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Intervento di Stefano Romanelli (genero di F.A,Giunta) durante la manifestazione indetta dal Sindacato libero scrittori italiani a ricordo di Francesco A. Giunta

Martedì 11 giugno 2013 “Ricordo di Francesco A. Giunta
Aula Magna di Palazzo Sora in Corso Vittorio Emanuele II a Roma
con interventi di Lino Di Stefano, Nino Piccione,
Luigi Tallarico, Mons. Natalino Zagotto.
Moderatore: Francesco Mercadante.

Forse a causa di una mia frequentazione con le arti figurative – sia pure autodidatticamente e in via non professionale – mi sono risoluto da tempo a determinare come in ogni opera d’arte possa essere rintracciata una “chiave”, un punto particolarmente sensibile e sintomatico, capace di introdurci nella sua labirintica conformazione, illuminandone il senso.

Così ora, che ho tra le mani, L’uomo delle trasparenze, di Francesco Alberto Giunta, procedo nel medesimo tentativo, che so peraltro costellato di insuccessi e bocciature, di ricerca di ciò che Barthes, nella fotografia, definiva punctum: quel dettaglio, che emotivamente ci attrae e in cui il senso dell’immagine, gettato lì dall’autore, ha come ottenuto – in radice quadrata - una precipitazione di chiarezza, in grado, se riconosciuta, di aprire, a ventaglio, un processo interpretativo.

Sono inizialmente abbagliato da due elementi del libro, in copertina: il viandante di Friedrich, un Wanderer kantiano, sul mare di nebbia, e il termine trasparenze.
Questa stimolante unione titolo/immagine, più che una congiunzione di anime gemelle, appare piuttosto come un ossimoro: cosa c’è di meno trasparente della nebbia? Non si dice forse “un muro di nebbia”?
Ma essa cede anche alla volatilità, al velato movimento, per poi disapparire.
Sarà tutto ciò un viatico per la lettura del testo?

 

Lentamente, leggo.

Giunta a pagina 34, mi imbatto in questa espressione: “…verso la mia complessa personalità dove albergano, ora alternandosi ora fondendosi in un miscuglio indicibile, tenerezze inaudite e sciacalli addomesticati che mi travagliano di dentro”.
Sciacalli: sottolineo questa parola così forte, così dura, che mi colpisce.
Più oltre, ancora: “una volta qui, un’altra là, correva per il mondo in compagnia della sua anima, portando con sé l’altra, quella che contrastava nel gioco dell’esistere. Una volta diceva che si trattava di uno sciacallo che lo divorava di dentro, tal’altra lo smentiva pur ammettendo che aveva un qualcosa d’altro a cui dare retta e forse conto… Ed era anche una cosa buffa sentirli dentro tali conflitti, e poi, misteriosamente, vederli sparire… soltanto discussioni tra un io che si manifesta con comportamenti esteriori e una coscienza che strilla, che si ribella a seconda della valenza e consistenza di quelle manifestazioni esteriori” (pp. 54-55)

Se il primo poteva sembrare un indizio, due autorizzano dei primi sospetti.
Allora proseguo. Pag. 138: “perché v’è sempre un acaro che scava, che ci induce a pensare in contraddittorio al nostro pensiero primo”.
Poi ancora: “però quell’acaro mi è rimasto dentro e ogni tanto, oggi dopo un cinquantennio di attese, lo sento pungente al cuore e vivo alla mente” (p. 183)
Gli indizi, ormai, inducono ad esser vicini a una prova.
Ma voglio proseguire, fino in fondo. E allora, e sono a pag. 230: “Sono istanti, momenti felici oppure oscuri in cui spunta un germe, un fiore dico che riflette un suo colore, che espande un suo odore, un suo… umore che somiglia a una voglia che s’impossessa di un qualcosa che abbiamo dentro di noi; forse un acaro, forse un gene, o, forse, soltanto un’idea”.

