|
Scritti critici e recensioni
“(…) Capissi l’eterno | che c’è dentro il presente, dove si compie | tutta la storia del mondo. (…)”. Con questi versi Filippo Davoli avvia a conclusione uno dei primi testi della sua ultima raccolta di poesie: padano piceno. E’ proprio attraverso queste poche righe che l’autore sembra suggerire l’ambito verso il quale è rivolta la sua ricerca poetica. Il presente che si vive quotidianamente, l’attimo che si compie e che sfugge, i minimi accadimenti che accompagnano il trascorrere del tempo di adesso… Tutto questo – tutto ciò che ci circonda consumandosi, senza indurre in noi sorpresa alcuna e che è spesso destinato ad una muta dissipazione [“(…) La vita che non s’afferra | è quella vera che attraversa i giorni, | la vita che s’incarna dentro la vita | come un sigillo di vene.”] – appare come l’orizzonte osservato con ostinazione dal versificare di Filippo Davoli. Non si tratta, però, di una poesia meramente descrittiva; quel presente che l’autore scruta da ogni angolazione e che ci offre con il tono del dolce e pacato colloquiare (con se stesso ed il proprio esistere, con i propri cari e la persona amata e con il lettore) porta con sé molto di più del semplice risultato di un’attenta e ragionata esplorazione del reale. Nell’attimo che si vive persiste il passato (quelle età, quei luoghi e quei volti ormai lontani che riappaiono con forza e tenerezza nella sezione intitolata Piccolo canzoniere familiare), sembra emergere come una dimensione che si confonde con il sogno o che forse è il principio di questo [ “C’è un attimo, un attimo solo | in cui si incrocia perfettamente il tempo | di ogni memoria, e la fantasia. (…)”], si intravede il futuro, si matura la consapevolezza dell’ineluttabilità della sofferenza [“(…) Nel fotogramma | che mi percorre c’è un tempo | che si inceppa per miracolo, e com’è bello… | Ci arriveremo da vecchi, tenendoci forte | per mano, e scopriremo | che il dolore non vive mai troppo lontano || ma che ci insemina piano | nelle pieghe di ogni realtà.”]… Nella contemporaneità che si vive, insomma – che nei versi di Davoli sembra divenire in un tempo proprio, si può trovare tutta la vita di ognuno; si può forse scorgere l’eterno e tutta la storia, come sanciscono i versi iniziali, del mondo. Se il contesto all’interno del quale si concentra la ricerca condotta da Davoli può risultare chiaro, allo stesso modo non sembrano esserci dubbi in merito al fatto che la poesia è, per l’autore, il mezzo irrinunciabile per setacciare in profondità il vivere degli uomini. Davoli ha scelto la poesia per parlare a se stesso e ai propri simili, perché la poesia gli offre soprattutto l’opportunità di dialogare con il tempo che passa, con il dolore e con la gioia e di conservare, di questa sorta di “conversazione in movimento”, il bagaglio di conoscenze, forse solo percezioni, necessario a tentare di comprendere, se possibile, la vita: il suo iniziare, il suo trascorrere e terminare. Quanto appena affermato non è frutto di deduzioni o di interpretazioni; è chiaramente espresso dall’autore in pochi e mirabili versi: “E’ dolcemente opportuno dialogare | coi morti e così con la vita. Tenerne l’eco | come tesoro inestimabile di un colloquio | sommesso ma nel tempo, prepararsi | vivendo interamente ogni momento | all’ora esatta.”. Della poesia di Davoli sono molti gli aspetti che possono attrarre; difficile e dispendioso sarebbe parlare di tutti. Si sente in ogni caso l’urgenza, per chiudere questo breve testo, di sottolineare, ancora con l’esempio di alcuni versi dell’autore, la forza dell’umiltà (“merce” rara in quest’epoca di esclusiva corsa al profitto) ed il desiderio di sorprendersi di fronte alla vita che pervadono le pagine di padano piceno: “(…) la debolezza | ci spinge ad un silenzio che è sguardo e fuoco | e luminosa è l’attesa.”.
Per un identikit del poetaL’uomo nasce, vive e muore. Il poeta è un uomo che nasce, che vive e che muore, semplicemente trascorrendo una parte importante del proprio esistere a scrivere versi. 1. Desidera scoprire, toccare il confine tra le cose che sono e quelle che non sono. Brama un vasto limite che si può solo immaginare; quella voragine che è dentro di noi e che di noi si alimenta; quel groviglio di ricordi e di paure che, forse, è l’anima degli uomini. 2. Spera nell’esistenza di una vita prima della vita (che forse vale quanto la speranza di una vita dopo la morte). 3. Scruta una “modalità dell’accadere” che a tratti è molto vicina alla dimensione del sogno. Un sogno in cui l’essere si sostituisce al non essere e viceversa, in cui i canoni propri del trascorrere del tempo vengono sovvertiti dentro una realtà che è innanzitutto percezione. 4. Sente il proprio corpo come sospeso, nell’atto di sopravvivere forzatamente alla vita. 5. E’ là dove l’evento si compie, nelle viscere del luogo dove la sofferenza vive e dalle quali si scorge l’intero genere umano tessere storia, miseria e memoria. 6. Vive ai margini dell’oblio ed osserva la solitudine mutarsi in gioia. 7. Narra di una terra lontana in bilico tra un’immagine riflessa allo specchio e le sembianze fisiche della stessa. 8. Traccia e percorre un accidentato sentiero tra lo smarrirsi ed il ritrovarsi. 9. Fissa i ricordi, li coglie nel loro processo di sedimentazione attraverso le ore che, lente, si depositano le une sulle altre. 10. Si sorprende ad osservare ciò che del divenire non si spiega, ciò che determina il destino di un istante e che ci fa scegliere le cose da guardare. 11. Siede ai bordi di una pianura e da lì, prestando attenzione, ode l’eco degli uomini che vivono… La poesia, oggi più che in passato, assomiglia ad una voce che sussurra appartata, mentre intorno tutto grida; appare come una testimonianza di esperienza di vita che preferisce, alla ricorrente celebrazione della ricerca del successo a tutti i costi, non dimenticare che la morte ci attende comunque; si manifesta come conservazione ed esaltazione di un mondo interiore che eleva il ricordo, a scapito del profitto, ad essenza di civiltà; sembra essere un flebile canto (una preghiera, oso) che ama sorprendere l’uomo spogliato delle sue certezze, piuttosto che guardare a quest’ultimo come a quell’essere eletto che si spera capace di controllare, un giorno, gli effetti negativi delle proprie azioni La poesia, con il suo carico di quesiti irrisolti, può soltanto aiutare a rammentare che ciò che gli uomini potrebbero possedere, che dovrebbero aspirare a conoscere, è la vita ed il vivere stesso.
