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Prefazione a
Tertium non datur
Marco Palladini
Chi come il sottoscritto da vari decenni si occupa
del teatro italiano, dentro e fuori la scena, con trasversale sguardo critico,
non può non essersi reso conto di una cosa:
che esistono da tempo in pratica due realtà. Quella che io chiamo del
"teatro teatrale" e quella della drammaturgia contemporanea scritta che, nella
stragrande maggioranza dei casi, si configura come "letteratura teatrale ".
Nella maggior parte dei paesi europei – dalla Gran Bretagna alla Francia,
dalla Germania alla Spagna, ai paesi scandinavi etc. – pur nella pluralità
delle forme e delle espressioni, il teatro "inscenato" ha mantenuto un
costante e fecondo rapporto con la drammaturgia contemporanea, consentendo un
ricambio generazionale, l'affermarsi di
nuovi autori, il delinearsi di nuove sensibilità. La richiesta, anche
del pubblico, di nuove scritture per il teatro ha consentito alla tradizione
drammaturgica di non anchilosarsi e di riformularsi e interfacciarsi con i
nodi problematici e i temi emergenti dal cambiamento profondo della società.
Nulla di tutto questo si può ravvisare in Italia. Se guardiamo
all'ultimo mezzo secolo si può dire che non
ci siano drammaturghi 'viventi' che siano diventati importanti o
'centrali' o significativi punti di riferimento della scena nazionale. Le
uniche possibili eccezioni che mi vengono in mente sono due: quella di
Giovanni Testori, i cui particolarissimi testi di forte ibridazione
linguistica nacquero, però, negli anni '70-'80, in stretto rapporto di
collaborazione creativa prima con la compagnia del Pier Lombardo di Milano
(l'attore Franco Parenti e la regista Andrée Ruth Shammah) e poi con
l'attore-regista Franco Branciaroli; e quella di Giuseppe Patroni Grifi, che
anche lui tuttavia lavorava interagendo direttamente con la famosa
Compagnia dei Giovani di De
Lullo-Valli-Falk-Guarnieri, prima di
tramutarsi lui medesimo in regista,
e così pressocché accantonare il ruolo di drammaturgo.
Lo stesso recupero del teatro di Pasolini
che c'è stato negli ultimi anni, è avvenuto molto dopo la sua
scomparsa nel 1975.
Il fatto è che in questo paese la scena cosiddetta `ufficiale'
è stata dominata, per un verso, dal teatro di regia, i cui protagonisti hanno
sempre visto come fumo negli occhi i drammaturghi viventi, in quanto `oggettivi-soggettivi'
ostacoli al loro lavoro di creazione critico-registica, di ermeneutica dei
segni scenici sempre tesa a sovvertire,
decostruire, spiazzare i testi di partenza.
In quest 'ottica, meglio, molto meglio esercitarsi sulla tradizione
canonica (dai tragici greci a Shakespeare, Molière, Goldoni, etc.) o sul
repertorio di autori novecenteschi trapassati (leggi Pirandello) o inventarsi
(vedasi Luca Ronconi) testualità fantasiose, partendo da dimenticati autori
barocchi (Giovan Battista Andreini) o da scritture iperboliche (Arno Holz e
Karl Kraus) o attingere alla letteratura (Gadda e Henry James), al cinema
(Kubrick) o persino alla scienza (John Barrow). Per un altro verso, anche il
teatro dei primattori (da Gassman ad Albertazzi, dalla Morriconi alla Melato,
a Gigi Proietti etc.) si è sempre basato sui repertori di testi già noti, di
autori canonizzati, non è mai stato interessato a richiare su autori nuovi o
su una ricerca drammaturgica eterodossa. Del resto, ancora ci si ricorda di
quando Gassman mise in scena nel 1960
Un
marziano a Roma di Flaiano, fu un tale flop che
dissuase per sempre lui e gli altri mattatori ad interpretare testi inediti.
