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Luccia Danesin
o la fotografia come narrazione degli affetti
Enrico Gusella
“Se ho
incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare
è per avvertire del
pericolo che stiamo correndo di perdere
una facoltà umana fondamentale:
il
potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi,
di far scaturire colori e
forme dall’allineamento
di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di
pensare per immagini”.
Italo Calvino
“Noi
non udiamo quando la melodia divina viene sussurrata,
sentiamo solo quando
tace”.
Hans Carossa
“Andavo a trovare i miei
cari, a portare un fiore sulle loro tombe, a raccogliermi un momento per
salutarli, ritrovarli dentro di me. Erano giornate nebbiose dell’autunno
padovano, o giornate di sole splendente di primavera. Ed ecco l’”incontro”:
“vidi” per la prima volta – anche se conoscevo da lungo tempo quei gruppi
marmorei – visi scolpiti, statue di marmo che ornavano cappelle di famiglia e
che solo allora mi si rivelavano nella loro intensità”.
Narra
così Luccia Danesin il proprio incontro con i propri cari, storie di lunga
memoria, di qualcosa che non può cadere nell’oblio, perché proprio dell’uomo e
della gioia di vivere che lo caratterizzano ed è tale da imprimergli la forza
e la razionalità volte ad affrontare uno degli aspetti più complessi e
drammatici dell’esistenza: il rapporto con la morte.
Un
rapporto che Luccia Danesin ha vissuto, percepito e immortalato con lo sguardo
rivolto a quei segni, a quei frammenti ed oggetti che racchiudono e
rappresentano l’idea e le forme su cui la sua attenzione si è focalizzata: i
monumenti funerari.
Il
luogo deputato è il Camposanto di Padova, spazio di indagine e di una ricerca
nella quale si è “posato” l’occhio, il sentimento e la nostalgia della
fotografa padovana. Già nel passato le società facevano in modo che il
ricordo, sostituto della vita, fosse eterno e che almeno la cosa che esprimeva
la Morte fosse essa stessa immortale attraverso il Monumento(1) ma, con
l’avvento della fotografia il Monumento si è in parte sostituito al ruolo di
testimone naturale di ‘ciò che è stato’.
La
scultura e i monumenti funerari, soprattutto nel corso del Duecento assunsero
un ruolo di primo piano nel panorama delle arti plastiche e figurative. Gli
esempi in questa direzione sono molteplici: da Giovanni Pisano a Tino da
Camaino ad Arnolfo di Cambio, e testimoniano come per la committenza del tempo
il monumento funerario rappresentasse non solo un oggetto di culto di primaria
importanza ma, anche, un segno di grande riconoscenza.
La
sapiente composizione di elementi plastici e architettonici, era una delle
caratteristiche più note dei primi monumenti funerari, soprattutto per quanto
riguarda la produzione artistica di Arnolfo di Cambio come testimoniano i
monumenti al Cardinal Annibaldi, ad Adriano V nella Chiesa di San Francesco a
Viterbo, o del cardinale De Braye nella Chiesa di San Domenico ad Orvieto. Ma
anche l’opera di Tino da Camaino artista senese formatosi alla scuola di
Giovanni Pisano, o di altri celebri artisti del Quattrocento come Bernardo e
Antonio Rossellino sono sicuramente esemplificativi di una cultura figurativa
che sul tema del monumento funerario ha espresso, anche nel corso del
Novecento, alti livelli di tecnica e progettualità artistica, come nel caso di
Leonardo Bistolfi.
Proprio in questo senso, allora, l’opera di Luccia Danesin risulta essere di
particolare interesse, in quanto l’aver coniugato la scultura funeraria con la
fotografia o, meglio ancora, l’aver fotografato i monumenti funerari è, in
qualche modo, segno e indice non solo del luogo e del ricordo ma, soprattutto,
della rappresentazione del rapporto con la morte che accompagna la vita di
ogni individuo.