Si ha la netta percezione, leggendo Verso occidente – l’ultimo libro in versi di Narda Fattori, di percorrere un tragitto ben delineato, una via che (il titolo in qualche modo lo afferma) tende ad una destinazione precisa, ad un traguardo che è, allo stesso tempo, lontano e certo. Il titolo, si diceva… L’occidente del titolo sembra essere proprio quel luogo nascosto nella linea dell’orizzonte andando incontro al quale il sole tramonta, la luce tende a farsi buio e, metaforicamente, la vita volge al suo termine. Il percorso di cui si è appena detto è indubbiamente quello del divenire. Esso appare angusto, lastricato di dolore e di amarezza (quella stessa amarezza che viene efficacemente sintetizzata negli ultimi versi di alcuni testi. Un esempio su tutti: “…E’ inverno | sempre dove i vivi piangono i vivi.”) e come contenuto tra pareti fatte, alternativamente (in qualche caso, addirittura nello stesso testo), di specchi e di vetro. Grazie agli specchi collocati lungo il cammino tracciato dalla raccolta, l’autrice permette al lettore di conoscere i tratti salienti del proprio mondo interiore. Un mondo interiore dove memoria e vivere si compenetrano (come dice Maria Lenti nella nota di postfazione) e dove il ricordo del tempo trascorso si mostra come patrimonio irrinunciabile, come promontorio sul quale costruire l’avamposto da dove resistere ai quotidiani assalti della sofferenza e del bisogno di dimenticare o, a volte, di annullarsi. La presenza, nella silloge, di quelle che in precedenza si sono definite come delle pareti di vetro, invece, testimonia il desiderio di Narda Fattori di guardare anche al di fuori di se stessa; di guardare agli altri e a quella che si potrebbe definire come la comunità globale degli uomini. C’è di più, in realtà, in questo aspetto che si sta ora analizzando. Nel passaggio finale della prima poesia del volume (“… – non gridate non piangete | – per favore non morite | non sparite sostenete questa fatica | immane del giorno | vittime e carnefici al tramonto | inestricabile che si chiama vita.”) e nelle ultime composizioni della prima delle due sezioni – quella che dà il titolo al libro – l’autrice manifesta infatti con forza il desiderio di voler condividere con i propri simili l’esperienza indecifrabile dell’esistere; esalta la necessità di dover determinare, insieme a tutti gli altri uomini, una sorta di itinerario di ricerca dove la poesia sembra essere uno strumento inadeguato a fornire risposte, ma capace comunque – come asserisce Andrea Brigliadori nella nota introduttiva – di “leggere, nella privazione di cui soffre una individuale esistenza, la privazione di vita di cui soffre il mondo.”. In Canto per Maria, la seconda ed ultima parte del volume, si narra proprio della privazione di una vita. La dimensione che contiene l’omaggio dell’autrice alla propria madre scomparsa è profondamente intima e colma di un intenso sentimento di pietà. E’ comunque possibile sentire, in questi versi dolorosi e a tratti commoventi, tutto il peso della sofferenza che la vita ci dona quando si è costretti a sopportare l’indicibile esperienza di essere madre o padre e, al tempo stesso, figlia o figlio di un genitore che sta per lasciarci (“Mai come adesso io sono tua figlia.” “Io madre ora e senza parole intere per il figlio...”). Per questo suo parlare diretto al cuore del lettore attraverso la descrizione tormentata di un vissuto comune ai più, Canto per Maria sembra proprio rappresentare quel punto di vicinanza con l’intera umanità dal quale partire nel viaggio che porterà, come si è detto in precedenza, a riconoscere nel dolore del singolo, il dolore di tutti. “Dobbiamo accendere grandi lanterne | per fare anima sulle strade del mondo.” dice Narda Fattori a chiusura di un suo testo. Questa ennesima incitazione a non chiudere gli occhi di fronte ai patimenti imprescindibili del mondo; quest’ultimo appello a cercare di sviluppare una coscienza sensibile in grado di guidare gli uomini nel futuro, sono l’essenza della vocazione civile della poesia di Verso occidente. Una vocazione che si può definire civile soprattutto perché ha il compito di ricordare, in quest’epoca di esclusiva corsa al possesso e al consumo, che ciò che gli uomini realmente possiedono, che dovrebbero aspirare a possedere, è la vita ed il vivere stesso.
