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La poesia tra ribellione e acquietamento

Mario Santoro

Il percorso poetico di Giovanni Di Lena si apre con la plaquette Un giorno di libertà che risale al 1989 e che evidenzia una certa vis polemica e, nella immediatezza, una presa di posizione decisa quanto mai coraggiosa che vede l'autore ripetutamente schierato con i deboli, gli esclusi, gli emarginati, i poveri, i diseredati quelli che non hanno nessuno alle spalle, o nelle vicinanza. Si tratta quindi di persone che sono costrette a vivere nell'indifferenza generale per colpa di un a società, malata di post moderno.

E appare subiti che si tratta di una posizione scomoda, se non addirittura don chisciottesca nella pretesa di una difesa ad oltranza e nell'illusione di poter tracciare una qualche linea di speranza, di rovesciamento della situazione malgrado tutto. In realtà la rabbia contro i padroni, i prepotenti, i prevaricatori, forse, è finanche troppo marcata ed evidente nel ricorso ad un linguaggio realistico e, talora, crudo così come, per contrasto appare la proposta di una via d'uscita, attraverso una sorta di ritorno ad una dimensione più giusta dell'esistenza, e piuttosto velleitario il rifugio nelle piccole cose quotidiane, nella vita dei campi, nelle sere tranquille, nelle notti serene; elementi questi che hanno il potere magico di sedare l'animo del poeta, di renderlo tranquillo, di restituirgli le condizioni per vivere in pace con se stesso.

E cosi Daniele Giancane, se da un lato, in prefazione sottolinea il coraggio dell'autore che "sembra immettersi in quel filone inaugurato da Villon e Cecco Angiolieri, reso famoso nei tempi a noi vicini da Bukowskj e Céline, sino a giungere ad una irresistibile volontà di ribellione, di scontro aperto che poi, però, a volte si scioglie e si reprime negli affetti della vita; l'amicizia, l'amore", dall'altro lo stesso critico dichiara che si tratta di "un grido di rimpianto e di dolore che dovrebbe tutti farci riflettere, oltre i falsi perbenismi e i nostri paraventi sociali e culturali". Queste due posizioni sembrano costituire i poli di riferimento della poesia di Di Lena.

Il volume, pur diviso in tre sezioni, "Il Sapore Della Terra", "Certo Momenti", "Cob Rabbia e Con Passione", in realtà presenta carattere di continuità ed omogeneità e ricorre ad una modulazione lineare e chiara nella brevità e sinteticità espressiva e nella direttività dell'espressione:

"Io qui mi ritrovo!
Nella mia terra sconfinata,
con questa gente amorosa
che cura le cose semplici,
io vivo bene!"

oppure altrove si può leggere:

"Hai negli occhi la rabbia di un popolo.

Hai il cuore come una capanna che
accoglie la furia umana…"

I temi si snodano così tra nostalgie, ricordi, ritorni al passato, dichiarazioni d'amore per la sua terra, attaccamento ai valori, desiderio di giustizia:

"Tornerò in mezzo a voi
fratelli
e convoli combatterò
il tempo che ci hanno fatto aspettare
combatterò l'ingiustizia del sud…"

Proprio il Sud torna insistente nell'autore, soprattutto nella prima parte, con le sue lacerazioni, i suoi propositi, che a tratti sfiorano il velleitario, i suoi antichi problemi, ma anche certe sue sicurezze, i richiami al passato e i rimandi. Poi la poesia cambia tematica e si esprime per flash, appoggiandosi ad elementi della natura, ad affetti e ad emozioni, a momenti palpitanti e come scaturito dal nulla, o almeno improvvisamente:

"Le stelle d'estate
esalano l'anima
degli innamorati",

oppure:

Solenne notte,
dolce amica di un animo inquieto…"

o ancora:

"Le luci del tramonto dolcemente s'affusano
viene la sera canticchiando".

E ci pare abbia ragione Filomena Cancellaro quando scrive: "Il suo linguaggio è discorsivo e semplice; è quello di una persona che scrive sotto una spinta interiore fortissima. Dettate da sensazioni tutte vissute intensamente, con grande sensibilità, le sue parole descrivono un modo efficace la realtà giovanile del Sud; trovano occasione di intenso lirismo quando propongono valori profondi e semplici come una possibilità di salvezza contrapposta alla disperazione e alla rassegnazione".

