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Wilma Minotti Cerini
La ribollita
Se prendi una certa strada che da Pisa porta a Cecina evitando di fare
l'autostrada per Livorno, questa certa strada non può che essere la
Collesalvetti.
Se come me la percorri per anni, può esserti capitato di fermarti da
"Marcella" cucina famigliare, specialità: ribollita di mi zio,
braciole ai ferri di mi nonno, verdure dell'orto di tutti noi, crostini e panini
alla Marcella, torta della mi cognata, caffè de mi figlioli e conti di
voialtri.
Risi la prima volta che vidi un Menu siffatto, poi Marcella stessa mi fece
osservare che questo corrispondeva a verità.
Lo zio si dedicava alla ribollita, il nonno alle carni alla brace, la
cognata alle torte, il figlio Maniero alla macchina del caffè e chi era libero
correva nell'orto retrostante a raccogliere verdure.
Beatrice, la figlia decenne, aiutava a servire a tavola con il suo
vestitino corto, entro il quale stava un corpo esile dal quale spuntavano due
braccia e due gambe un po' troppo lunghe e magre.
Avevo mangiato bene, un cibo sano e leggero, un cibo soleggiato e ridente
come l'incomparabile campagna toscana. Avevo pagato una somma modesta: la mia
mente aveva memorizzato quel posto.
Da allora ci ero tornato ogni qual volta mi ritrovavo a passare nei
pressi; era diventato famigliare incontrarci, poi da famigliare: amichevole, poi
da amichevole: un famigliare, un facente parte del gruppo, del sistema di
conduzione al punto da chiedere consigli.
Tutto questo senza esserci mai scambiati un biglietto.
Sapevano di me quel che io intendevo e volevo dire, mentre di loro sapevo
ogni tipo di problema che era comunque sempre legato al mantenimento di una
struttura famigliare che si reggeva, pur nella liberalità del discorso e della
parola, nel rispetto più profondo e nell'armonia di un rapporto basato sulla
verità e sul reale apporto affettivo di ogni singolo componente.
«Oh, nonno grullo che t'ha bruciato la carne!»
«Nipote, grulla assai tu sei che non ci cavi un ragno dal buco, sta a
vedere che son nato grullo al par tuo che non ha occhi per vedere che questa
carne è solo cotta a dovere»
«Oh...nonno che t'ha sempre ragione!»
Così, tra una grigliata e l'altra, ognuno svolgeva un compito ben
regolato e preciso, condito con quel po' di sapore che è una discussione che
volge in fondo a nulla, in quanto detta per ravvivare e che terminava, allorché
riuniti intorno a un desco, ritornava una calma soddisfatta e serena per la
fatica del giorno ormai finito.
Essendo ormai considerato uno di loro non mi era però concesso di
starmene in disparte. Si apparecchiava alla loro tavola anche per me e in
quell'occasione, alla fine della cena, non potevo evitare una fetta della famosa
ciambella che veniva preparata allorché, preannunciata da una telefonata, la
mia impolverata Giulietta Sprint grigia metallizzata terminava la corsa nel
cortile di "Marcella".
«Dottor Franceschini, com'è andato il su viaggio? Lo dica bene che non
si può stare a lungo senza passare per sta toscanaccia!
Che notizie ci porta da Milano?
Qui è sempre tutto uguale; se non ci avessimo la televisione potremmo
dire che qui ad alterarsi ci sta solo il vino con quest'annata piovigginosa!»
Era vero, tutto pareva inalterabile ed immutabile, salvo Beatrice e
Maniero cresciuti di almeno tre orli da una volta con l'altra.
Portavo sempre dei regali per ciascuno, scelti secondo i loro reali
apprezzamenti, sbagliavo solo con Beatrice che mi cresceva sempre più del
necessario.
-una cintura porta pallottole per Maniero- sapevo che la desiderava per la
caccia.
-una pipa e tabacco- per il nonno
-uno scialle- per la cognata
-una borsa- per Marcella
-un portafoglio- per lo zio
-una camicetta di seta - per Beatrice
«Zio Roberto è bellissima, ma mi sta corta di maniche»
«Beatrice se tu mi stessi un po' ferma nel crescere eviterei di
sbagliare, la prossima volta ti prenderò qualcosa di diverso, così non
sbaglierò ogni volta. Ma fatti un po' vedere!»