Bagagli smarriti, l’ultima opera in versi di Nicola Romano, traccia come un confine, suggestivo e sottile, tra l’umano abbandono dei sensi alla vita ed il ritorno alla consapevolezza di sé; profila come uno stretto ed accidentato sentiero tra lo “smarrirsi” ed il “ritrovarsi”. Questa via, questa labile linea di separazione tra le due fonti di esperienza – le due “facce”, diremmo – che contraddistinguono il quotidiano esistere, è di fatto percorsa, interamente, dal nuovo libro di Romano. L’autore sembra porsi proprio su questo “limitare” e da qui, da questo privilegiato punto di osservazione, lo sorprendiamo a guardare, prima, gli attimi in cui l’”essere vigile e razionale” lascia spazio allo spaesamento e, poi, a scrutare il momento in cui avviene il recupero della dimensione cosciente della vita. Il poeta riconosce la difficoltà del muoversi tra gli accadimenti minimi della quotidiana “caccia” al proprio fine ultimo (Ardua è l’impresa | di imboccare fessure | misurarne il passaggio | quanto il raggio dell’anima); ma non per questo rinuncia a sublimare, per meglio analizzare, ciò che in natura si reitera quasi senza respiro. L’alternarsi dei due istanti speculari dell’esistere di cui si è fin ora disquisito è infatti, nella realtà, senza soluzione di continuità, è un tourbillon nel quale tutto risacca e gli attimi sono come martellati. L’itinerario oggetto della particolare attenzione dell’autore, questo rapido andare tra “perdita” e “rinvenimento” di sé, prende quindi il via dalla sezione Algide armonie. E’ in questo iniziale e corposo gruppo di testi che viene scomposto l’evento dello “smarrirsi”. E’ qui che – partendo dalla definizione di buffoneria del dolore tratta da Angelo Maria Ripellino e che ha forse il compito di incoraggiare il lettore a guardare senza timore alla propria essenza – riconosciamo il disorientamento che deriva dallo scoprire che forse si è solo grappoli acerbi | inchiodati nell’aria e che il nostro tempo va da un silenzio all’altro. E’ qui che il dubbio ci assale (Forse quel cielo secco è la mia casa), che l’idea della fine prima ci sfiora (stridula appare l’attesa | del prossimo niente), e infine ci coglie nettamente, (finiremo a caduta | come una secca foglia di pianeta), anche se mitigata dal dolce e malinconico sopraggiungere del ricordo. Al Trittico irlandese, alla breve e centrale parte del volume che contiene visioni sedimentate – e in un tempo presente riviste – durante uno o più viaggi nella terra di Yeats, è affidato il compito di allentare la tensione, di rompere un ritmo che altrimenti sarebbe insostenibile perché troppo vicino a scorgere la soglia della sofferenza. Calma e controllata è la voce in questo frangente e sensuale è lo sguardo del poeta che si sofferma sul paesaggio impetuoso e su cose e uomini in precedenza forse solo immaginati. E’ nella terza ed ultima parte, in Elogio delle labbra, che si compie l’opera del “ritrovarsi”. E’ in questi cinque testi che all’affiorare della cruda coscienza della morte – percepita nelle ultime liriche della parte iniziale – si sostituisce un’atmosfera rarefatta e sospesa e prende corpo una diffusa sensazione di inaspettato e velato piacere. E’ nelle poesie introdotte dai versi di Rafael Alberti che si scorge nuovamente la ragione del vivere. Si passa dal “noi” e dall’”io”, spesso “frequentati” nella prima sezione, al “tu”, dal roteare caotico degli eventi alla linearità di un sentire già sperimentato ed ora rivissuto nella stessa, lieve sorpresa di sempre. Si riscoprono i piccoli gesti che accomunano gli uomini e le donne negli affetti e nell’amore ricambiato ed il desiderio di dire, di pronunciare ancora il proprio essere al mondo emerge in primo piano, senza esitazione, anche se qui, comunque, non cambiano i giorni.
