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Prefazione a
Non si schiara il cielo
Rosa Maria Fusco
Fortemente attiva, in uno slancio fin troppo progettuale e
dichiarato (letterariamente impoetico) la prima raccolta di Giovanni Di Lena (Un
giorno di Iibertà, La Vallisa, Bari, 1989) rispecchiava, come ebbi modo di
scrivere a suo tempo, «il disagio e le attese di un lucano che non si adatta e
non si amalgama, nonostante la consapevolezza della propria impotenza» e non
esitavo, se le appartenze hanno ancora un senso, a definirlo epigono di
Scotellaro.
Non si schiara il cielo è il verso emblematico che dà il
titolo a questa nuova silloge in cui la rabbia di Di Lena si è lentamente
smorzata e lascia il posto a una malinconia nutrita di qualche recupero
familiare e amicale, dell'innocenza di un bambino, di desolate constatazioni
circa le opportunità perse (Sfogliammo molti libri | ma...) e l'omologazione in
agguato (Forse | un giorno anch'io | diventerò qualunquista).
Divisa in tre sezioni (Dimenticati, Memoria, Ti parlo mentre
nasce il sole) questa nuova silloge riconferma complessivamente l'impianto
della prima, se non fosse per un tono più crepuscolare, di parole sempre più a
voce bassa.
Conosco Giovanni e so quanto per lui (studente, disoccupato,
militare, metalmeccanico, contadino, impiegato) la parola sia di per sè
strumento e percorso di liberazione e di come egli, cauto figlio di una terra di
"caute effusioni", la gestisca in concreto come ponte verso gli altri, come
spazio di verità, come "dono" anche, che gli uomini devono agli uomini, per
riconoscersi tali.
Forse è per questo che la scrittura di Di Lena mi disarma;
non che non ne colga le ingenuità, il laboratorio acerbo, semplicemente mi
dispone all'ascolto; gli strumenti critici (di me, mio malgrado, lettrice di
professione) si fanno inadeguati; mi è successo
di fronte a certi versi di Di Ciaula, ai ciclostilati che Ferruccio Brugnaro mi
inviava da Porto Marghera.
Smorzata la furia iconoclasta del primo volume, restano le
fedeltà di fondo. I referenti sono quelli di ieri (gli amici d'infanzia, gli
extracomunitari, i compagni di lavoro, gli amori, trattati con pudore estremo) e
un ritrovato sentimento del padre; un padre vecchio che, vinta ogni collera,
"naviga stanco" dolce nel suo delirio; un padre cui già Di Lena si rivolgeva
nella sua prima raccolta in quell'accorata dichiarazione d'identità:
Oh! non mi dire,
la guerra, la fame, la miseria,
lo sai che mi ferisci.
Oh! non fare
quello sguardo pieno d'ira,
neanch'io vivo bene
in quest 'epoca...
mi sono trovato ed ho contribuito!
E più in là, nello stesso testo, ancora emigrante,
esprimeva, altrettanto accorato, il desiderio del ritorno alla vita dei campi,
di cui tutt'oggi non gli sfuggono i valori: Voglio aria e profumo d'allegria.
Ma ritrovare la propria terra, la propria patria non è di per
se' un passaporto per la felicità ne' quest'amore è acritico se Di Lena può
scrivere – con un sorriso a denti stretti
– una filastrocca, una tiritera, a
Pisticci sulla luna.
Deluso dal vento del Nord, il Sud ritrovato non gli ha
portato ebbrezze, solo un pacato, non rassegnato, circoscrivere i propri
limiti, pur nella "voglia smaniosa | di far
| ciò che il buon costume | non ci
concede". E tuttavia mai dietro il proprio padrone.
E da questa collera vinta che scaturisce il pianto, sommesso
come la pioggia nella poesia dedicata alla madre e altre albe allora schiarano
il cielo fino all'abbacinio che azzera l'orizzonte, fino al
crepuscolo che perde l'orgoglio mentre altrove prosegue la farsa perpetua di un
mondo "soverchio di civetterie".
In questa caduta d'orgoglio è il taglio adulto di questa
raccolta; nell'autocritica, neanche velata, di quel metaforico distratto
sfogliare di libri (donne!?) che lo scaffale della memoria restituisce più con
rimprovero che con rimpianto:
La nostra infelicità
è riposta lì,
dove la leggererzza di un attimo
ci ha eluso la felicità.
Povera di artifici, ma non priva di icastiche, –
luminosissime – asserzioni, la poesia di Giovanni Di Lena s'inserisce allora,
se non all'interno di un discorso letterario, senz'altro all'interno d'una
storia sociale e culturale di cui egli è figlio, voce e protagonista; con
intatta la fiducia nella parola come specifico umano; una parola liberatoria e
rivelatoria (che non a caso si lega all'alba, al sole che nasce), epifaniaca.
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autore |
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