Come stava diventando bella, due occhi nocciola chiaro vellutati e
ombreggiati da ciglia lunghissime e folte, un viso straordinariamente sensuale
su un corpo ancora acerbo. Nessuno però se ne accorgeva e tanto meno Beatrice
che mi abbracciava come soleva lei: stringendo le due braccia intorno al collo e
stampando due sonori baci sulla mia guance.
«Beatrice, figlia di una grulla, che è questo il modo di abbracciare il
dottore?»
«Mamma, e come dovrei abbracciare lo zio Roberto?»
«Signora Marcella, come vuole che mi
abbracci? E' da quando aveva dieci anni che mi abbraccia così»
Ma questa volta era stato davvero diverso: ero io che mi ero sentito
diverso.
Le labbra morbide di Beatrice mi erano rimaste addosso per tutta la sera e
il giorno dopo. Poi la mia partenza ed i miei impegni di lavoro mi avevano fatto
dimenticare una sensazione indefinibile.
Ero tornato ancora diverse volte, ma Beatrice terminate le medie se n'era
andata a Firenze per gli studi di Magistero, così avevo lasciato per lei, come
sempre, un piccolo regalo, dimenticando completamente quel piccolo turbamento.
Il resto era immutabile. Il tempo andava di pari passo con il sapore della
ribollita sempre uguale, con quel paesaggio non alterato da insediamenti
industriali che sconvolgono un andare quieto e forse monotono, solo scandito dal
suono di un orologio che pare abbia tempi diversi, tanto sono quieti i minuti
vissuti e assaporati come un regalo che ci viene offerto per ricordare
l'inutilità di una corsa verso la fine ultima, fatta di impegni i cui programmi
coprivano in anticipo anche una parte di vita che non ci era in fondo concesso
di sapere se l'avremmo avuta.
Mi venne incontro all’improvviso, inaspettatamente senza avere il tempo
di riordinare quella parte razionale del cervello, sede della coscienza, che ci
fa dire ciò che è bene fare e ciò che invece è meglio relegare tra le regole
delle convenzioni che impediscono di esprimere liberamente l’istinto
animalesco che ci ordina di prendere ciò che ci piace.
Ero arrivato come il solito preceduto da una telefonata. Avevo percorso
chilometri pensando alle visite di lavoro che mi attendevano, avevo ragionato
con me stesso di cifre, di sconti, di discussioni. Solo negli ultimi chilometri
ero ritornato a pensare a Marcella e alla sua ribollita, non senza aver
constatato in me un certo desiderio di rivedere Beatrice. Erano due anni che non
la vedevo: Provavo una sorta di curiosità nel pensarla, scoprendo non senza
preoccupazione un compiacimento virile: «le saranno spuntati i seni, adesso
saranno lì, belli sodi, i fianchi si saranno arrotondati e le gambe si saranno
addolcite risalendo su verso il pube. Chissà se avrà ancora quel viso sensuale
così in contrasto col corpo acerbo?».
«Zio Roberto, come sta? Sono io…Beatrice!».
No, era molto peggio del previsto, molto peggio per me vederla lì in
attesa che io scendessi dall’auto.
Era semplicemente uno splendore, era sconvolgente, era una donna, una
donna giovane con un volto ed un corpo parlanti.
Mi accorsi improvvisamente di essere goffo nel ritrovarmi con le mani
tremanti, e lei in attesa che io uscissi da una vettura che rappresentava una
difesa verso l’insidia che stava a due passi in attesa di abbracciarti, come
se tu fossi sempre la stessa persona senza tempo, come se lei fosse sempre
quella brunetta dalle gambe magrissime.
Le mie sembravano improvvisamente appesantite, come se fossero bloccate da
mille legacci e nel contempo sentivo come se dal corpo uscisse uno spirito che
con un balzo saltava sulla preda per aggredirla e dominarla; come se il corpo
fosse la mia coscienza e lo spirito l’animale che non vuol essere trattenuto.
All’improvviso mi accorgevo di non volerla vedere, di non volerla
vedere: come zio Roberto.
Cercai disperatamente di collegare questa Beatrice al contesto famigliare,
cercai di pensare
al “su nonno” e a come grigliava le braciole, pensai al Fisco, alle
tasse, al Governo, alle B.R. e all’ultimo attentato di pochi giorni prima e mi
ritornò una certa calma e serietà per affrontare lo sguardo puro di una
brunetta un po’ troppo cresciuta.