Il lungo lavoro che precede la pubblicazione di un’opera antologica rappresenta, per ogni autore di versi, l’occasione per guardare alla propria produzione passata attraverso l’inevitabile filtro critico imposto dal tempo trascorso e dalle esperienze vissute. Dare alle stampe una scelta delle liriche già in precedenza divulgate è forse anche l’occasione per cercare di rivivere le sensazioni e le visioni che hanno accompagnato la prima e ormai lontana stesura dei testi e per emozionarsi, alla rivisitazione di questi, in un modo assolutamente nuovo. Si possono quindi solo immaginare gli stati d’animo (molteplici, dolci, forse violenti e contrastati) immerso nei quali Francesco Scarabicchi ha dato la prima forma al “corpo” della sua opera antologica; ciò di cui si può essere certi, invece, è che quel rigore nel selezionare i versi da includere in una raccolta (si potrebbe dire proprio nel costruire l’architettura del volume e forse anche nell’intervenire sulla stessa con innesti, stralci e limature), che si percepiva chiaramente alla lettura dei precedenti libri pubblicati, è ora qui recuperato per testimoniare la coerenza del percorso di ricerca poetica delineato in più di vent’anni di attività. Già da La porta murata (Ancona, Residenza, 1982), passando attraverso Il viale d’inverno (Brescia, l’Obliquo, 1989) e Il prato bianco (ivi, 1997), per giungere infine a Brume (Tremestieri Etneo, Agrapha, 1999), le sillogi antologizzate ne Il cancello, Scarabicchi ha infatti disegnato un sentiero, un solco nel quale ritroviamo e dal quale si eleva una pronuncia netta ed autonoma, una voce che nel panorama della poesia degli ultimi anni si è distinta per capacità e forza evocativa. L’atto del richiamare alla memoria dal passato e l’oggetto di questa operazione, i ricordi, sono infatti tra i principali protagonisti della poesia di Scarabicchi. Questi, però, non sono semplicemente mostrati al lettore con il loro carico di nostalgia; essi sono di fatto colti nel loro processo di sedimentazione attraverso il tempo che passa. L’autore tende a recuperare un’immagine ormai trascorsa, ad offrirla sotto forma di visione breve, a volte di lampo o spiraglio (“barlumi”, li definisce Pier Vincenzo Mengaldo nella nota introduttiva) e da qui innesca come un movimento – uno scarto, si direbbe più propriamente – che spesso coinvolge il presente e che a volte sfocia addirittura in un fugace riferimento (anche solo dinamico) al futuro. Mirabile ed esaustivo esempio (nel senso che ci mostra l’intero processo di cui si è appena detto) di questa caratteristica peculiare del versificare scarabicchiano è il testo dal titolo L’immagine (pag. 55): “Di te resta l’immagine | bionda che dal cancello | ridi stringendo in mano | un fiore d’oleandro, | un’istantanea d’album | che tengo cara | ora che tutto è andato | così come scompaiono | i treni nel silenzio.”. Inoltrandosi tra le pagine de Il cancello si può anche assistere al giungere contemporaneo, improvviso, e forse per questo sorprendente, dei momenti salienti del divenire del tempo. Ciò può accadere senza che i ricordi siano i primi attori dell’azione. La poesia La nebbia (pag. 76) testimonia questo ulteriore approdo: “La sera si dilegua | fra la rete dei rami | e non so trattenerla | a questo autunno | perché adesso lo sento | che dietro non c’è niente | e davanti, con gli anni, | invecchia anche la nebbia.”. Da quanto si è fin qui osservato ne consegue che il lettore, insieme allo stesso autore, può riuscire a godere, attraverso la fruizione di questo genere di poesia e nei punti più alti di espressione della stessa, di un “panorama” davvero particolare ed esclusivo: una sorta di rappresentazione tridimensionale dell’esistere. Si può infatti vedere il passato, il presente ed il futuro – non necessariamente secondo questo preciso ordine – muoversi all’interno del singolo testo. Si tratta di una scena che risulta più vera, emozionante e coinvolgente (chi di noi non l’ha vissuta almeno una volta al cinema, con gli appositi occhiali al naso ?!). Nella geometria di testi e versi brevi – a volte in forma colloquiale, come alcuni di quelli tratti da La porta murata – che è propria della poesia di Scarabicchi, si può scorgere dell’altro, se ci si lascia conquistare appieno dal desiderio di cercare quelle “minime sorprese” che sono nascoste appena sotto la superficie dei versi. Si possono infatti riconoscere, qui, i contorni di un vasto ed articolato mosaico che prende corpo con il susseguirsi dei testi. Questo si compone lentamente, quasi in ordine sparso, si alimenta di piccole tessere che altro non sono che luoghi precisi della memoria, presenze care ed oggetti, mostra sullo sfondo un cielo carico di angoscia per l’incerto destino dell’uomo e per la sua precaria e disperata condizione (“«i vivi di qui, adesso, | dove sono ?»”, “…il resto va, | polvere di ogni vivo, | quel di più che non giunge | a perfezione alcuna.”) e delinea – in primo piano, anche se in parte nascosta da una leggera ombra di cui non si conosce l’origine – una figura nitida e come sospesa nel vuoto. Questa è il poeta; il poeta al quale è destinato il compito (diremmo il ruolo civile) di sussurrare e di camminare con lo sguardo attento alle piccole cose, mentre il resto del mondo grida e corre incurante delle istanze dei singoli e dei più; il poeta che vive nutrendosi di emozioni, mentre il resto del mondo si appropria avidamente di ciò di cui l’umanità ha disperato bisogno; il poeta che conserva, mentre il resto del mondo è intento soltanto a consumare: “Porto in salvo dal freddo le parole, | curo l’ombra dell’erba, la coltivo | alla luce notturna delle aiuole, | custodisco la casa dove vivo, | dico piano il tuo nome, lo conservo | per l’inverno che viene, come un lume.” (pag. 113). “Come il viandante | sul mare di nebbia”… E’ così che il poeta sembra muoversi nell’universo che lo circonda e che appare distaccato dalla sua quotidianità in versi; è così che Scarabicchi sembra intraprendere ancora una volta il sentiero lungo la via del tempo; forse è così che si apre l’ennesima “caccia” al futuro e ai versi di domani.
