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Presentazione a
I giorni

Domenico Cara

Etica delle passioni (e sue istanze, isterie, oscuro erbario)

Sul de profundis dei giorni.
L’infinito (poetico) di Angelo Di Mario riattiva costantemente una propria pretestuale irrealtà, ritorna all’ombelico del mondo, funziona come fantasia (poematica), misura l’amore per le metamorfosi e la disponibilità all’intreccio (narrativo e descrittivo) degli eventi ancestrali e remoti, su un’inesauribilità imparata giorno dopo giorno (il “giorno” è un topos dinoccolato e riflessivo che riaccetta la fiaba e il tumulto individuale), anche attraverso la multilinearità della sua scrittura di prima (1959) e di adesso (1987).

Dall’insieme l’atmosfera del sé espone una connaturale testimonianza dell’emozione sospinta oltre un organico conflitto di segni, e riemergente su strutture tematiche le più varie e pulsanti: la foglia e la memoria, l’orologio e la nudità, l’equilibrio e il germoglio, l’eterno e la quiete, la pietra e la rosa, il diavolo e il camalente, la mannaia e l’istinto, il cristallo e la nuvola, la terra e il vento, il deserto e un equipaggio, l’acqua e la passione, la donna e lo sguardo, la luna e il giallo, la notte e la canzone, il varco e l’orizzonte, il papavero e la radice, e con essi una cospicua voluttà di rapporti mentali, visualistici, direi scenici della parola, qua e là una filigrana “ispirativa”, in altri punti (di contatto) fluenza della vita umana che nel poeta trasmigra, si assesta, o si altera, si dispiega, si muove tra il recupero di paradigmi, proprio della liricità, e un messaggio strumentale di istituzione del profondo o, meglio, della dinamica della (s)oggettività possibile, mai segreta, né imprevedibile, o da escludersi nel dettato degli anni arsi!

La sua vicenda aggregativa non è mai dissipabile, le ragioni della fantasia non si separano da ciò che il modello reale accoglie e – comunque – non si tratta di un profeta infallibile, sebbene la materia ceda facilmente al riscatto di se stessa come continuum sperimentale, trascrizione di maschera, colore della metafora e uso in parte mutilo.

Tutto s’iscrive nel clima del vissuto, riesplorato, non direi attraverso i traumi del sistema, ma una civile e automatica spontaneità, in connessione con la paranoia del potere (la sua dialettica del non) e di quel fiancheggiamento tutt’altro che gratuito di plasticità dell’immagine del siamo, non siamo, di cui è intrisa la situazione umana (e non soltanto poetica) di tutto il Novecento, internato dai fatti storici in una buia notte della continua ed ossessiva riscoperta, e di quell’ansare ritmico, cardiovascolare della espressività, secondo gli accadimenti, le dis/obbedienze, le usure di pazienza, le occulte o aperte autodistruzioni.

Gli effetti materici hanno il massimo di elocuzione, gesticolano nella lucentezza alquanto spettacolare, in cui il male non si rovescia sul vuoto e – spesso – persiste, e in un nihilismo rozzo e passivo, dal vivo dei contesti diversi e dalle estreme e folgoranti (e sia pur occulte) tensioni.

La ricorrenza dell’ebbrezza.
Così l’immaginazione occupa il vissuto (e il sopravvivente), si libera dei propri tragitti su corruttibili parole, spazi disegnati nella strofe, sensazioni costruttive a movente Apollinaire; su certe rigidità di sintagma a uniformità tolemaica, senza passione per il Sublime e senza lettura di pessimismo, ma indagando il Tempo della quotidiana rinascenza, le tautologie sorprese in uno stato di plurima distillazione (anche grafica), penetrando il provvisorio, riempiendo di ritmi le ulteriori possibilità del “canto”, manifestando peculiarmente contro la minaccia alla vita di ognuno di noi e della sua frequenza ossidabilità: “le strade sono lunghi echi | dove scorre sudore a grani | dove le trombe della luce | annientano la voce dei respiri, | dove la cicala si spacca di sete e la nuvola sbianca, | dove i desideri piantano àncore | che subito tutti calpestano, | dove cresce l’arida fame | d’incontrare qualche uomo, | dove l’amore a testa bassa | si guarda le nude natiche; | dove si cerca un altro dove”.