«Zio Roberto, ma che fa? Non mi vuole più abbracciare? Non mi vuole
dunque più bene?».
Aprii decisamente la portiera, con un balzo mi misi in piedi, bloccai con
tutte due le mani
l’abbraccio che stava per piombarmi addosso, l’allontanai tenendola
per le spalle quel tanto perché potessi guardare meglio.
Era cresciuta come meglio non avrebbe potuto, come un seme gettato in un
buon terreno
sotto un cielo chiaro e soleggiato: era germogliato, si era fatto pianta
ed ora esponeva le sue foglie verdi, i suoi seni, il suo bacino, le sue gambe in
parte rivestite da un vestito delizioso che risaltava ancor meglio la sinuosità
prorompente dei suoi 17 anni.
Maledetta moda che studia come meglio far risaltare quelle forme!
Maledetti stilisti che passano ore per farci perdere ore a pensare a quel
vestito che ricopre quel tanto che basta per farci intravedere ciò che sta
sotto!
«Sei cresciuta in modo splendido, sei diventata molto bella sai?»
Me la trovai addosso, le braccia incrociate al mio collo, i suoi seni
contro il mio petto, il suo corpo contro il mio, un po’ troppo contro per non
dover fare uno sforzo per evitare che in me si sovrapponesse qualcosa che non
aveva niente a che fare con lo zio Roberto, non riuscendo comunque ad impedirmi
di stringerla per la vita e baciarla lievemente sul collo.
«Ti ho portato un regalo, sai?» le sussurrai nell’orecchio
«Zio Roberto, ma lei mi vizia, la mi mamma m’ha dato il regalo dello
scorso anno, me lo portò a Firenze, ho tante cose da raccontare…»
«Sulla scuola?»
«No, c’è dell’altro»
«Cos’altro?» chiesi con una certa agitazione
«Promette di non dirlo alla mi mamma?»
«Raccontami»
«Promette?»
«Va bene, non dirò niente»
«Un ragazzo di Firenze che frequenta l’ultimo anno di architettura mi
vuole sposare»
Sposare era qualcosa di enorme, era considerare che qualcuno che non fa
parte del sistema si introduce nel sistema con la facoltà di scardinarlo,
cambiarlo, rimodellarlo secondo il suo volere.
«Ma Beatrice, tu devi terminare la scuola, come puoi considerare un
ragazzo che dice di volerti sposare? Non avevi detto di avere tanti progetti?
Non volevi andare in Inghilterra?
E poi…hai appena diciassette anni!»
Non capivo se in me vi era una sorta di ipocrisia o se realmente parlavo
per il suo bene.
Si sovrapponevano due personalità distinte: una che cercava di
allontanare una sorta di minaccia ad un mio desiderio e l’altra che rivedeva
la bimbetta affettuosa di una volta.
«Oh, ma io terminerò la scuola»
«Allora va molto meglio…sei troppo giovane…attendere è saggio»
Glielo dissi non so con quale parte di me stesso, se un anonimo zio
Roberto o se la iena in agguato della sua preda addocchiata in una bella radura
solitaria.
«E poi – ripresi – tu sai che io penso che una donna economicamente
ed anche mentalmente indipendente da qualsivoglia marito mette le sue spalle al
sicuro da ogni evenienza».
«Quale evenienza?» chiese con sguardo interrogante
«Beh…diciamo che il matrimonio potrebbe non fare per te»
«Non fare per me? Ma lui è meraviglioso, il più bel ragazzo che una
ragazza possa sognare! È gentile, premuroso…Dio mio e troppo bello…ma che
dico è bellissimo…ma anche simpatico…dico che fa proprio per me tanto che
non vedo l’ora di tornare a Firenze»
«Bello! Che significa, bello! Intanto non ha ancora terminato
l’Università e poi potrebbe avere problemi, così giovane per organizzare una
vita matrimoniale…insomma io sarei prudente al posto tuo…e rifletterei con
calma e a lungo».
«Non voglio assolutamente riflettere zio Roberto, voglio sposarmi anche
se sono giovane, in fondo anche la mi mamma si è sposata a diciott’anni ed io
sono nata quando lei ne aveva diciannove.
Farò proprio come ha fatto lei»
Mi stava salendo dal fondo dello stomaco una sorta di furore, avrei
sbranato lo zio Roberto per essersi fatto credere tale. Non si può rimanere
tale quando due gambe magre nel frattempo diventano tornite da un cesellatore
sconosciuto che rimaneggia continuamente la creta per farne un capolavoro!
