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Lettera introduttiva a
Il rumore dell’erba

Paolo De Stefano

Caro Angelo,

debbo primamente dirti grazie, e dal cuore, per aver voluto che io scrivessi una lettera introduttiva alla raccolta dei tuoi “interventi” su alcuni poeti meridionali del nostro Novecento: pugliesi, campani, calabresi, siciliani e della Basilicata. Dieci poeti fra i più significativi della poesia del nostro Sud. Tuttavia, prima di scrivere due parole sul valore poetico e sul merito artistico degli autori da te amabilmente scelti anche perché più vicini alla tua sensibilità e cultura di critico avveduto e solerte, dovrò di necessità e logica ed esegetica inquadrare il “tuo tutto” in quel periodo della nostra storia delle lettere che passa col nome di Novecento e di Decadentismo letterario; e che vide il fiorire numeroso di scrittori e poeti memori, anche quando autonomi, della grande lezione pascoliana, dannunziana, gozzaniana ed ungarettiana. Ungaretti un premio Nobel, a mio avviso, mancato e non inferiore come poeta a Montale e a Quasimodo. Cosa è stato quel Novecento culturale che da poco abbiamo lasciato alle nostre spalle? Cosa è stato per la poesia in genere e non come suo decretato “genere”? Prenderò a prestito alcune riflessioni di Raffaele Nigro che furono oggetto, caro Angelo, di una intervista sulla poesia nel 1985. Alla tua domanda: «esistono Nigro, oggi, lettori di poesia?» ti rispose: «credo di no: c’è un pubblico di scrittori, ma non di consumatori». Ed aggiunse: «l’inconscio ha trasformato l’esigenza della scrittura e della comunicazione in esigenza di gioco, di ironia. Scrivo per irridere le false coscienze, lancio dei messaggi e prima o poi qualcuno di coglie». Ecco: nelle considerazioni di Raffaele Nigro sono evidenti e dolorosamente presenti due riflessioni: la prima è quella che tanti sono i poeti, oggi come ieri l’altro, e pochi li leggono; e l’altra è che molta poesia irride le false coscienze. E allora per un po’ meglio definire alcuni aspetti del secolo trascorso nessuno può negare la tiepidezza e le ambiguità di molti suoi poeti sia pure riconoscendo che l’Italia poco ha fatto loro per riconoscere se stessi al di là dei premi di poesia prefabbricati; e poco hanno fatto i poeti, o molti di loro, per aiutare l’Italia a a riconoscersi sicchè la seconda epoca del nostro Novecento, eccetto il mancato Nobel Mario Luzi, e qualche altro lirico della parola, poco ha fatto, in termini di poesia, perché ci fosse una europea compartecipazione, come riflesso della vita etica e sociale, come effettivo mezzo di comunicazione che non fosse da variegata e fittizia versificazione ridotta a stile, più volte analogia di una sopita quando inopportuna o falsa ideologia poetica. E’ venuta meno in molti la coscienza che è la patria della poesia. Anzi certa coscienza poetica ha preso il colore corporativo venendo meno il libero dominio di sé che fa la vera repubblica delle lettere. Il grande poeta appartiene a quella repubblica; con la lanterna di Diogene qualcuno ancora si trova nel vocale Elicona; che sia uomo e poeta al tempo stesso. Ora l’amico Angelo Lippo ha voluto raccogliere quelle solinghe e, tuttavia, autorevoli voci, nel più ampio quadro della poesia novecentesca, e ne ha fatto motivo di una sua qualificata antologia dal titolo alquanto ungarettiana: Il rumore dell’erba con il sottotitolo che ne qualifica le scelte poetiche relative ai suoi interventi critici: A Sud delle incertezze: la poesia.

Caro Angelo, hai voluto, fra i tanti, scegliere, per ragioni anche meridionali,, dei poeti ed artisti della parola fra i più quotati, oggi, in campo nazionale. Una scelta ardita e, per me, validissima, anche perché uno stesso sangue scorre per le vene dei pur diversi protagonisti della poesia: da Jacovino a Nigro, da Maffia a Lubrano, a Giancane, a Pierri, a Buttitta, a Dolci, a Calabrò e Spagnuolo. Il senso altissimo di una redenzione civile, sociale ed umana del Mezzogiorno d’Italia. L’antica questione trasfigurata o razionalizzata in poesia. In vero, pur nella loro differente impostazione, ed anche, se non soprattutto espressiva, nonché comunicativa, gli artisti di cui hai tracciato, Angelo, onorevoli e precisi profili, sono artisti dell’eterna “humanitas” del nostro Sud così ricco di variegata storia politica e di conseguente civiltà, ma così tardivo alla ricerca di una sua redenzione interiore che solo può venire dal cuore e dalla mente dei suoi cittadini. Più che “pedagogisti” del verbo quegli artisti intellettuali sono “pedagoghi”; mediatori o denunziatori di amare realtà e vicissitudini di un popolo che ama ancora “amaramente la vita”. E non manca in essi, più o meno parvente, un filo di alta religiosità, come in Pierri; religiosità come purissima fede in Dio e specchio di eticità. E c’è sempre, come tu scrivi, «un pudore della poesia», tanto se “vivo” in lingua italiana quanto in quella dialettale per cui il poeta, come Nigro scrive, è sempre «un pilota dei miti» e aggiungo del suo mito. Il mito costante della memoria congiunto alla triste e, a volte, beffarda realtà di un Mezzogiorno calpestato e deriso e segnato in versi che spesso sono lacrime e che Dante Maffia ha reso palpitante nel suo Le favole impudiche. Ma è anche, quella dei nostri poeti, una poesia catartica, o meglio agonistica; e tu, Angelo, entri in questo «agone» letterario con la sola corazza del tuo indomito coraggio di denunzia e di battaglia che non conosce riposo; e che da anni è tuo. Riconosciuto.

Cordialmente

Taranto, 30 marzo 2003

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