Ecco qui, forse, ho trovato il mio punctum o chiave.
Cosa indicano questi reperti? Sono davvero una sorpresa? O, piuttosto, sono, con maggior chiarezza, espressione di un senso che altre volte l’autore ci ha suggerito, o fatto intravedere?
Cerco allora inizialmente nella memoria.
Faccio poi ricorso alla mia abitudine studentesca di sottolineare, in matita, i passaggi notevoli di ciò che leggo; riprendo quindi, uno ad uno, tutti i libri di Giunta che conservo nello scaffale dedicato. Scorro rapido e ansioso le pagine alla ricerca di quelle sottolineature.
In alcuni non trovo i miei interventi a matita: eppure li ricordo. Ma di diversi volumi ho più copie, li hanno i miei figli, presso le loro librerie, e lì cerco ancora.

So anche, però, che posso non essermi accorto, in lettura, di ciò che solo ora cerco e che chiuda il mio cerchio.
Devo ricorre nuovamente ai testi, integralmente.
Tento quindi sul web, perché so che in alcuni siti posso trovar parti di libri on-line, dove la ricerca è più veloce.
Ma ho sempre dei vuoti, delle mancanze, che possono essere, proprio quelle, decisive!
Riprendo allora i testi, con pazienza, e cerco.

E trovo.
Ad esempio in un volume del 1992 Il respiro dell’uomo:
“Per cui un giorno, dopo aver lun­gamente interrogato lo sciacallo che pasceva in un angolino di se stesso, decise di spiegare al suo sconosciuto interlocutore il perché non se la sentiva di continuare su quella strada …” (p. 61).

E altro ancora, trovo.
Ciò che ora vedo, e di cui più volte avevo avuto sentore, è questa presenza, lenta ma costante, sommersa ma battente, accettata, ma non pacificata.
Una figura – che è uno stato d’animo – della duplicità, della polarità.
Non voglio parlare di contraddizione, perché nella contraddizione (diversamente dalla opposizione o contrasto) un termine tende all’esclusione dell’altro, senza compromissioni.
No: qui, all’inverso, la sopravvivenza dell’uno, sia pure involontariamente, sembra richiedere la presenza dell’altro.
Profittando del Foscolo (Alla sera) sembra quindi di esser tra due poli, però interdipendenti: da un lato la pace, la serenità interiore, che in Giunta è data da salde radici e convinzioni culturali, familiari, personali, come origine, valore, ma che è, dinamicamente, obiettivo da raggiungere.
Dall’altro uno spirto, che, entro, rugge, che è variamente determinato: guerrier non solo verso l’esterno, per convinzione o per naturale inclinazione, anche morale; ma all’interno (lo sciacallo, l’acaro, il germe…), involontario, dovuto.

Tra questi due poli si snoda la vicenda umana e letteraria del nostro autore.

Non è però questo il solo azzardo che pongo.
Con la stessa determinazione da cui sono partito, voglio ora affermare, con Borges, quale sia, a mio parere, l’esito del processo creativo dell’autore, ciò che credo risulti - se solo potessimo osservarla dall’alto - dall’intera sua produzione (romanzi, racconti, poesie, saggi, interventi, recensioni, interviste; che andrebbero poi tutti associati ai tanti materiali preparatori e di studio e alla fittissima corrispondenza).
Cosa succederebbe se potessimo, in un colpo d’occhio, tutta, “metterla in scena”?

Borges ne L’artefice scrive:
Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di navi, di isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone.
E’ il nostro Francesco Alberto, Franco, per gli amici ! (immagini, spazi, parole, esiti e ricordi dei tanti viaggi, nel mondo e nella memoria, compiuti)
Ma cosa risulta, infine, di tutto ciò? Cosa rimane, allora, per noi, oggi, che lo rileggiamo?
Conclude Borges: Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l'immagine del suo volto.
Ecco, è un unico, possente e dilatato autoritratto. Pulsante, eccentrico, pieno, come una volta o un soffitto barocco; che non vediamo però immediatamente e a testa in su, come in chiese o palazzi romani, ma di sbieco e solo a causa di un punto di vista preciso (punctum, appunto), come nelle anamorfosi, barocche anch’esse.

E’ potente, ma si cela; è solido, ma costellato di figure e fughe leggere.
E’ condensata una vita: ponderosa, come i tomi dell’enciclopedia, lieve, come carta velina.
Un po’ sollen (dover essere), un po’ elan vital.
Ciò che in copertina s’era intravisto, come promessa di svolgimento, s’è realizzato.
E’ quindi già ora di ri-aprire (e non chiudere) questo libro, questo autore, a chiave.

Stefano Romanelli

autore
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