L’inno alla vita di Mario BlasiSi può affermare, senza eccessivo timore di smentita e considerando comunque le debite eccezioni del caso, che per i poeti, il successo del "grande pubblico" – quello dei non addetti ai lavori, per intenderci – è legato ad alcuni testi, ad uno solo, a volte, se non addirittura ad isolati, eclatanti versi. E' qui doveroso ricordare come siano enormemente più impressi nella memoria collettiva – rispetto ad una produzione vasta, ricca di molteplici acuti, ma quasi sconosciuta ai più – versi come M'illumino d'immenso di Ungaretti o Ognuno sta solo sul cuore della terra | trafitto da un raggio di sole: | ed è subito sera di Quasimodo. Se si pensa poi ai tanti poeti o presunti tali che il novecento ha sfornato, soprattutto negli ultimi anni, non si può non sentirsi obbligati a dire che l'interesse della critica ha sfiorato e sfiora solo una minima parte di questi, mentre il già citato successo del "grande pubblico" è veramente riservato a pochi, quasi sparuti autori. Non è qui utile dissertare sul perché oggi, forse più che in passato, la poesia sia lontana dal vivere quotidiano degli uomini. Questo scritto, inoltre, non si pone neanche l'obiettivo di ricercare le motivazioni che portano un poeta, piuttosto che un altro, a conquistare uno spazio nelle carte dei critici o trai ricordi della gente. Tutt'altro. Si desidera dare ad un testo poetico, a sei intensi e mirabili versi di un poeta poco noto, l'opportunità di essere semplicemente, anche solo casualmente, sotto gli occhi di chi – non critico letterario, singolo o parte di una comunità – possa decretare il successo al quale, parafrasando Auden, una poesia realmente aspira: non far accadere nulla...sopravvivere nella valle del proprio dire come modo di accadere, sopravvivere come bocca. Mario Blasi non ha conosciuto il successo del "grande pubblico", così come ha probabilmente solo saggiato le lusinghe della critica. Possiamo immaginarlo così: incurante di ciò che il suo scrivere suscitava, intento a produrre emozioni e stupore di sé e a sottoporre il proprio lavoro – il lavoro di una vita che larga parte ha riservato alla poesia – a ripetute e severe selezioni, a continui "salvataggi" e rimesse in discussione. Rispettando, un po’ estremizzandola, l'attitudine dell'autore di Osimo a "mutilare" la fonte della propria sopravvivenza attraverso la poesia ed applicando il criterio di massima selezione che contraddistingue il meccanismo di sedimentazione della memoria, si offre qui l'esempio (non l’unico di una vasta produzione, ma il più alto) attraverso il quale un poeta come Mario Blasi può essere ricordato.
Una poesia non dovrebbe significare ma essere pronunciava Mac Leish, mentre Eliot ha avuto modo di dire che una poesia deve comunicare prima ancora di essere compresa. Non è certo un significato razionale, quindi, o un'interpretazione condivisibile che si vuole cogliere a tutti i costi dalla lettura di Più che morte la plachi. S'intende, piuttosto, tentare di svolgere un'operazione che Blasi sembra suggerirci di eseguire per trovare un accesso al "suono del mondo", alla "visione dell'esperienza del vivere" che lo stesso autore ha probabilmente percepito e visto un attimo prima di scrivere il brano in questione. Non esiste, nei primi quattro versi del testo, un soggetto dichiarato; non appare un nome o un luogo che possano offrirsi alla vecchiaia, alla stanchezza della mente che quasi cura, che lenisce il dolore del cuore (Che tu, vecchiezza, il cuor le disacerbi) nel momento della disillusione (...all'occhio suo si discolori, | si tragga indietro indifferente e gelido | il mondo.). E' proprio grazie a questo esordio "a carte coperte" che Blasi innesca quella curiosità, quel desiderio di conoscere, che porta il lettore sensibile a tentare di trovare un varco nell'ardua fortificazione dell'intima voce impressa sul foglio. Traspare comunque, nella prima parte della poesia, tutta la dolce malinconia che deriva dalla consapevolezza dell'inesorabile avvicinarsi della fine. Dolce è la malinconia che qui si respira, perché dolce e straordinariamente intensa – oltre che lontana anni luce dal "pensare comune", e per questo eccezionalmente originale – è l'immagine della vecchiaia che si fa carico di giungere in soccorso della vita che s'indebolisce. Se nell'inizio di Più che morte la plachi non è evidente l'oggetto del versificare, nelle parole che portano alla chiusura del testo, invece (...Questo, se a lato mi pone...), é inconfutabile il riferimento al mondo, a quel mondo fatto di uomini che isola il poeta in una solitudine senza tempo. E' a questo punto che, ritornando all'uso dell'aggettivo possessivo suo, Blasi fa riapparire il soggetto non dichiarato della poesia. Questo viene drammaticamente – in un improvviso cambiamento del tono della voce poetante, da dimesso a perentorio – ad offrire il proprio dolore quale incarnazione della sofferenza del poeta (...il dolor suo, detesto...). Tale è il disagio, il sentimento di ostilità verso la condizione di isolamento vissuta dall'autore, che lo stesso arriva a detestare il dolore di un entità, il dolore in realtà provocato da quell'entità che altro non è che la protagonista nascosta delle sue attenzioni: il vivere, la vita che del dolore è madre e figlia. I formidabili versi finali...più che morte| la plachi, in me agitandola più viva ci danno, da un lato, un'ulteriore dimostrazione di quanto sconfinata possa essere l'avversione dell'autore per la pena ingenerata dalla vita (egli arriva infatti a dire che la sua ostilità è talmente grande da non poter essere placata neanche dalla morte) e, dall'altro, invece, una straordinaria testimonianza di come nella lotta tra l'essere ed il non essere e tra l'uomo ed il dolore che necessariamente lo accompagna, risieda forse l'unico vero "sale della vita", l'unica vera ragione di esistere. Osimo, gennaio-febbraio 1999
