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Il corpo dell'essere
Postfazione a
Sul viso umano
Giovanni
Commare
Nessuno gridi allo scandalo se dico che nella lettura di questa nuova opera di
Danilo Mandolini mi sono fatto guidare dalla bussola fornitami dal suo
corregionale Giacomo Leopardi e che è nota a tutti coloro che hanno frequentato
le patrie scuole con il titolo “L’infinito”. Suggerisco al lettore di
richiamarla alla memoria, soffermandosi sulla funzione della
siepe,
che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude
e sul conclusivo
naufragar m’è dolce,
e di collocarla sullo sfondo, come paesaggio metafisico, di quella visione della
vita, eroica senza illusioni, che deriva dal materialismo leopardiano. E’
considerazione ovvia che il campo dell’esperienza, rispetto a due secoli fa, si
è enormemente ampliato sino a comprendere l’intero pianeta, così che ogni borgo
selvaggio è paese del mondo, ma nello stesso tempo si è terribilmente ristretta
ed è diventata incerta e frammentaria la conoscenza, in una sorta di azzeramento
degli strumenti del conoscere, per cui ogni
soggetto, abbandonato a se stesso dalla crisi delle ideologie, è indotto, e si
sente autorizzato, a cercare la sua propria via alla verità. Mandolini
parte da questo grado zero. Dal suo colle è sparita la siepe che limitando la
vista dell’orizzonte consentiva di immaginare nel pensiero l’infinito, così come
l’esperienza del naufragio è stata senza dolcezza e appare lacerata dal dolore.
In un paesaggio di gelo e di silenzio, mentre ogni cosa si disfa e appare forma
nuda prossima al niente, lo sguardo del viandante cerca invano la siepe, il
limite alla dissoluzione nel caos. Allora è facile cadere nel disincanto e
perdersi. Mandolini ha invece il coraggio di contemplare le fauci del nulla e di
ostinarsi a cercare la via della conoscenza, assumendosi il rischio dello scacco
e il dolore delle vite bruciate nell’ordinario procedere della casualità.
L’assenza della siepe che limita lo sguardo confina l’esperienza nel limite del
corpo, l’unico bene che possiamo presumere di possedere, e rivela che da questa
precaria condizione sospesa sull’esistere si può tentare di costruire un
percorso di conoscenza. Un tempo si poteva dire “l’uomo è la misura di tutte le
cose” (e l’assioma ha prodotto le più straordinarie avventure umane, come gli
orrori più indicibili), ora, con modestia e con coraggio, il viso umano è per il
poeta la mappa che può guidare alla conoscenza di sé e del mondo.
Sul viso umano è la storia di un viaggio che si avvia dallo
strazio di una morte.
Un dolore tanto grande che ottunde anche la memoria e che nemmeno i gesti
gioiosi d’un figlio riescono a sanare, perché ormai dominante è il disegno della
fine. Dall’orlo dell’abisso lo sguardo si volge al paesaggio e alle vicende
degli uomini e ogni cosa si rivela con stupore come fosse vista per la prima
volta. I luoghi si animano agli occhi di chi cerca tregua alla pena e lasciano
intuire la possibilità d’un riscatto, che subito cede al riaffiorare del
ricordo. La memoria tende a farsi parola e a chiudere il varco all’esperienza,
perché la parola è il morto dominio del già detto. Allora bisogna rendere
irriconoscibile l’occhio che guarda, tagliare la ridondanza dell’io e
abbandonarsi al ritmo del respiro, affinché il paesaggio trovi la sua voce e
parli da sé. Nel silenzio dell’io giunge la rivelazione che la natura parla come
corpo e che il corpo è natura. Avviene col ritmo del respiro che la memoria
rinnovata si ridesti, nutrendosi dell’esiguo spazio dell’aria.
Il respiro è il ritmo su cui è costruita questa opera che si
fonda sull’omissione dell’io e alterna le voci di dentro alle voci di fuori
(una, esplicitamente nominata, definisce la condizione di poeta), un ritmo
circolare interpuntato da pause di sospensione a segnare il passaggio a un
diverso livello d’esperienza. Così, una terza persona, voce di fuori, fa da
contrappunto all’eclissi dell’io narrando la storia di “nullo”, un nessuno
pirandelliano, la cui vita consiste dei frammenti abbandonati dalla percezione
che gli altri ne hanno e non condivisi. Egli cerca l’immagine del suo viso nel
futuro, mentre il presente è un sogno immobile di gesti ripetuti.
La seconda tappa del viaggio introduce alla relazione con
l’altro. Ha origine da un imprudente sorriso che non sa quanto bisogno d’amore
può riuscire a smuovere, aprendo un varco nel corpo desiderio, una lacerazione
difficilmente sanabile e quindi fonte di un rinnovato dolore. Ma quel sorriso ha
illuminato il mondo e ne ha fatto la residenza del visibile. L’evidenza
dell’evento balza alla coscienza: le cose per essere quello che sono non
chiedono il nostro permesso. A noi tocca la precaria proprietà del corpo, la cui
ombra ricongiunge con l’altro. Ed è una dolente iniziazione. Amore rima
con dolore, con la pena di tutti, con il sangue della storia che celiamo nella
quotidiana amnesia. Un moto di rabbia fa affiorare l’urlo
acquisito in natura che fa guardare alla speranza come all’unica passione
dell’uomo, madre dell’utopia che vola nuda contro il
sole e si scioglie di colpo al termine annunciato dell’infanzia.
Ah, le speranze, le dolci illusioni leopardiane! Il desiderio
lacerato e deluso è come l’attesa dell’estate che soccombe d’un tratto all’alito
ostile dell’autunno.
