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Nota a
Estate di fuoco
c.f.l.
Siamo nel 1944, in Toscana: ormai è
estate. In molti è forte la speranza che la guerra stia per finire, tutti
aspettano da un momento all’altro i «liberatori», e per questo si fa più
difficile tollerare e comprendere le ragioni e le violenze di un conflitto che
dura da troppo tempo.
Tutto comincia la notte del’11 giugno,
vigilia del Corpus Domini. L'azione del gruppo partigiano è rapida: un treno di
esplosivi, fermo sui binari nei pressi di Poggio alla Malva, salta in aria: un
boato tremendo, un lampo, un grande fuoco squarcia la notte: è la scintilla che
incendia l'estate.
La guerra irrompe con tutta la sua
forza nella vita del paese, e in quella del protagonista, l’Autore stesso,
allora ragazzo di undici anni che ha appena lasciato le elementari. Per la prima
volta, vicina, egli sente la morte: ne rifiuta perfino l'idea, finché può, poi,
costretto dall'evidenza, l'accetta: Ario, un partigiano, ma soprattutto un
amico, un compagno, non vive più, perduto dalla sua stessa generosità.
Il giorno di festa si è macchiato di
sangue, e nel ragazzo qualcosa si rompe: egli avverte questo cambiamento, ma non
sa dargli ancora contorni precisi: il suo guaio, dirà, è di «essere troppo
piccolo per essere grande e troppo grande per essere piccolo», cresciuto
abbastanza per cogliere negli occhi degli adulti il dolore, troppo bambino
ancora per affrontarlo.
Un sentimento strano, prima
sconosciuto, si insinua in lui: è la paura, il senso di incertezza e di
provvisorio che lo circonda, è l'incubo degli aerei, i solitari ricognitori, o i
bombardieri con il loro carico di morte, che la presenza della «Nobel», una
fabbrica d'importanza strategica, attira come la preda gli uccelli rapaci. Gli
aerei: saranno primi attori nel racconto, saranno presenti in ogni pagina.
Quando arrivano, li annuncia un rumore lontano, uniforme e ancora non si vedono,
ma presto riempiono l'aria di un rombo assordante e si deve fuggire, cercare
riparo: quando non ci sono, si aspettano, sempre, si sa che verranno e
l'orecchio è all'erta per coglierne il primo segno.
Il paese non è più sicuro per questo
ragazzo che è ora guidato dal solo istinto di conservazione: egli ama i luoghi
dove ha passato tanti giorni sereni, fitti di giochi, ma, bersaglio dell'attacco
nemico, essi rappresentano un pericolo e li vuole lasciare. In campagna, dove
«sfolla» con la famiglia, sembra trovare un po' di tranquillità: il frastuono
del conflitto vi giunge attutito, può capitare perfino di dimenticarlo per
perdersi ad ammirare, affascinato, le mille evoluzioni di una barchetta di
foglie tra i vortici di un torrente; può diventare anche un gioco, la guerra,
nella pazza corsa attraverso i luoghi scoperti, esposti al nemico: una gara
atroce, perderla può voler dire perdere la vita. Senza amici, c'è anche il tempo
di annoiarsi, ma soprattutto di pensare, di porsi domande, di diventare
«grande».
Il racconto, autobiografico, si
consegna alla storia: storia di un'intera generazione, ma anche dei dubbi, delle
debolezze che caratterizzarono quei tragici, contraddittori momenti. L'Autore
non vuole nasconderli: si colgono nei commenti della gente di Poggio alla Malva
‑ ma potrebbero essere degli italiani tutti - dopo l'attentato partigiano: per
alcuni è eroismo, per altri, timorosi per la propria incolumità, è «atto da
criminali». Si colgono nello stupore dei bambini che, ammaestrati a dire sempre
la verità, non capiscono perché debbano mentire quando a interrogarli è un
tedesco. Si colgono nell'assurdità di certe situazioni per cui bisogna amare gli
Alleati, «i liberatori», che vomitano dal cielo morte e distruzione, e
considerare nemici il sorriso e lo sguardo azzurro di un giovane tedesco.
La narrazione in prima persona dei fatti, passati al vaglio imparziale della
memoria e addolciti dall'affetto, riesce a coinvolgerci e a farci partecipi di
una tragedia che sconvolse il mondo. E siamo felici di vedere qui protagonisti
l'umanità vera, la gente semplice, quella che più ha sofferto e sulla quale la
stona, quella ufficiale, raramente spende una parola.
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autore |
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