Per quanto attiene,
poi, al teatro d'avanguardia o sperimentale, esso è sempre stato imperniato
sul concetto di "scrittura scenica ", dunque sia teoricamente che sul piano
della prassi estetica del tutto estraneo alla drammaturgia convenzionale. Per
Carmelo Bene, rammento, il testo aveva lo stesso valore di una 'cantinella'
(l'asse per inchiodare le scenografie), tutto partiva e
finiva con lui, l'artefice
sublime e inimitabile di un teatro di pura
macchinazione attoriale-phonetica e di
dérèglement du sens. Anche al presente, se penso ai
portabandiera dell'ultima generazione di post-post-avanguardia (da Pippo
Delbono a Emma Dante, adAscanio Celestini), si tratta di
attori-registi-performernarratori che si propongono come autori-artefici
totali di un teatro che non necessita affatto di testi altrui, essendo la
proiezione di una prepotente poetica personale, di una visione artistica
ipersoggettiva ed esclusiva.
E questa la realtà
oggidiana del "teatro teatrale" del Belpaese.
Per questo ho sempre reputato quasi
`eroica' l'insistenza e la pertinacia con
cui non pochi autori hanno continuato, nonostante
tutto, a produrre testi drammaturgici, con la certezza di rimanere
inascoltati o ignorati dal sistema del
teatro `teatrante' che occupa il panorama nazionale. Anche chi come
Giuseppe Manfridi, in virtù di una ingentissima produzione e di una indubbia
professionalizzazione commediografica, da
oltre venticinque anni prova ad imporre l'esistenza di una drammaturgia
contemporanea nazionale che "va in scena ", rimane sostanzialmente ai
margini.
Tutta questa lunga premessa serve a
contestualizzare e a collocare una apprezzabile proposta di letteratura
teatrale come quella che avanza Noemi Israel con questa commedia
Tertium
non datur. La sua opera oggi, dato il quadro prima
richiamato, appare paradossalmente un gesto quasi controcorrente e, comunque,
non conforme.
Richiamandosi esplicitamente ai dettami della pièce
bien-faite,
questo lavoro si presenta con un surplus di indicazioni nel
para-testo che è la spia di una palese (e
insieme cripto polemica) volontà di contrapporsi al corrente teatro di
regia con la sua autonomia e `arbitrarietà' nei confronti del testo. Qui
l'autore si pone senza mezzi termini come Autore,
dominus
assoluto del suo copione, il
quale appronta un apparato di didascalie
che si delinea come una
tendenziale o effettuale `regia
scritta'. Fitte notazioni corsive che
prima enucleano l'intreccio basico delle
relazioni tra le
dramatis
persone,
quindi descrivono minutamente, fin nei dettagli l'ambiente
scenografico dove si svolge l'azione, poi raffigurano analiticamente
l'aspetto di ogni personaggio, infine sottolineano tutti i
movimenti di scena e le intonazioni dei
personaggi. Una ulteriore didascalia sottolinea con puntiglio, persino,
quale deve essere il registro vocale dei "tre personaggi principali ". Questa Autrice
che si riappropria sulla pagina dello spazio della regia produce, comunque lo
si voglia giudicare, un gesto 'forte',
desueto, magari anacronistico, che, in ogni caso, mi sembra esprimere
la compiuta coscienza, la definitiva presa d'atto della separazione radicale
che corre da noi tra il "teatro teatrale" e la drammaturgia scritta.
Tertium non datur,
si
potrebbe per l'appunto motteggiare.
Ma
la commedia della Israel è interessante anche per altri motivi: nella sua
atmosfera forse un po'
dépassée,
si
rispecchia la socialità di una borghesia ebraica
italiana situata nel nord-est del paese, quasi sul confine carsico con la
Slovenia. E si tratta di una borghesia benestante, colta, sofisticata, di
pretta ascendenza mitteleuropea, che ha ben poco o nulla in comune con i
tratti prevalenti del ceto medio-alto tricolore, già in passato ben poco
`elevato' per stile, gusti e cultura ed ora incline a sbracare completamente
nell 'indistinto gorgo del `generone' di massa plebeo-televisivo – del resto,
Pier Paolo Pasolini negli anni Cinquanta sottolineava. "Abbiamo la borghesia
più ignorante d'Europa".