La
fotografia, del resto, come hanno ben fatto emergere Susan Sontag e Roland
Barthes, ha legami profondi e con la nostalgia e con la morte. La fotografia
come arte elegiaca, crespucolare, ma soprattutto come pratica significa
partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di
un’altra persona o di un’altra cosa. E’ così che isolando un determinato
momento e congelandolo, le fotografie attestano l’inesorabile azione
dissolvente del tempo. Come ricorda Roland Barthes, “…bisogna pure che in una
società, la Morte abbia una sua collocazione; se essa non è più (o è meno)
nella sfera della religione, allora dev’essere altrove: forse nell’immagine
che produce la Morte volendo conservare la vita. Contemporanea della
regressione dei riti, la Fotografia potrebbe forse corrispondere
all’irruzione, nella nostra società moderna, di una Morte asimbolica, al di
fuori della religione, al di fuori del rituale: una specie di repentino tuffo
nella Morte letterale. La Vita/la Morte:
il paradigma si riduce a un semplice scatto: quello che separa la posa
iniziale dal rettangolo di carta finale”. (2)
E se
la fotografia, da un lato, può essere una testimonianza sicura, ma effimera,
dall’altro, invece, prepara la nostra specie a un’impotenza: il non poter più
concepire, affettivamente o simbolicamente, la
durata. Non è casuale, del resto,
che dalla stessa visione di una foto che ingiallisce o scolorisce, scaturisca
nell’individuo la necessità di ri-collegarsi alla vita e, soprattutto,
all’amore. Sì, è l’amore per i propri cari, il loro ricordo, che spinge Luccia
Danesin a tornare nel luogo della rimembranza e delle nostalgie di
tarkovskijana memoria, per trovare ancora un momento, ancora l’istante per
raccontare nel tempo, le storie e la storia, l’affetto e la passione,
l’appartenenza e la comprensione. E comprendere le linee plastico-figurative
di cui le fotografie rappresentano l’altra concreta interpretazione
esistenziale, significa risalire alle fonti dell’esperienza quale forma entro
cui ricostruire, per frammenti, il senso primo di un legame, il significato
prossimo alla partecipazione, a un’assenza che diventa presenza, o la
necessità dell’individuo a ricreare i momenti del proprio tempo, la dimensione
spazio-temporale che lo ha accompagnato per l’intera sua esistenza.
Ma la
relazione della fotografia con la morte si manifesta anche attraverso le
immagini, che seguono o rincorrono lo scorrere del tempo, il modo in cui si
invecchia, in cui il tempo passa. La fotografia, così, mostra persone che sono
irrefutabilmente lì e a un’età specifica della loro vita e raggruppano cose
che un attimo dopo si sono già disperse, sono cambiate e hanno continuato a
seguire i loro singoli destini. Per ogni osservatore, tutti i volti delle
stereotipate fotografie messe sotto vetro e inchiodate sulle lapidi tombali
dei cimiteri sembrano contenere un presagio della propria morte. E se Luccia
Danesin ha saputo andare oltre la stereotipia fotografica cercando invece nei
volti di angeli e donne, suggestive espressioni di dolcezza, tenerezza e
malinconia, è perché ha inteso dare un senso nuovo e diverso della dimensione
affettiva e personale dell’uomo e della donna, è perché ha inteso ricollegare
la propria con l’altrui esperienza, e perché la stessa immagine fotografica
può diventare un altro motivo della conoscenza, di elaborazione della propria
esperienza. Proprio in questo senso, allora, dal rapporto fra l’esperienza
della morte e la pratica fotografica, emerge un’altra problematica: il “lavoro
del lutto”, o la lenta storia dell’oblio che conduce all’abolizione del dolore
attraverso un lungo “lavoro” di elaborazione della propria esperienza.
L’essenziale condizione del “lavoro del lutto” consiste nel disinvestire la
libido che si era fissata su di una persona ormai scomparsa; significa vincere
la fissazione del desiderio, riconoscendo le esigenze ineluttabili della
realtà. La fotografia ovviamente non basta all’elaborazione del lutto, ma
svolge certamente un ruolo significativo nel consentire alla persona cara di
vivere ormai nel ricordo che è forse l’unica maniera di razionalizzare la
morte, cioè di continuare a vivere. E così è per Luccia Danesin, che investe
uno dei territori più complessi e delicati della persona: la sfera affettiva.
