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Prefazione a
La carne stretta
Marcello Venturoli
Che cosa mai può dire di utile e di buono
sulla poesia tanto impegnata di Angelo Lippo un «viaggiatore» come me in
saggi d’arte e di costume, in romanzi e, solo in questi ultimi anni non più
verdi, «poeta» anche lui? Ma l’amico Angelo ha molto candidamente insistito
che io gli facessi da lettore scritto, con una testimonianza da collega
a collega; e non certo per l’autorità che mi manca come critico letterario, ma
per l’umano incontro di due temperamenti., di due persone che lavorano
nell’ipotesi poetica, che dovrebbe esser qui «verificata».
Dirò dunque che mi è subito piaciuto
di Lippo il modo aguzzo – un segno fatto con tenere spine, con l’ortica, – di
dire sensazioni pensieri e sentimenti senza concedere nulla alle odierne
avanguardie: un fatto è certo, la ragione della poesia di questo tarantino
solitario ma per niente avulso dal contesto italiano ed europeo, non è
letteraria e i suoi modi nulla hanno di «sperimentale». Se in taluni momenti
la sua comunicazione può apparire o essere oscura, ciò dipende dalla
obbiettiva difficoltà della posta, quel dover dire solo l’essenziale, quel
capovolgere non solo nei concetti – se posso permettermi questo errore di
metodo critico – ma nella forma, il suo sentimento del Sud, la famiglia, i
ricordi della infanzia, del padre, la splendida intesa di sensi e di idee con
la moglie, certe piccole «scene» di vita contadina, il mare, gli animali, le
coltivazioni. Ma Lippo non è un apologeta della sua terra, non esprime come un
Pascoli o uno Scotellaro un «sentimento del tempo» attraverso fatti
sostanzialmente naturalistici: è, invece, un intellettuale moderno, lucido,
aperto, consapevole magari dei limiti della società meridionale, ma non un suo
recitante «personaggio». Mi sembra piuttosto che egli sia «capitato» nella
sua vita, nella sua regione, nella sua memoria, come un soldato
dell’esistenza.
La differenza sostanziale che passa, per esempio, tra la mia generazione
(io ho più di sessanta anni) e quella dell’operoso e intenso poeta che
presento, sta nel modo di essere coinvolti dalla storia. Lippo, tutto sommato
ne è un ribelle. Non per una tangente anarchica, tanto meno edonistica
(perfino i suoi più delicati paesaggi sono realizzati con una interiorità di
grande splendore – per esempio – «Lasciate
dire», «Scoppia a maggio il papavero») ma perché mostra chiaramente di non
accettare del bello e del buono la parte che rinuncia a capovolgere le cose (è
lui che ha dato un bellissimo titolo a una poesia, quasi emblematico, «Il Sud
ribaltato»). E molte volte egli riesce a esprimere in panorami di pensieri
come paesaggi («Forse in capovolte dimensioni») il senso di un uomo
turlupinato dalle false morali imposte. La sua umanità è prima di tutto
esistenziale. Lippo scrive mosso da profonde allergie. E sa anche raccontare;
ma con una consapevolezza non comune del rapporto che intercorre tra
illustrazione e sintesi lirica, scava in episodi, quasi in imbastiture di «romanzi» e riesce a costruire degli intensi poemetti, li chiamerò così,
anche se il termine non risponde. Mi riferisco per esempio a «Requiem
bianco» dove la morte e la celebrazione di una vita spenta sul lavoro,
acquistano toni poematici elevatissimi.
Dicevo che io non vedo Lippo come un tipo personaggio del Sud. Come egli
stesso scrive, si gioca tutto il suo folklore in una bisca, se lo gioca per i
figli e per i nipoti, nel senso di rendersi responsabile di ben altre verità e
bellezze, urgenze e solidarietà. Al tempo stesso del Sud porta con sé direi in
filigrana, anche nelle tessiture di versi più gremite, quella rarefazione,
quella luce, quello spazio, che è in lui esistenziale al profondo. Ecco, io
Lippo non lo…so, ma lo riconosco, non ne so forse afferrare fino in fondo il
messaggio, ma mi tocca il cuore.
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