E, nella serie di interrogativi, nulla ancora si domina sia che la prova diventi familiare, sia che l’ingegno riporti in strette terroristiche la maschera della comunicazione ad ogni altra ambiguità pretestuale, su messinscena amara o su divertiti emblemi di un rappresentabile, ed eterno carnevale della società difforme.

La poesia non ha bisogno di codeste dionisiache determinazioni dello scriba fuggente, o nascosto in limbi segreti e tristi del conformismo attuale, e tanto meno dell’insistenza privata e pubblica delle connotazioni spietate, prive di esatto codice e di richiesta documentale, ma è una necessità d’autore proporre il dubbio, l’allusività, la combaciante esperienza del conoscere, anziché distaccarsi da tutto ciò e inventarsi aneliti metafisici, astrazioni proiettate oltre le ardenti (e coerenti) fiamme dell’esistenza.

Ed è così che la poesia (letta o non letta, che appare ingrata per i suoi misteri e i suoi svolazzi, diafana o intrisa di proficuo peccato) si estrinseca nella differenza da innumerevoli linguaggi persecutivi, protesi alla conoscenza della gioia e del dolore, delle solitudini adulte e delle folle e follie avvelenate, quasi come atto sospeso di prefigurazione e anche di ritratto dell’inquietudine, piuttosto che come un’antica e pur rinnovabile e ribaltabile ebbrezza.
La vocazione alla creatività di Angelo Di Mario ne suggerisce il gioco atroce, disquisitivo; racconta un uso e disuso del tempo, della storia legittima, al di qua di ogni turgore utopico od odio di fatto, ma su maniere dalla varia e variegata proclamazione di humus, producendo alcune tracce di spettacolo visuale ma testimoniando (comunque nell’intero e opimo progress) con una lingua di spostamenti e di ironie, o di disincanti, nomadistica, la non esclusione del cerimoniale in ogni atteggiamento della vita incompleta e fossile, serena o barbara, nella dissonanza e – in ogni caso – sostanza stravolta, in più orbite.

Toni di commiato di una generazione della fierezza.
L’ideologia dell’oscillazione (nel testo) si assume in più punti una valenza (e violenza, sia pur umorale) insultante, dialettizzata, escretoria: “… e siccome stiamo in mezzo | vedo buco futuro | martello cervello | marito dito | pater nostro che sei in Usa | che ci ami con le tue uova | che vuoi porle accanto alle russe | come niente fusse | a iosa | uova | della morte | chiamate ate | civile vile | difesa || niente cocotte a frotte | con slip | con topless | see enza enza | nuu de ude”, e dove l’opposizione tralascia l’idoneità poeticistica per una sospesa e chiaramente mimetica deglutizione d’un oggetto d’in(sapore) politico a ritmo ed insofferenza popolare.

E continuando a documentare l’estasi del peggio, la rima e l’allitterazione non “addolciscono i suoni” del suo discorso, e i tempi e i termini dell’irrisione occupano l’intera verticalità della pagina bianca, sostituendosi a quell’infinito, a quella parola a più voci che trasuda nei più vasti ritmi, la cui lucidità del senso è tutt’altro che inapparente od elusiva.

E’ riconoscibile comunque l’extra essenzialità della poesia per una intervenzione e conduzione di suasioni verbali, di bagliori sortiti da quelle necessità e ragioni che non hanno niente a che vedere con le generazioni presenti, sia pur nello stupore contingente del consumo del mondo; una duttilità specificamente filosofica che certo non congela la parola e, anzi, la fa fluttuare con più forza, quasi per azione di pensieri, per connotare (e sfuggire) gli inganni, i linguaggi controversi, gli arbitri di lingua, gli svolazzi di finzioni, suppongo.

Angelo Di Mario quindi non trascura l’origine della condizione da cui giunge la lusinga del linguaggio, e desidera applicarla all’esigenza del suo spirito che costruisce una verità, e l’immagine con la quale egli si accompagna per riscoprire il visibile e l’invisibile nella percezione meno inesatta, per definizioni possibili, concetti privati, fac-simili disquisitivi, per riattivare l’esistere piuttosto che slittare su toni discendenti, dinanzi alla sostanza dei vari enigmi regolati dalla sopravvivenza anche della poesia, in una partitura della sua ciclicità contemporanea).