E, se Donato Notarangelo parla del libro come di "Ottanta pagine di umanità sconfitta", Giacinto Ruzzi sottolinea: "Attento alle tematiche della vita, il poeta non si impelaga in universi immaginari o in chiusure ermetiche e artifici sperimentali, ma si muove fra i solchi del cuore e della terra in un tempo di prova con la fede, con desiderio tutto umano, pronto a cogliere in sé, nell'isola delle giovani leve del lavoro manuale e intellettuale e nell'umile contadino del Sud, pellegrino del tempo in 'sudici panni', un nuovo equilibrio di vita fra uomo e l'uomo, l'umanità e l'Infinito".

Più sinceramente Pietro Tamburano vede nella poesia di Di Lena "sfogo e lamento ma anche irriducibile anelito, instancabile ricerca di valori esistenziali da amare…"

La seconda pubblicazione è Non si schiara il cielo che può considerarsi una sorta di continuazione del discorso avviato nel volume precedente, solo che qui cambia il tono e i sentimenti di rabbia e i moti di ribellione sembrano cedere il posto ad una specie di acquiescenza, di riflessione, non dico stanca ma certamente pacata, di ricerca dei sentimenti nell'accettazione quasi dello stasus quo e nella sottesa consapevolezza della sua inamovibilità:

"Rocco,
non è cambiato niente:
i fiumi scorrono lenti nel mare del silenzio"

Il richiamo a Rocco Scotellaro è sintomatico ma non ha, mi sembra, altri riferimenti ed agganci, se non questa sensazione di rassegnazione che scivola quasi per un senso di fatalismo che, paradossalmente sembra lenire anche le rabbie e il malcontento, altrove dichiarati. Le poesie risultano sempre, o generalmente brevi, quasi il poeta sia incapace di reggere a lungo la tensione emotiva, o non abbia voglia di indugiare oltre, di fermare il respiro, di ripensare e di lasciare sedimentare le emozioni e le sensazioni. E così si può notare una sola immagine, un pensiero, un contrasto e subito, senza che il lettore abbia il tempo di assorbire la comunicazione e le inferenze da essa sottesa, il poeta propone la chiusa più o meno tagliente ed immediata.

Nei versi non dico che prevale la tendenza al denotativo ed al referenziale, ma è certo che le connotazioni, quando appaiono, risultano abbozzate e legate a questa o a quella espressione o addirittura al singolo termine. Anche certe dichiarazioni, per scelta consapevole dell'autore, risultano, forse, troppo aperte:

"Io sono con voi,
negri.
Tutto di voi mi appartiene".

Quando poi la poesia tende a farsi lunga e distesa, raramente sfiora il senso dell'orizzontalizzazione, a volte al poeta capita di ricorrere alla ripetizione insistente, anche per enfatizzare certe situazioni come in "Pisticci nella luna", oppure è facile ritrovarlo a muoversi nell'immenso serbatoio della memoria che addolcisce i ricordi e li ripropone morbidi ed accettabili se non sempre gradevoli:

"Era festa per noi
con le ginocchia insanguinate,
calzoni rattoppati, scarpe rotte,
il quindici di agosto.
Con la muta nuova,
il viso pulito,
anche noi ridevamo
con il gelato fra le dita.
E non ci accorgevamo
dell'umile sudore che grondava
sulla pelle dei nostri padri".

E il richiamo al padre, già presente nella prima pubblicazione, qui si fa più insistente e direi anche delicato e sincero, nella tenerezza della rievocazione soprattutto dal momento che l'uomo, punto di riferimento e guida, ora non c'è più:

"Non troviamo parole
gesti
sentimenti
che possano colmare
il tuo vuoto,
padre.

Siamo rimasti
silenziosi
con le braccia penzoloni,
svuotati…"

Ancora una volta la poesia si sviluppa su pochi elementi di riferimento e si ammanta di un'atmosfera strana e particolare nella quale prende il sopravvento il senso della sorpresa e del conseguente vuoto intorno, per la morte del padre, inaspettata e improvvisa e tutte le sensazioni di sofferenza e di dolore sono taciute e consegnate allo smarrimento e al silenzio, quello che, in certe situazioni, davvero finisce per togliere la parola.

Non a caso Rosa Maria Fusco, in prefazione, scrive: "Smorzata la furia iconoclastica del primo volume, restano le fedeltà di fondo. I referenti sono quelli di ieri (gli amici d'infanzia, gli axtracomunitari, i compagni di lavoro, gli amori, trattati con pudore estremo) e un ritrovato sentimento del padre; un padre vecchio che, vinta ogni collera, 'naviga stanco' dolce nel suo delirio; un padre cui già Di Lena si rivolgeva nella sua prima raccolta in quell'accorata dichiarazione d'identità:

"Oh! Non mi dire,
la guerra, la fame, la miseria,
lo sai che mi ferisci.

Oh! non fare
quello sguardo pieno d'ira,
neanch'io vivo bene
in quest'epoca…
mi sono trovato ed ho contribuito!"

