| |
Prefazione a
Nell'ombra della terra
Angelo Tonelli
Póiesis/poiéin
è un fare, un sentire-agire che modella il linguaggio e crea un universo nuovo,
che si affianca o si sovrappone a quello del sentire e del linguaggio ordinari,
e trova dimora nella scrittura, che del sentire e del parlare poetico si fa
tramite, ed eco.
Nel poiéin della póiesis
le cose e i pensieri e le emozioni si agglutinano lungo una filigrana altra
rispetto a quella della prosa del mondo ordinario, in una trama governata dal
Dioniso fanciullo e da un Apollo più lieve di quello che sovrintende alla
dialettica, congiunti nella figura di Orfeo, archetipo del poeta che plasma il
mondo in virtù del ritmo musicale della parola, e si fa sciamano dell’anima e
della comunità in cui vive, con il compito di guidarla sempre più in alto,
sempre oltre di sé.
La parola poietica di Micheli accentua
il carattere di azione della póiesis già nella metafora bellica (il
sole è un’ arma) in incipit di questo bel libro, che mantiene
pressoché sempre un ritmo majakovskiano di battaglia – contro l’opacità del
mondo comune, il degrado della poesia a letteratura esangue, il potere
ottenebrato e ottenebrante – opportunamente intercalato dalla dolcezza luminosa
di immagini surreali e delicate, eden che dischiudono varchi di serica e
vellutata bellezza e armonia e seminano la giusta dose di utopia a partire
dall’inquietudine apocalittica (Il monaco nero) di chi è consapevole di
trovarsi nel mezzo di una decadenza civile e umana contro cui è necessario
battersi.
In questo tragitto è ben viva la
vicinanza dei surrealisti e di Campana (sultaneggiava la città medievale),
dei poeti russi e dei modernisti inglesi, in una sintesi la cui originalità si
rivela oltre che nella densità dei contenuti e delle immagini, nella serrata
ricerca di innovazione linguistica che torce la langue in una parole
che spesso rasenta la creazione di espressioni rare e ricercate, talora
destinate a restare hápax legómena (latebrare luminara aggerati
lutulento s’affoca zimarre cliname versura diasprigna) e non disdegna la
pluriglossia (and burning out in excusatio non petita).
L’opacità – a tratti davvero plumbea – della civitas (pur sempre
inscenata su uno sfondo mitologico che fa da contraltare alla crudezza del
linguaggio “sociale”) comprime l’anima e sospinge a una “teurgia di
smarrimenti” che conduce “al di là degli appresi margini dell’essere”,
in una sorta di metafisica immanente, immaginifica, umanissima e al tempo
stesso capace di evocare epifanie divine (“appare la dea/ eterna di nuovo”),
non senza rivisitazioni (con rovesciamenti simbolici significativi) della
rosa e del fuoco eliotiani, in cui si incendia la cenere del miele,
ovvero ritrova slancio l’armonia dell’amore duale e collettivo che rifibrilla,
qui davvero misticamente, nell’explicit dedicato a Iside, a suggello di
una riconciliazione che si gioca a mezz’aria tra l’ umano che va oltre di
sé e il cosmico agglutinato in un aureo intermondo dell’immagine.
| |
 |
autore |
|