Ma perché i bambini non rimangono bambini e le bambine…bambine! E poi
questa non solo voleva sposarsi ma generare un infante…un infante che magari
avrebbe rovinato una vita così sottile fatta per essere stretta fra due braccia
e sollevata da terra per essere stesa sopra un giaciglio di petali profumati.
L’idea che Beatrice potesse perdere così rapidamente la sua giovane
bellezza ed il suo vago profumo di boccio mi faceva sragionare.
«Ecco pensavo di dividere un bel segreto e invece l’ho fatta inquietare»
mi disse con una certa tristezza
«Ma no…che dici…semplicemente non ero preparato a questa
confidenza…pensavo ai tuoi diciassette anni» risposi ipocritamente
«Forse non era una cosa da dire, ma non vedevo l’ora di dirlo allo zio
Roberto e, quando ho saputo che stava arrivando mi sono detta: lo dico prima a
lui…chissà come sarà contento!»
Proprio contentissimo, pensai, poi con una vaga speranza buttai là:
«Credevo che a te…andasse di più una persona matura, più posata, più
realizzata…che ti desse una certa sicurezza…insomma che ti lasciasse il
tempo di crescere con una certa armonia e che ti colmasse di premure…così
sai…mi sembrava più adatta»
«Ma per carità, zio Roberto! – disse ridendo – non potrei mai
pensare di sposare un babbo, per me quelli oltre i trent’anni sono quasi dei
babbi!»
Tieni, babbeo di uno zio Roberto! Trentasei anni di babbeo babbo, disse
dentro di me una certa voce morale che vagamente riaffiorava da qualche parte.
«E…come se la caverebbe questo futuro architetto?»
«Giovanni se la caverebbe benissimo, non ci sono problemi, suo padre è
anch’esso architetto ed ha uno studio privato…ho conosciuto sua sorella
Fiorenza, quando torno mi presenterà ai suoi genitori»
«Allora la frittata è già fatta, c’è solo il tempo di mangiarla!»
dissi un po’ burbero
«Frittata!…È una bruttissima espressione zio Roberto…io sogno il mio
abito da sposa e tanti fiori di gelsomino…e la mia nuova casa a Firenze e…»
Mi sorpresi a pensare a Laura, laggiù nel grigio di Milano che aspettava
da tanto tempo i gelsomini. Improvvisamente la rividi nella sua calda attesa di
una mia decisione; lei così saggia ed anche bella, così realizzata nella sua
indipendenza…eppure…così in attesa.
Laura, intelligente, con la quale avevo affinità di pensiero, con la
quale da tre anni ridevo per la sua capacità di far sorridere anche i morti.
Con lei mi sentivo bene anche se la mia profondissima avversione ad essere
incatenato stava lentamente scemando, e lei, la furbissima Laura, non aveva mai
chiesto di incatenarmi e proprio per questo mi incatenava.
Ma che mi ero proposto di fare con Beatrice?
Avevo covato il segreto piacere di attizzare un fuoco con un rametto verde
ed ora questo mi stava bruciando gli occhi. No, bisognava ammetterlo, un camino
si alimenta di fuoco e di calore solo con tronchi che fanno durare la fiamma che
zampilla con colori intensi e sfumati.
«…verrà….dunque!» incalzò Beatrice
«Scusa …verrò dove?»
«Ma al mio matrimonio!»
«Beh!…Vedremo…certo…certo verrò se potrò…Beatrice non hai
ancora guardato il mio regalo!»
Inchinando leggermente il capo, con un viso sognante come certe Madonne
del Botticelli, Beatrice prese a scartare il pacchetto, piccolo rivestito di
carta dorata: Poi lo aprì e vide il bracciale d’oro fatto di tanti cuoricini.
«Ma questo è un regalo di nozze! È magnifico!» disse sorridendo felice
«In un certo senso... – risposi pensando a quando l’avevo scelto per
farle colpo e pensando alla pazzia di poterne aggiungere altri con gli anni –
consideralo quasi un regalo di nozze…anche se avevo pensato alla tua
promozione»
Senza avere il tempo di replicare mi vidi il collo allacciato da due
braccia fresche e due labbra morbide mi stamparono due sonori baci sulle guance.
Li ricevetti come l’estrema unzione sul morente sorgnone che con fatica
defungeva.