La terza plaquette ha per titolo Il morso della ragione e si apre con un'immagine del Sud consegnato alla solitudine, all'abbandono, alla difesa estrema dell'unica cosa che resta e cioè di un pezzo di terra avara e dura da lavorare. Lo sgomento sembra totale e finanche il sole, nella immaginazione del poeta, sembra perdere le sue connotazioni:

"Il sole non è tondo
nel nostro mezzogiorno
iridato di scempio.

Per sempre sul nostro corpo
i segni
della nostra disfatta…"

E già questa apertura ci dà il senso delle tematiche che sono trattate dall'autore con sempre presente il morso, forse anche rimorso o, per altre vie, rimozione, della ragione. Certo è che tornano abbondanti e continui riferimenti antichi e nuovi, amarezze lontane e sconforti atavici, sfide sociali non più proponibili e credibili, perpetui sensi di sconfitte e di abbandoni, vuoti intorno, nella mancanza di uomini che contano e, infine, il peso di un destino che incombe presente e definitivo. Destino che, a tratti, manifesta i suoi segni come nella poesia "Ad Aldo Moro", oppure "Piazza bolina" e tante altre ancora.

L'alternanza dei temi è motivo continuo e ricorrente nell'autore che passa sovente da una situazione all'altra attraverso contrasti anche evidenti, tanto che la linea della contastività contenutistica può essere assunta come filo conduttore in tutte le pubblicazioni e quindi come nota dominante.
E così è facile ritrovare dopo i versi dedicati allo statista Aldo Moro:

"Le tue ceneri
si disperderanno
negli anfratti dell'incoscienza
con meschinità
affossate dai mercanti della storia",

quelli descrittivo-introspettivi della natura:

"Oltre i monti
si nascondono dei sentimenti
le virtù.

Sui colli
la vita si perde.

Nella valle
con la tua ombra
tutt'uno sei",

per chiudere, ma sempre di chiusura provvisoria si tratta, con la dedica all'amico Angelo nella comune condizione di isolati:

"Siamo rimasti in pochi
ad essere soli".

Oppure con il ricordo dolce amaro di Rocco Scotellaro:

"Calpesto i tuoi passi.

Fra la tua gente
sbircio l'ombra
del tuo ricordo.

Sobrio
m'illudo
d'averti accanto"

Seguono poi "Ideali perduti", "Calanchi", "Bla bla bla" e "Tra pietre arse" e sempre aleggia e domina il sensoprofondo, malinconico, amaro della solitudine che risulta essere percorso interiore e quindi profonda e scolpita nella mente e nel cuore:

"Un buco nel cuore
ingoia le mie ansie.

Morirò di solitudine".

Dunque non ci sono vie d'uscita o almeno non sembrano essercene, anche se a ben guardare qualche spiraglio, qua e là compare in maniera più o meno velata. Intanto seguono altri temi sempre nella riproposizione alternata e con spunti, a tratti, di sentenziosità decisa, di beffa in agguato, di percolo incombente e, in una parola, di tristezza o, se si vuole, di scontentezza e quasi di diniego e di rifiuto:

"Timida
la valigia dei miei amori.

Greve
il baule dei miei pensieri.

Caldo
il deposito dei miei sogni",

La crisi del poeta è evidente ed è crisi non specifica ma generica e diffusa, difficile nell'ipotetica indicazione delle cause, sicché anche le parole risultano misurate, limitate come scarni appaiono i versi e le espressioni.

Ci pare abbia ragione Antonio Lotierzo che in prefazione scrive: " I pensieri di Di Lena sono il correlativo d'una struttura sociale che ancora appare aperta al rischio, funanbolicamente oscillante fra mito e ragione, storia e barbarie, razionalità e caoticità. E questa crisi di Di Lena riesce ad esprimere in immagini, piene di lampi e di connessioni rapide, effervescenti,slanciate per il dolore, riavvitate sul rimorso, ma pure cariche di magnesio di una ironia, che stempera la sofferenza e consente di superare i morsi, fino a giungere alla riva più sicura della ragione".

E passiamo al quarto, e per ora ultimo, lavoro di Giovanni Di Lena: Coraggio e debolezza. Apriamo il riferimento alla plaquette con un richiamo di Giovanni Modugno, il predatore: "Il poeta rifugge da uno stile aulico e alto, mira a toni naturalistici e discorsivi, predilige un lessico quotidiano, accessibile, parole semplici che rispettano quasi sempre l'ordine della frase e che il poeta carica di significati profondi. Parole liberate dalla punteggiatura, isolate tra pause dai nessi sintattici. Sono evocate emozioni attraverso le descrizioni di fatti e oggetti del mondo reale. Il mondo in cui noi viviamo è il mondo dell'apparire e del non essere, de vuoto, del nulla…Le sue poesie sono canti brevi, intimi e vitali, una voce del nostro tempo e del nostro spazio. Ascoltare la sua voce è facile, sentirla e comprenderla anche. Le liriche assumono un aspetto calmo, lento, creano una sorta di equilibrio dopo sensazioni di dolore, affanno, angoscia".