Così quella che poteva essere la festa della vita appare un
canto di sirene, vuota eco della parola, abitudine al suono del nome che indica
i volti degli uomini ma non ne dice la verità. Ma la rivelazione dell’evidenza
delle cose ora sottrae alla seduzione dell’inganno: il suono del nome non copre
la verità della cosa.
L’ apparire del vero apre alla dimensione metafisica. Si entra
in altri luoghi, dove non hanno più corso le teorie prevedibili che negano
l’evidenza: la penuria dei momenti di quiete è connaturata alla prima origine
della materia. E’ la comune pena che rende l’altro riconoscibile. Nelle
pieghe dei visi sedimenta la luce scaraventata da più cieli e, anche in quei
visi che appaiono immagini inerti e finte, le onde lunghe della comune origine
si manifesteranno con rilucente, assordante frastuono. In questa
dimensione metafisica che travalica il tempo si coglierà nell’altro non più la
sfumata presenza ma l’individuo, da percepire attraverso il respiro del corpo. E
la voce fuori campo lo teorizza: il poeta si fa sacerdote del corpo e appare
stregone agli occhi di chi alza l’argine della desolazione per sottrarsi
all’incombente piena / della vita.
La vita. Per sentirla è necessario non opporre vana resistenza
all’oblio, sabotare i meandri della ragione e guardare con l’occhio molteplice
che, istruito alla carità della bellezza, sa collocarsi in un altro tempo
e nella dimensione della lontananza. E’ il distacco del viandante sospeso
sull’abisso del nulla, che, al termine della strada, all’inizio di una nuova
ardua salita, suggerisce che è tempo di ascoltare la muta pronuncia del vuoto e
di ritrovare la voce per nominarlo. Così anche la morte si può dire con il
fiorire delle luminarie, con l’acqua che tutta torna al suo mare; basta
sottrarsi alle maschere e alla meschina memoria dei vicini passi ormai persi.
La terza tappa contempla il superamento del senso di colpa e dei rimpianti per
la morte dell’utopia e indica la possibilità di un nuovo inizio. Essa si fonda
sul riconoscimento di se stessi nella pelle prosciugata, nell’acquisizione che
l’angoscia del futuro opinabile è poco fertile e che l’agire umano è come
sabbia, la quale però è l’unico solido sentiero per il nostro cammino. Su questi
frammenti si comincia a comporre la mappa, che è
organizzata in vistose crepe,
provvisoria e precaria, certo, ma c’è ed è la nostra misura del tempo, il nostro
modo di dare ordine e senso al mondo. L’individuazione del sé segna il confine
del nuovo soggetto nella natura corpo vivo e nel qui e ora dove è possibile
vivere gli avanzi delle gioie,
a condizione che si sappia scorgere nella precarietà, la bellezza dell’esistere.
La pioggia gelata dell’inverno feconda il
rinnegato giubilo dell’estate
e si ripete il prodigio della vita, sempre ignaro della propria genesi e certo
solo che la meta è il peregrinare stesso e il morire.
La memoria, liberata dal suo peso, registra con stupore il nuovo inizio, ma non
cancella lo strazio della morte da cui il viaggio ha avuto principio e che ora
si manifesta come mancanza, come assenza. Essa ci ricorda, contro ogni facile e
illusoria scorciatoia del pensiero, che è incerta la rotta del tempo, che la
vita procede nella sua ciclica ripetizione anche senza di noi, ma che, oltre il
rancore della disillusione e del disamore, noi e loro, gli assenti, condividiamo
l’attesa che, nella solitudine e nel silenzio degli anni, si apra un varco, una
nuova ed impaziente alba.
Ho voluto essere
compagno di viaggio di Mandolini cercando di capire la direzione del suo
cammino. Certo, quella che ho dato, è una e solo una delle mappe possibili.
Perché, come in tutte le opere che accettano il rischio di misurarsi, senza la
protezione dello schema ideologico, con la condizione umana, diversi e spesso
ambigui sono i sensi del discorso. Ho voluto seguirne uno che mi sembra il
principale, quello in cui trovo la forza di questo modo di fare poesia, capace
di superare le secche dell’ermetismo e delle parole innamorate per articolarsi
in una ricerca di senso che si fa discorso necessario sul nostro essere nel
mondo.
Ho visto
crescere, di opera in opera, questo poeta capace di guardare la realtà con
occhi che svelano l’illusione. Già “l’anima del ghiaccio” (1997) ne aveva
rivelato la forza e l’originalità: come il baudelairiano re dei nembi, si
muoveva a suo agio nel tempo della memoria e fra cielo e mare per poi cozzare
con il nulla dell’agire e ricercava nel corpo il cielo e il mare, cogliendone
invece il consumarsi. Era un libro bello e, a suo modo, duro, che però, a mio
parere, nella scelta di una misura sincopata non riusciva a liberarsi del tutto
dell’eredità ermetica e risentiva di un eccesso di costruzione, quindi di
artificiosità letteraria. Con Sul viso umano Danilo Mandolini, senza
rinunziare al linguaggio fortemente metaforico che lo connota, ci ha dato
un’opera di misura classica, costruita con un lessico selezionato e coerente, ma
soprattutto una ricerca autentica che vive di vera tensione drammatica, talvolta
persino commovente.
Sappiamo, almeno
io e Mandolini, che la vita in generale, e la vita nella società mercificata
dello spettacolo in particolare, fa a meno della letteratura e anche della
poesia, tuttavia nessuno ci toglie l’illusione che una poesia come questa ci
aiuta a guardare la vita con occhi nuovi, cioè con rinnovato stupore, quindi,
forse, a vivere meglio.
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