«Adesso si che mi sento veramente il babbo» le dissi con un mezzo
sorriso mentre guardavo le ceneri del babbeo.
«Ma no! Lei rimarrà sempre lo zio Roberto di quando ero piccola»
* * *
La ribollita era là, fumante in mezzo alla tavola.
Avrei voluto essere mille miglia da lì.
Tutti intorno alla tavola.
«Dottor Franceschini che c’ha! Mi pare un po’ stanco…dica, dica
pure che sta Milano è sempre più impossibile viverci!» dice Marcella
«Che non ha fame stasera!» dice il nonno
«Mamma, nonno, zii, Maniero, guardate che m’ha regalato lo zio Roberto
per la mi promozione!» dice raggiante Beatrice lanciandomi un carezzevole
sguardo e facendo vedere il braccialetto.
«Lei ci vizia troppo…e specialmente Beatrice» fa Marcella guardandomi
con affettuosa soddisfazione.
Ad un certo punto il telefono squilla.
Tutti alzano il capo un po’ sorpresi, meno Beatrice che attende.
Maniero torna «È per te Beatrice, un certo Giovanni da Firenze»
Mi lancia uno sguardo d’intesa e corre come quando una nuvola rosa si
dondola al vento primaverile.
«È un regalo troppo importante…per una ragazzina» mi dice Marcella
«Ma no….– rispondo con stanchezza – È che…per parecchio tempo
non potremo più vederci, il mio lavoro mi porta in un’altra zona»
«Oh…che questo ci dispiace» fanno in coro.
«Questa sera, nella ribollita, ci avevamo messo anche i funghi….i
primaticci…questa sera è veramente una specialità per il nostro dottor
Franceschini» dice lo zio
Guardo di traverso il confabulare di Beatrice.
Torna raggiante.
«Mi sono appena fidanzata – grida ai suoi – mi sono fidanzata con
Giovanni»
«E…che è sto Giovanni!» fa Marcella
«Giovanni…è Giovanni…è Giovanni!» grida a se stessa.
«A grulla…Giovanni…chi?» chiede il nonno
«È Giovanni….è Giovanni» ripete emozionatissima
«Calma e sentiamo che è sto Giovanni» dice il giudizioso Maniero.
Beatrice parla e parla, un susseguirsi di domande e risposte.
Mi sento un estraneo. Ma che ci faccio qui?
Tutto si raffredda, la ribollita è quasi ghiaccia.
Sono stanco, voglio ripartire subito…penso a Laura, ho voglia di lei, ho
bisogno della sua voce.
«Dovrei telefonare» chiedo
«Dottor Franceschini questa è come la su casa, faccia, faccia pure.
Telefoni dove vole, stasera si fa festa…Beatrice si è fidanzata»
Mani stanche fanno un numero.
Risponde subito.
«Laura….»
«Roberto, tesoro, come stai?»
«Ti andrebbe domani sera di preparare una cenetta per noi due soli, devo
dirti qualcosa di importante…di molto importante».
«Si» dice con un fil di voce, colta dall’emozione.
«Noi due soli» ripeto.
«Vuoi che ti prepari il tuo piatto preferito…la ribollita?»
«No! Di ribollita non se ne parla più per un pezzo…non
mi importa cosa si cena…ma come si cena»
«A domani, tesoro»
«A domani, Laura».
Torno, tutti hanno dimenticato la cena.
«Devo ripartire immediatamente – dico con viso costernato – un
impegno improvviso»
«Non è successo nulla di grave, ci auguriamo!»
«No, no state tranquilli…è qualcosa di molto buono, ma urgente»
«Allora la salutiamo dottor Franceschini…..non ci dimentichi…venga
ogni tanto da queste parti, perché non si può stare a lungo senza sta
toscanaccia!» ride Marcella giuliva per sua figlia
Tutti mi abbracciano, per ultima Beatrice.
«…Ma si che sarai felice col tuo Giovanni…tanti auguri Beatrice e
rimani bella così più che puoi» le faccio scarmigliandole un po’ i capelli.
«Grazie zio Roberto»
«Ti manderò un bellissimo regalo di nozze»
Tutto alle mie spalle.
Sono un nuovo Roberto.
Faccio tre respiri profondi, che stronzo sono stato!
La sera è bella, la Toscana anche, è quasi notte.
Laura mi attende. Le porterò dei gelsomini.
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