La struttura quindi è percepita come definizione (e linfa) dinamica del verso; il corpo della voce si carica di movimenti, di configurazioni testimoniali e campi semantici dall’aspetto vitale che – tra l’altro – prolungano la memoria e lo snodarsi di principi individuali, di suoni, pragmatie figurali tenebrose, lunari, altre cupità del naufragio, ascrivibili a materiali surrealistici, ovviamente intrisi (e nelle capacità traumatiche) della collettiva tragedia!
Nel clima prospettato dal poeta, non manca qualche giglio, qualcosa di scorrevole e di terso; ma non si tratta di felicità sia pur provvisoria o arcana, ma di una misura improvvisa di rendere meno difficile il calco del discours, o sconcertante, e della medesima modernità (proprio nel circuito delle s/consolazioni e degli stessi duttili gridi).

Etimologia come orgia e perpetuo spazio (della forma).
Nella medesima gamma delle fatue distrazioni cosmiche, di giochi assorti, di ciò che delira in un contesto di progettazione poetica, in aloni, sottintesi, rese formali, etimologie perscrutabili ed auscultanti nella loro scientificità di formulazione e di lingua, ancora l’infinito si riproduce in più cristalli, ardori, ansiti luminosi, intride “l’ombra folle”, per dirci tutto (o molto) dell’uomo, scoprire i suoi chiodi, le sue corolle, ciò che è brivido opaco quando “l’occhio fisso sulla petraia” identifica una diversa realtà.

Ma l’inerzia del poeta fissa più àmbiti, luoghi dell’evanescenza e del sospetto, scava fisionomie dirette e indirette, riammette sentimenti nell’inerzia e nelle varianti del fare poetico, i veri lutti, ciò che lampeggia nella tenebra, o parla in un angolo in bisbigli: “Il giorno sedeva accanto alla morte, | rotolando foglie con ironia; | si udivano rapide lontananze | sfogliare le acque in lento cadere; | prima quietamente, come lo scroscio | del grano, ancora intimo, prima | che appariva lento il nucleo del verde, | la chiara chioma, e ancora più oltre | il tinnio cieco, cuore di nuvola; | poi accadde d’un tratto il nero | acuirsi, tutto il nero e il cosmo, | tutta la tenebra esplose del mondo”.

E in codesta fiction poematica, in più punti ossimorica, depistante, su prodigiosa coscienza della realtà, il vaneggiamento fa parte di un empito accorto della sua sensibilità che diviene multipla, narrante e ri/vissuta come evocazione e allarme apocalittico, o tesa pena che attrista nelle intimazioni direi di tipo omerico, con una sua logica mai indulgente, spesso perché la materia della scrittura è più volte invasa da suggestioni culturali con cui Angelo Di Mario è convinto sia più solenne e più agile presentarsi al lettore in un’età della scienza in cui i paesaggi sono afflitti dalla fabbrica dell’ambiguità e del disamore, e i mistagogi sono (o divetano) irsuti lupi rapaci.

In più sezioni, ecco quindi il suo “infinito” racconto della funzione dell’indispensabilità di dare uno spazio alla forma dell’Es(sere), il gusto dell’aggregazione di più elementi di forma, in lingua itinerale fluente, riformata, riassestata alla congenialità del proprio rapporto con l’ego sull’indagine del logos, di una loro metafisica che ospita la medesima fantasia del poeta, la forma dell’Amo, e ciò che accede violento alla conoscenza comune, senza dissimulazione, e messinscena eldoralistiche.

L’azione è il fare, come categoria della proposta e come imperativo categorico, determina esiti drammaturgici, rifonda la metafora alla tensione, la libertà al sogno, “pieno di nulla come la vita” direbbe Fernando Pessoa, ma che, nella costanza del quotidiano, Di Mario cerca di significare, vitalisticamente, senza musicalità umiliata, ma in una etimologia della rinascita, non soltanto sintattica, ma elocutiva, in qualche modo scapigliata, quasi per continuare nella sua attiva idea di eccitazione e di sofferenza.

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