In effetti anche in questa raccolta di poesie, la sofferenza sembra essere dominante e il filo conduttore può essere un desolato senso di solitudine e di abbandono del poeta che, tuttavia, ha la consapevolezza della sua condizione di perdente. Destinato alla sofferenza e, in ultima analisi, a soccombere, proprio come un fringuello che cadrà per mano di un cacciatore ma con la fortuna dell'inconsapevolezza.:

"Come un fringuello
me ne andrò nel cielo
conscio
di incontrare
la mano perfida
del cacciatore".

Ed è proprio il senso della consapevolezza che fa la differenza e genera il dolore. Ma la condizione di sofferenza, di abbandono, di solitudine non è solo un fatto individuale perché riguarda anche tanti altri come sembra indicare il poeta nel passaggio dall'io al noi prima, e poi nel ricorso ad un indeterminato pronome che segna la situazione di isolamento:

"Ognuno e solo
nel suo tratto di vita".

Il richiamo agli autori del primo Novecento, e ad Ungaretti anzitutto, è finanche evidente e non solo sul piano tematico-contenutistico, ma anche nel riferimento più generico a quel "male di vivere" che ha interessato quasi tutti con sfumature diverse.
Segue, necessariamente, in un mondo confuso e disordinato, destinato soprattutto all'infelicità dei suoi abitanti, la ricerca affannosa della verità che il poeta ritrova,fatalmente nei diseredati:

"La verità del nostro tempo
la trovi nello sguardo atroce
di un disoccupato
nella spavalderia dei ricchi
nei suicidi inspiegabili
nelle parole che non si dicono".

E, se le cose stanno così, le conseguenze sono facilmente immaginabili: ci sono urli, sciacalli in poltrona,mummie silenziose, ma anche euforie bandite, spiagge desolate e piazze con "facce ridicole", cani sciolti e operai. Poi, nella seconda parte, quasi un'eccezione o un miracolo, la poesia si apre con un tono delicato e dolce e con un senso di sospensione dell'anima:

"Porta negli occhi
gli affanni della vita
mia madre.
La sera
sgomenta di stanchezza
si raccoglie a sé
leva le mani sul viso segnato
e sprofonda
ansiosa
in un sonno…

Mi piacerebbe rubarle
nel sonno
un suo sogno
e renderla felice".

Dunque il poeta sembra cedere ai sentimenti delicati e agli affetti familiari ( altrove c'è più volte il rimando al padre e al fratello), alla figura della madre massaia, alla donna che solo negli occhi, a guardarli bene, porta i segni degli affanni della vita. Delicato appare il desiderio del poeta di rubarle, ma sono nel sonno perché nella realtà sarebbe impossibile, un sogno e, di conseguenza, renderla felice. E alla delicatezza, anche nel tono e nella timbricità ritmica, dei sentimenti verso la madre segue quella più ampia e fragrante del pane appena sfornato che testimonia una sensazione profonda di gioia e di apagamento consegnata alle meraviglie della sera:

"Nasce il giorno
col profumo silenzioso
del pane appena sfornato.

La notte
è maestosa
dormono tutti".

Tutto questo sembra dover condurre ad una linea finanche di ottimismo e di fiducia, come se l'autore, per un attimo almeno, sia capace di rimuovere le tristezze del passato e le contraddizioni, forti e stridenti del presente, ma no è così tanto che subito dopo, passato il momento di meraviglia e di incanto egli torna al suo carico di sofferenze che spinge. Talvolta, alla finzione per poter sopravvivere:

"Si finge
per non essere.

Così è la vita
una fantastica espressione
di quello che non si è"

E allora il poeta ricade nei temi consueti, nelle mancanze più o meno evidenti, nella sfiducia, nell'inganno, nella malinconia, nella paura finanche di amare e di essere amato che lo costringe a lasciare sola la donna oggetto d'amore:

"Domani ti lascio. Ti lascio
alla tua meticolosità
alle tue paure
all'alba che ho sognato
a quel giorno senza fine
che non ho trovato".

Ma per fortuna tutto questo accadrà domani. Domani e no oggi e, non è detto che accada davvero!

Consiglio regionale della Basilicata

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