Vivere inventando un sogno Soaltà, l’ultima opera in versi di Guglielmo Peralta, narra di una terra di confine, di un luogo – delineato e descritto con sfumati riferimenti spazio | temporali – che ci appare come sospeso tra un’immagine riflessa allo specchio ed il corpo fisico della stessa. E’ proprio da ciò che s’intravede e sosta (senza peraltro essere percepito appieno – spesso affatto – dagli umani sensi) in quella dimensione in bilico tra buio e luce e tra sogno e risveglio, che i versi del poeta palermitano traggono nutrimento e di quel nutrimento, di quell’universo così etereo ed indecifrabile, raccontano. Dunque soaltà: fusione tra sogno e realtà, coesistenza di due momenti dell’essere che nel vivere comune di oggi quasi si escludono, tracciano percorsi vicini – reciprocamente visibili – ma rigorosamente paralleli. L’operazione, l’esperimento di sciogliere la realtà nel sogno e viceversa obbliga in qualche modo l’autore a produrre versi che sono innanzitutto atmosfera surreale (“…e quest’ombra | che adesso mi conduce | è una luce infinita…”; “…aggiungere stelle alle stelle | mare al mare cielo al cielo”), spaesamento (“…sogno | che prende | il posto | del luogo”) e sorpresa da condividere con il lettore (“E se ci scoprissimo | ad un | tratto | a | p a r l a r e | il linguaggio | del sole !?”). C’è poi, e soprattutto – perché è questa l’essenza della poesia di Peralta, il giungere contemporaneo del poetare e del filosofare: un verso che è già pensiero, una parola che è, al tempo stesso, dolce abbandono e profonda riflessione. E’ un esercizio, un contenuto ed una forma, ciò che si è appena descritto, che pervade l’intera architettura dei testi e che pone in evidenza la volontà dell’autore di tentare di cogliere l’istanza prima – diremmo l’urgenza primordiale – del dire umano (“Un altro cielo | è la terra | col suo verso di stelle | Dall’oblò della parola | segreta | il navigante la vede | e vi pianta il suo grido”) e di suggerire una via per vivere la vita che è oltre l’istinto della razionalità (“A l t r o v e | sarà nascita e luce e | questo senso dell’ombra | che esploro | per vivere inventando | un sogno al giorno | strappato alla saggezza | dello sguardo”). E’ un percorso che varca i limiti dell’osservare comune ai più – quell’osservare nel quale si riconosce un unico orizzonte; un itinerario lungo il quale soltanto la voce di dentro, soltanto una pronuncia alta e sincera può divenire chiave di volta per una nuova interpretazione del mondo (“S c o n f i n a r e | per giungere due volte alla meta | per trarre luce | dall’ombra itinerante || Sia sentiero di segni leggibili | la mappa indecifrabile | e acceda la coscienza | al familiare linguaggio orizzontale.”). Arricchito dall’occhio vigile e fortemente critico sulla società di inizio millennio (“In un mondo come questo | anche il consumo di una bibita ghiacciata | è un’etichetta di rivolta…”) che si scorge – unitamente all’alternarsi di stati d’animo quali la disapprovazione per le scelte umane e l’ormai amara rassegnazione per le conseguenze che ne derivano – in ?uo vadis, la sezione finale del libro, e dalle prose esplicative del “mondo di soaltà” raccolte ne Il cavaliere della visione rotonda, l’ultimo volume di poesie di Guglielmo Peralta si avvia a conquistare uno spazio nell’attenzione e nella memoria dei più attenti fruitori di poesia. Avremmo piacere che questo viaggio cominci proprio con alcuni versi tratti da Soaltà; versi che sono di buon auspicio per nuovi ed intensi esiti della poesia peraltiana: “Per quali ignoti sentieri | verrà la mia pittura di versi | a celebrare il sogno sulla tela”.
Una valle è certamente un luogo, una via, piuttosto, che assieme al lento “sciogliersi” di un fiume unisce inconsapevolmente un principio ed una fine; un varco che attorno al perpetuo moto dell’acqua crea, senza sosta, consapevolezza ed improvviso oblio di sé. Nell’ultima raccolta di racconti di Gianni Caccia, la valle protagonista del suo narrare, la Vallemme, è anche e soprattutto una scena, un contenitore dai limiti dilatati intorno al quale gli avvenimenti si compiono e lontano dal quale, oggi come in passato, gli uomini vivono dentro un tempo che sfugge, correndo veloce (…tutto accade presso i fiumi, dove nessuno passa e il tempo stesso è un’ansa pigra.). La vita che lambisce il corso del Lemme ci è mostrata dall’autore come in bilico tra realtà e fiaba, tra personaggi narrati e narranti (su tutti, quelli del racconto I ricordi del vecchio vallemmano) che tracciano un sottile confine a dividere leggenda e quotidianità e che proprio su questo confine costruiscono come una “misura” di sogno che è dolce catarsi del “vero”. Se da un lato sono i personaggi ad essere protagonisti – così come si è appena detto – dall’altro sono il paesaggio e la natura a collocare il libro di Caccia dentro una dimensione di “vita senza uomini” che lascia flebilmente trasparire l’istinto di fuga dal contesto della “società civile” di oggi e dalle costrizioni che questa impone nei rapporti tra le persone (…non potevo più tornare per loro, ma da loro, da come li avevo lasciati, se mai... la facoltà di prendersi, lasciarsi senza pegno e ugualmente riprendersi, solo per guadagnarne un piacere proprio e farne parte…). Il testo La piena, che chiude la prima parte del volume, dà il là – con l’immagine del fiume che si sta ripigliando tutto, violentemente – al secondo gruppo di racconti, al “momento” finale dell’opera. A partire da Il testamento ed attraverso gli ultimi tre scritti, l’autore disegna un mondo sull’orlo del degrado ambientale (la minaccia dell’Oxygenia), un “universo” nel quale i protagonisti sono assaliti da paure (in L’uscita) ed i sogni o i “miti” narrati sono inspiegabili, quasi principi di incubi (in Uno squarcio nel cielo). In questo contesto si vive di una precarietà che incalza e di una natura che lentamente lascia spazio ad ambientazioni sfumate. Qui, gli uomini sembrano sopravvivere ai margini dell’oblio (…uomini di nessuna città…), appaiono impotenti, desiderosi di solitudine (…quando ogni più piccola traccia dell’esterno sarà sfumata nella tenebra ed essa potrà essere mia, solo per sempre mia, nel mio cantuccio) e miseramente impegnati nella ricerca di colpevoli e di colpe che forse non esistono (in Uomini delle radure). La Vallemme dentro è una raccolta di racconti in cui i principali registri narrativi – paesaggio e personaggi, differentemente concepiti nelle due parti del libro – sono come attratti dalle aree in cui gli stessi sono continuamente posti in sovrapposizione; sono come sospesi nel vuoto, galleggianti in quell’”alone” sfocato, quasi di dormi-veglia, dove il tempo che trascorre sembra dover ancora giungere. Il risultato al quale l’autore approda è quello di un equilibrio mirabile, di una combinazione sapiente di atmosfere e contenuti che consente al lettore di avvicinarsi all’opera con crescente rapimento.
