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La prefazione a
L'ape invisibile
Giacinto Spagnoletti
L’ultima raccolta di Lippo, aveva un
titolo (Filo diretto), che sottolineava in un certo modo il rapporto fra il
poeta e l’immenso groviglio di eventi fisici da cui dipendiamo e che dipendono
da noi: la vita, non ridotta alla sua «fisicità», ma immersa nell’elemento
naturale, e perciò tesa e vibrante al pari di esso. Una forma di comunione,
che diventa un fatto di socialità fra le creature d’oggi, appena il poeta si
mette in contatto con il proprio mondo reale.
Ai bei risultati raggiunti allora
vengono ad aggiungersi in questa nuova raccolta le proposte di un dialogo, che
si suppone insieme interno alla vita familiare dell’autore ed esterno ad essa:
«siamo qui, incontrandoci al buio / scontrandoci nella luce ( bacche da
cogliere al primo vento». Lippo è, come tutti coloro che hanno fede nella «resistenza» dell’umano, sia pure nelle condizioni estremo indebolimento a
cui l’ha ridotto la storia, sempre più partecipe, direi, di questa necessità
di unione, di comunità nascente dalle profonde ragioni della vita con l’ansia
di non finire. Ma questa profonda convinzione non lo conduce a un confronto
ideologico, o polemico, con i rischi che non vale la pena di indicare. Il suo
dettato si svolge in un vasto spazio metaforico, dove la domanda o
l’interiezione fanno macchia drammatica inserendosi sino alle più oscure
scaturigini nel vasto ambito della natura. Ogni lirica sembra perciò il
risultato di un tentativo di fusione della voce umana con lo spettacolo
variegato, sonoro, incalzante di ciò che vibra intorno:
tutto sta nel
riconoscerci
e chiamare il fluido
accattivante per non
smagrire
il lucore della
primavera
lanciata a velocità
folle
Di questa operazione complessa e non
poco ardua Lippo qui presenta tre momenti, che si incrociano, ma restano
distinti: «L’ape invisibile», «Maturare il sogno» (con un bel titolo che
ci riporta alla migliore produzione di Danilo Dolci) e «Scrittura». L’ultima
sezione, ferma a una storia d’amore dalle movenze semplicissime, e con qualche
intenzione qua e là epigrammatica, delinea una sorta di epilogo, nel dramma
spinto a «mistiche abitudine» nelle due parti precedenti.
Non si può parlare, in ogni caso, di
poesia religiosa, nei termini usuali. L’avventura umana, dai profili
ben riconoscibili, è al centro, costantemente dell’attenzione di Lippo: la
spinge egli stesso, si direbbe a diventare voce della propria poesia. Ma è in
questo trattenersi al di qua dell’affanno della preghiera, forse, il vero
esito, l’originalità del nostro poeta. Come sarebbe stata ambigua, e retorica,
c’è da giurarlo, l’essenza del suo canto, se avesse seguito i parametri
dell’orfismo misticheggiante, in cui è caduta buona parte della lirica del
nostro secolo: salve le punte, beninteso, che tutti conosciamo (da Rebora a
Batocchi), dalle quali Lippo ha appreso proprio questo modo di procedere ad
«altezza d’uomo». In ciò gli è vicino, con diversa intonazione, e modi
stilistici del tutto diversi, il grande Michele Pierri, da anni sul sentiero
di guerra di una insolita caccia spirituale.
Limitarci a dire che non è poesia
religiosa, vuol dire anche significare l’encomiabile esorcismo, che Lippo
pratica sul corpo della poesia religiosa, per risvegliarla ad altro destino.
Siamo dunque con questa sua nuova raccolta non ad un mascheramento raffinato,
ma ad una svolta dalla quale l’immagine del poeta ne esce corroborata:
andare è
procedere
non arrestarsi
alle acrimonie
ai sobbalzi
per
ritrovarsi
La fame di poesia che s’avverte un po’ dovunque nel nostro paese è tale da
porci (a differenza di ciò che accadeva una ventina d’anni fa) in un certo
stato di diffidenza. Si aprono e si chiudono le raccolte, le antologie di
gruppo, le antologie generazionali (o peggio regionali) con lo sconforto di
apprendere – come è stato chiarito da un’inchiesta – che generalmente «il
livello tecnico della poesia è salito». Ma proprio da questa constatazione
nasce, per così dire, la mia amarezza. Se si è giunti, come pare, ad un certo
livello di espressione non provinciale né tribunizia, quanto più duro resta il
cammino di chi, fra i molti, dovrà procedere spinto dalla sua sola vocazione!
Dinanzi a questo dilemma, che si pone in termini pacifici (ed è invece
terribile: esser bravo o esser davvero poeta?), chiudendo queste poche parole
per Lippo, vorrei indurlo a resistere ad ogni sorta di tecnicismo, e a
guardare innanzi, consapevole del proprio dono e dei mezzi per esprimerlo.
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