Questo tratto
di `distinzione' è invece ben presente nella scrittura della Israel, nell'uso
mirato delle citazioni in latino (anche come arma di intimidazione verso i
`rompiscatole'), nel complessivo, amabile tono di conversazione
mondana-intellettuale, nella scelta iperletteraria dei nomi dei personaggi
(Glicine, Teodoro, Vicky, Giuli, Pat, Cecca) e nell'opzione di avere quali
protagonisti
maschili due docenti (o `baroni') universitari. Opzione temeraria: qui oggi
chi osa parlare di cultura `alta' e di temi intellettuali viene riguardato
come un alieno o si trova di fronte censori para-goebbelsiani (e/o
`berlusconidi') che mettono prontamente mano metaforica alla pistola.
Basterebbe questo, allora, per accogliere con simpatia, adesione e consenso la
commedia della Israel. Che però, non vuole essere invero un testo
'impegnato', anzi in ultima istanza questa è una piacevole commedia
sentimentale, in cui s'incrociano due amanti non esattamente giovanissimi,
anzi direi alquanto cresciutelli, due quarantenni che si danno, forse,
l'ultima chance prima di passare, come suoi dirsi, `di cottura'.
Lui è un
impenitente scapolo, non privo di una certa spocchia professorale, un po' seduttore
e un po' misogino, sotto sotto ancora tanto
legato alla mamma (il filo-mammismo è forse l'unico punto in comune
tra il maschio italico e quello ebraico). Lei è la consorte sfortunata di un
uomo ridotto in carrozzella, già quasi in stato neuro-vegetativo, che fa
ancora "la ragazza", cicaleccia con le
amiche coetanee, tutte sfigate in amore, ed è legatissima al padre
vedovo. I due – Vicky e Glicine – si annusano, si studiano e animano una
vivace schermaglia amorosa che si nutre di sottili fendenti psicologici da una
parte e dall'altra. C'è tutto il piacere di ferirsi per non riconoscersi
deboli, per non dichiararsi per primi, e in mezzo c'è la questione del padre
di lei che è anche il `maestro' universitario di lui, così che l'unione tra la
figlia e l'allievo è, fatalmente, pure un topico (e tipico) rapporto edipico
`spostato'. Ma più che a Freud, questo testo rimanda moderatamente a certi
ingorghi esistenziali sveviani (pensiamo a
Una vita
e
Senilità)
o
ai viluppi destinali di Hugo von Hofmannsthal
(L'uomo difficile).
Figura
indubbiamente cardine dell'ideale triangolo è quella del padre: il professor
Teodoro Foà, da una parte pronubo dell'incontro tra il suo `delfino' e la
diletta figlia, dall'altra un po' occhiuto
controllore dei due: che spia nottetempo origliando alla porta e capendo, causa
ipoacusia, fischi per fiaschi (torridamente erotici), secondo la più classica
commedia degli equivoci. Un agiato accademico ebreo ormai in pensione, pur se
ancora attivo, abituato a regolare le vite altrui, che sembra non volersi
arrendere al declino incipiente (del suo doppio potere `baronale' e paterno), e
che ha riempito la vedovanza con una "Shabbat
Goyà ", assurta a propria nascosta amante. Una figura di stampo
laico-razionale, che pare coltivare un equilibrato e misurato
senso del vivere, e che nutre con un filo di
saggio umorismo la sua inclinazione ad un sano
bonheur
e persino ad un certo edonismo,
apparentemente alieno ai sottofondi luttuosi e ai tragici echi delle
biografie degli intellettuali ebrei della sua
generazione, così come sembra lontano dai drammi e dalle problematiche
dello sradicamento, per esempio caratteristiche dei personaggi dei romanzi di
Isaac Bashevis Singer
Nel testo della Israel pulsa, in definitiva, una sostenibile leggerezza
dell'essere e la sua temperatura di gradevole commedia di costume si conserva
brillante anche nel coup terminale, che inscena un piccolo rovesciamento
meta-teatrale. E un finale a sorpresa che è a mezzo tra la burlevole presa per
i
fondelli e la
verfremdung,
lo
`straniamento' brechtiano, e mi sembra come l'ultima
zampata dell'Autore che non rinuncia, anche
in limine,
a firmare la virtuale regia della sua opera.
Diceva lo
scrittore e critico viennese Alfred Polgar: "A teatro proprio ciò che è naturale
produce talvolta effetti innaturali, ed essere semplici è tutt'altro che
semplice ". Questa commedia, né innaturale né complicata o semplicistica, mi
pare che abbia bravamente tenuto conto dell'avvertenza.
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