La citazione da Giacomo Leopardi [Tutto quello che noi facciamo lo facciamo in forza di una distrazione (dal nulla verissimo e certissimo delle cose) e di una dimenticanza, la quale è contraria direttamente alla ragione], che Commare pone ad epigrafe della sua ultima opera, fornisce più di un indizio sulla “traiettoria” ed il “bersaglio” che l’intenso versificare dell’autore intende tracciare e colpire. Immerso nella precarietà, | che fa la terra leggera nel cielo egli scopre e ci fa scoprire che la vera metafisica è l’evidenza dell’evento, che del solo corpo presente si vive e che l’evidenza irreparabile dell’esserci è unica ed indispensabile condizione a che si possa esistere coscienti del proprio agire e pensare; unica strategia che ci permette di guardare con lucidità tanto al di qua del perimetro dell’anima, quanto fin dentro la propria scomparsa (sedotti – comunque – dall’abisso del nulla). Questo scorgersi e sorprendersi in bilico, questo quasi “sopravvivere forzatamente” alla vita ha una sua particolare modalità di manifestarsi, però: si è, infatti, oltre il confine | della specie e di se stessi immemori, si soccombe ad una feroce astrazione che | della vita è il sale e si è spaesati in questo altrove, assenti e presenti allo stesso tempo, attori persi tra sonno e sogno nel tentativo di dar forma al mondo, che gira intorno. Cercando di far combaciare i lembi irregolari del “vero” che diviene e dell’”altrove” che si immagina, l’uomo vive, come lontano dalla ragione, nell’”accadere dell’evento” e in questo luogo si consuma, s’adagia nella dissipazione della parola creando come un vuoto nel quale è inesorabilmente costretto a persistere. Dispersione, dissipazione e dissoluzione sono “parole chiave”, quindi, vocaboli irrinunciabili, ma anche termini che possono sottendere ad una interpretazione eccessivamente negativa dell’esistere. Non è così, però, in Commare; non è così che si vive nell’universo che egli disegna. Là dove l’evento accade riusciamo a trovare la sofferenza di vivere mai rinunciataria dell’autore, l’amore, il sogno, l’intero genere umano capace di storia...e di memoria, i sentimenti che giungono in soccorso, la nostalgia, in particolare (…meglio la nostalgia | che avere generato una nuova solitudine), e l’intuizione del divino. Un divino che vive dove gli istanti giungono a stupirci (come nella domanda della bambina: un fremito che schiude la domanda | su ogni cosa viva, sull’esistente, | se tutto ciò che appare in questa landa | d’universo deve proprio esserci, | oppure se la terra, e l’io che pensa, | potrebbe solo essere un’assenza, | e allora chi sarebbe l’io che pensa?), che dell’uomo dovrebbe essere il mirabile completamento (…una parte dell’essere, | quella che manca all’intero, | fosse pure dio) e che forse, invece, è proprio l’uomo e le sue stesse sembianze e debolezze (…che dio non basta, neanche a se stesso, | come ogni io al proprio sesso,…). Nel “processo d’identificazione” che l’autore intraprende a partire dalla sezione Il segno del corpo, nella parte finale del libro, si vede, evidente, anche un nuovo protagonista muoversi tra i testi che compongono la silloge: il ricordo. Ricordo, qui, inteso come essenza dell’essere; quasi come “solidificazione” e “cristallizzazione” di quanto in vita si è visto sfumare; come spazio, o meglio scena, nella quale ospitare contemporaneamente il mito delle ere passate (Abele, Anchise, Enea…) ed il tempo “narrato” di oggi, che altro non è, poi, che nuovo mito da narrare a noi stessi. A La distrazione, a questa opera di grande respiro, a questo volume prodotto in proprio che l’autore definisce come aperto – nel senso, cioè, che anche il lettore può intervenire nel discorso, con tagli e con giunte di testo, in versi e in prosa, o d’immagini in qualsivoglia materiale (molti nomi più o meno noti hanno già partecipato al convivio), non resta che augurare di essere ascoltato attentamente, conosciuto da sempre più numerosi lettori ed oltre i limiti imposti da una distribuzione “artigianale” e praticamente “su richiesta” (tel. 055.571837; e-mail: gicomma@libero.it).