La sfera dei propri cari, delle persone che vivono nel cuore e nella mente, e
che rappresentano una parte importante e significativa della propria
esistenza. Le immagini, nel contesto architettonico e plastico del Camposanto
di Padova, sono, non casualmente, il segno e il simbolo di un carattere e di
una conoscenza: la testimonianza e l’indice di un senso di appartenenza. Non
sono solo “soglie” (3), limite e dicotomia, ma condizione entro la quale
sospendere una posizione, forma dentro cui sviluppare un altro percorso di
vita, la riflessione oltre uno spazio, l’impressione che, per un momento, sia
ancora possibile ricostruire l’esperienza, l’oggetto perduto, frutto ora del
dolore e della sofferenza. Così la fotografia, in tutta la sua forza simbolica
e materiale, riesce a far rivivere, anche per poco, almeno nell’immaginario
individuale, una presenza, l’essere ora, in quel momento, partecipe della
costruzione di un’idea, della visione spazio-temporale che ritorna e stimola
la ripresa di un’emozione, il senso di un percorso interrotto. Sì, proprio
come sentieri interrotti la dimensione fotografica ricostruisce via via linee
e forme dell’esperienza individuale, ri-solleva il carattere drammatico
dell’abbandono, riportandolo all’interno di un’altra condizione: il ricordo,
che per Luccia Danesin diviene il pre-testo del racconto, il sistema narrativo
entro il quale si raccolgono i frammenti del tempo, i rapporti che possono
aver determinato la passione, l’amore e la sofferenza, il rifiuto o
l’appartenenza ma, anche, la consapevolezza di una crescita, uno sviluppo
interiore e personale.
Raccontare le “soglie”, allora, diventa il modo per raccontare le tante storie
che ruotano intorno a noi, vuol dire rappresentare le forme della vita,
un’assenza che assume identità, configurazione, forma ma, anche, tensione;
significa ricostruire per immagini le memorie personali che, a loro volta,
tornano ad essere patrimonio di un percorso, esemplificazione del racconto o
strumento dell’elaborazione, la necessità di non-interrompere o non sospendere
un rapporto che, piuttosto, cerca di escludere o allontanare la sofferenza e
il rimpianto.
Così è
per la fotografia, strumento che organizza attivamente la temporalità, e il
cui possibile ritorno al passato si sviluppa sulla modalità della
contemplazione nostalgica. Le immagini di Luccia Danesin, le sue “sculture
–fotografiche”, putti o angeli scrostati, volti segnati da cui si dipanano
suggestive e poetiche ragnatele che sembrano tessere l’intreccio e l’ordine
del discorso, diventano i compagni di un viaggio, per una dimensione scoperta
e al tempo stesso aperta alla stesura di un percorso, alla rappresentazione di
una scena su cui i tanti, tantissimi “attori” si sono cimentati per portare a
compimento la loro parte, la consegna di un ruolo che, forse, pochi dubbi
lascia trasparire, se non la certezza di recuperare, domani, il tempo e
l’affetto, il ricordo e l’amore.
Così
la soglia o, meglio, le soglie tra la vita e la morte ci spingono a
considerare il nostro senso di esistere, la nostra idea di vivere lontani
dalle rimozioni ma, vicini, alle emozioni, soprattutto a quelle che, impresse
su di una pellicola magari sbiadita, restano nel tempo, conservano la storia e
la memoria, facendo rivivere il nostro passato e un presente: la gioia di
esistere oltre la morte!
1.
R.Barthes, La camera chiara,
Torino, Einaudi, 2003 p. 93.
2.
cit. p.94.
3.
La nozione di soglia è l’esempio tipico di un concetto antico che ritrova oggi
un’importanza fondamentale dopo essere stato ridotto per lungo tempo dalla
scienza moderna a uno status puramente fenomenologico. La nozione di soglia è
legata anzitutto alle nozioni di qualitativo e quantitativo. Viene superata
una soglia quando la variazione di un fattore – (…) – produce improvvisamente
un effetto globale nuovo e smisurato. Nel linguaggio popolare abbondano le
testimonianze che dimostrano la consapevolezza dell’esistenza delle soglie: la
parola di troppo, la goccia che fa traboccare il vaso, il punto di
non-ritorno. Anche nei miti si trovano riflesse delle soglie, il luogo da cui
l’eroe esce trasfigurato , il punto di passaggio che insieme separa e unisce
due spazi. (…) Sia le arti sia la conoscenza si sono da tempo occupati delle
soglie; ma individuarle è compito difficile, che investe uno spazio
strutturato implicitamente o esplicitamente , dalla convenzione e dalla
decisione. E’ questo dunque il nodo che sottende non poche opposizioni
concettuali: equilibrio/squilibrio, stabilità/instabilità, ordine/disordine ma
anche normale/anormale o vita/morte. in I.
Prigogine – I. Stengers, Soglia,
in Enciclopedia, XIII, Torino,
Einaudi, 1981, pp.78-93.
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