalancato dal solito maleducato, ed è uscita.” Lei, lei uscita; con quella neve, in quella notte da lupi? - Non riuscivo ad immaginarla -. Dopo aver ispezionato tutti gli angoli del condominio, mi avventurai fuori dal cancello con la grossa torcia elettrica e chiamando sottovoce: Greta, Greta… andai seguendo un percorso che m’immaginavo avrebbe potuto fare trovandosi in un luogo aperto e mai visto prima ed essendo certo terrorizzata e in confusione. Niente. Dopo un’ora di ricerche al buio, di richiami per tutte le stradine vicino casa, dovetti tornare sui miei passi. Non racconto che notte fu a pensarla lì fuori, gelata, e spaurita a morte. “I gatti sono resistenti, se la cavano sempre, trovano rifugio”. Chi, quell’essere sempre appallottolato in mezzo alla coperta più morbida, o come Paolina Bonaparte, distesa lunga-lunga sul suo cuscino sopra il termosifone? Lei, con la neve, che quando per errore si bagnava una zampetta la scrollava e l’agitava per mezz’ora? Quella notte nevicò ancora. Prestissimo, appena chiaro, telefonai a mia figlia che già non abitava più con me, ed a un’amica che si disperò più di noi. Vennero subito ed insieme e per tutta la mattina scandagliammo giardini, cortiletti, le vie, il campo; chiedemmo a tutti se avessero visto una siamese: “Non devono poi essercene tante di siamesi in giro…vedrai mamma”. Allargammo le ricerche oltre la strada principale e guardammo pure ai lati….non si sa mai …. Ma no, non era andata così lontano. “Se resta fuori anche stanotte con questo freddo, certamente muore” mi dicevo. La mia amica, che l’aveva vista crescere e che le era molto affezionata, la dava di certo già per spacciata. “Non è possibile che resista così tanto fuori in questa stagione, è una gatta che è sempre stata abituata al caldo e poi, delicata com’è…”. Così, il giorno seguente, desistette nella speranza, mollò le ricerche e, vivendo già il lutto, si rintanò in casa. Io, dopo tre giorni, speravo ancora, magari anche nei tantissimi manifesti con la foto che fin da subito avevo attaccato a tutte le ringhiere, alle case e nei condomini della zona. Spogliarsi, mettersi il pigiama, lavarsi i denti e guardare fuori dalla finestra il campo innevato, il cielo terso e stellato e immaginare quell’esserino – era ancora vivo? – in qualche parte al buio, lì, ghiacciato, spaventato, affamato: era sentire palpabile dentro cos’è la pena. Come non pensarci? Come dormire? Mi sorprendevo per quella sofferenza. Provavo quel dolore per un gatto! “In fondo è un animale! Sì ci si affeziona, ma .. non esageriamo”. Così dicono spesso tante persone a modo. La separazione fra noi e loro c’è ma nella diversità, nella differenza non nell’amore che si prova. Passarono cinque giorni, i più freddi dell’anno, che un detto popolare chiama “i giorni della merla”. Quella mattina, dal mio bagno avevo appena dato un lungo sguardo fuori; la coltre bianca sul grande campo sembrava ancora più soffice e pannosa. Sotto, sorpresa dal freddo e piegata dalla neve, l’erba non si era arresa. Squillò il telefono e la voce di un ragazzo mi disse che chiamava il numero lasciato nella bacheca del suo condominio: ”Quelli che cercavano una gatta”. M’incollai la cornetta all’orecchio per capire chi, dove, come. Il suo cane doveva aver visto un gatto nascosto di là del muretto del giardino e lo stava puntando. Quando mi diede l’indirizzo, capii che mi telefonava dalla casa vicina. Volevo e non volevo illudermi. Concitatamente lo pregai di tener d’occhio il gatto fino al mio arrivo (se fosse stata davvero Greta, poteva scappare vedendo l’animale). Arrivai trafelata nel suo giardino. Il cane - lo sgorbietto nevrotico - fermo e con la coda dritta, mugolava e guaiva. Guardai attraverso la rete lì, dove puntava. Dal buio di un anfratto, un cespuglio d’erba sotto la neve, vidi le sue pupille allargate dalla paura. Quasi correndo, feci il giro delle nostre case per raggiungerla dentro il campo e quando, con timore e delicatezza, la raccolsi mi sorpresi nel sentire che la sua pelliccia e il suo corpicino erano caldi e morbidi. Quella provvidenziale grotta naturale doveva aver trattenuto il suo calore proteggendola così dal gelo durante i lunghi giorni e le notti passate all’addiaccio. Una volta scappata e trovato quel riparo non credo si fosse mai spostata da lì… Quante volte l’avevamo chiamata, c’ero passata vicino o ci avevo girato intorno…Lei non aveva risposto. Greta si riebbe da quell’esperienza in pochi giorni. All’inizio si muoveva per l’appartamento incerta e con le zampette un po’ rattrappite, ma il caldo ed il cibo la rimisero in forze e ritrovò ben presto tutte le sue vecchie e care abitudini. Fu una mattina, di lì a poco, mentre in terrazzino sistemavo il nailon protettivo alle piantine più delicate, che risentii l’abbaiare del solito cane. Stetti in ascolto:– in attesa che mi montasse di dentro anche la solita stizza per quell’odiato abbaiare. Ma la sensazione che mi prese fu stranamente diversa: io non l’odiavo più, non mi dava più fastidio. Ma, per davvero! Ascoltai ancora, – era sempre lo stesso latrare sgraziato – e allora, mi chiesi: “Com’è possibile?” Girandomi per poterlo vedere, sentivo invece che addirittura, sì, ora provavo simpatia, quasi tenerezza. Era come se dentro di me e a mia insaputa, fosse cambiata un’alchimia. Mi sentii confusa. Questa cosa mi sbalestrò. Non sapevo ancora il nome di quel cagnetto nero che mi aveva fatto ritrovare la gatta. Ma era stato lui, quello che non si lasciava scappare nulla, sempre di vedetta, che non mollava e voleva tenere tutto sotto controllo. In testa, con naturalezza, mi venne il nome Salvatore. Greta è morta da tanto. Morta di vecchiaia a quasi 20 anni di età. Ancora bellissima e con il suo sguardo immutato, sempre magnetico. Salvatore ha cambiato casa. Non lo vedo più aggirarsi nervosamente su e giù per il terrazzino. Non sento più il suo abbaiare particolare. Mi manca, mi manca per le cose che mi ricorda. E per quelle che mi ha fatto capire. |
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