Nei versi di A passo d'uomo Dante Cerilli "costruisce" un viaggio. Non una folle corsa senza spazio per la meditazione; piuttosto, un itinerario che volge ad una sorta di intima purificazione, un percorso che è metafora di catarsi, senza colpa alcuna da espiare se non quella, forse, che nasce dalla consapevolezza dell'impotenza del proprio dire. Quattro – le stesse sezioni del volume – sono le "tappe" che conducono dove nessun cammino | si fa strada, dove si scorgono le soglie | del mare vero | che dà sollievo. In Poesie di un tempo scellerato, il primo "atto" della silloge, si registrano le certezze sulla negatività dell'esistere (l'essere di morte misura), la chiara percezione della lontananza tra gli uomini del tempo di oggi (Ed un passare è uno scorrere | e non s'arresta e non si coglie | attimo che ridia per un attimo | noi stessi e noi agli altri) e le domande che, in un crescendo di tensione emotiva – quasi di preghiera, conducono il lettore all'unico approdo possibile: all'incarnazione del mistero della vita che è Dio e alla sofferente interpretazione che di esso ne dà l'uomo, intensamente ritratta nel testo Davanti al crocifisso. Il secondo gruppo di poesie tratta quasi interamente dei cari, dei conoscenti e degli amici scomparsi. Il dialogo con questi disegna una serrata sequenza di accadimenti e circostanze vissute, una serie di profonde riflessioni sulla condizione umana che, insieme – tra loro alimentandosi, donano la struggente immagine del ricordo del padre e del prezioso "scrigno della memoria" del poeta (Supino, la città natale, che culla i suoi cari | nella Valle migliore). Anche se probabilmente mai nominato, protagonista di Volti e luoghi d'altri pensieri, la terza parte del libro, è il tempo. Un tempo in bilico tra la dimensione umana ed il rapido apparire di luoghi (a volte accuratamente descritti, a volte solo citati), colmo di vuoti e di pieni, di assenze e presenze (Chi t'incontra è fermo | da ore alla tua ombra), di visioni, volti e gesti (la mano per una volta | portala dove | non è | mai stata) che all'unisono, disordinatamente, si muovono e che senza saperlo lasciano scorgere all'orizzonte | l'attesa (impaziente) d'ogni | evenienza: l'essenza stessa del divenire. Una voce calma, una pronuncia che sfiora il canto, apre e riempie le liriche de Il mio paese è l'Italia, l'ultimo "tratto" della raccolta. La volontà di vivere la vita, la fiducia in valori come la solidarietà e la sincerità, traspaiono da una fitta rete di riferimenti a paesi e città, a scrittori e poeti che, in unico corpo, testimoniano l'alto desiderio di riscatto civile dell'autore. Questi non è solo, però; egli è parte attiva di una collettività che, coralmente, muove verso un luogo dove si può portare il silenzio | ma non l'oblio, dove comunque, magnificamente, vi è sempre un | mistero in tanto splendore | che non collima con ciascuna | delle cose intorno. Alternando un versificare che tocca sia toni colloquiali che costruzioni audaci, e non per questo non originali, Cerilli ci guida attraverso quest'ultimo lavoro che è già alto punto di arrivo, attestazione di serio e tenace impegno nella continua ri-creazione ed implementazione di un discorso poetico che sottende nettamente a quel sentire profondo che dalla poesia crea nuova e più viva poesia.
Uno sguardo – dolente e colmo di intensa rabbia – rivolto all'uomo protagonista/schiavo della vita nella società contemporanea, è il centro, il fulcro indiscusso della poesia di Teresio Zaninetti. Nell'osservare e descrivere l'uomo/consumatore muoversi tra le insidiose, nonché artefatte, promesse del potere capitalista, l'autore non assume una posizione di distacco; egli partecipa anzi allo svolgersi della storia recente della società industriale trasformandosi in una sorta di coscienza dolorosa, di voce di denuncia, comunque appartata (chi conosce le esperienze di vita di Zaninetti, sa quanto egli sia stato e sia ancora vittima degli effetti di una condizione di forzata emarginazione), che mostra, attraverso l'insistente evocazione di quelle che definiremmo le ferite provocategli dallo stesso sistema che condanna, un'umanità drammaticamente prigioniera della logica del profitto. Testimonianze della propria partecipazione a quello che al fine appare come un sotteso dolore collettivo – sotteso, in quanto non percepito dai più – sono, oltre alla condizione "fisica" di isolamento di cui si è appena parlato, il linguaggio che l'autore sperimenta e che determina l'inconsueto incalzare dei versi, ed una sorta di disincantata speranza che prelude ad una visione comunque ottimistica della vita, al mondo a misura degli occhi. Dalla quotidianità arrogante, dalla forma di comunicazione propria dei media e di quanto contribuisce a costruire l'ideale moderno e futile della cultura dell'immagine e del "già pronto"; da tutto questo prende corpo un verso veloce, sfuggente e allucinato che incarna, al tempo stesso, il desiderio di fuga dal potere esercitato dal binomio plusvalore/pluslavoro ed il bisogno di vicinanza alla ragione umana artefice della creazione del deprecabile modello di società che guarda al duemila. E' proprio all'uomo e alla sua ragione che Zaninetti delega comunque, in un estremo e ripetutamente imprevisto atto di fiducia, il compito di ricercare la via del riscatto. Se da un lato è forte la convinzione che – tanto | incompiuto resta l'uomo | tra le braccia dei padroni –, dall'altro è palpabile la certezza che vale la pena restare insieme a rammendare | il lacerato cielo sopra | questa terra insanguinata e che, seppur nemico mi trovo al lavoro –, altro l'autore non è che nemico dell'uomo che ama.
Caro Roberto, |
|
|