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Premessa dell'autore a
Poeti e uccelli
Dietro la spinta dell’urbanizzazione, altri spazi verdi scompaiono.
Rimane qua e là ad anemizzare un praticello con un albero superstite. Ecco
precisarsi da un giorno all’altro il tracciato delle strade, percorse da
automezzi carichi di materiale da costruzione; e schiere di geometriche gabbie
di cemento sorgere accanto e dietro ad altre schiere sotto i bracci instancabili
delle gru.
Nei
palazzoni che sono sorti ho pur sempre notato affacciarsi qualche anziano, il
cui sguardo va ad urtare contro il prospetto gremito di occhiaie di finestre;
nei balconi stanno, dietro la ringhiera, bambini prigionieri e c’è qualche
uccello, pur esso prigioniero nella gabbietta. Così, talvolta, salgo a ricercare
il verde sulla collina, ma constato con amarezza che, col passare degli anni, la
campagna si fa più vuota e silenziosa. Mi capita di vedere in un pendìo
vitifero, lenti, soli, malfermi, lungo un filare, un attempato agricoltore e la
sua consorte vestita di scuro.
Le
ruspe hanno impietosamente, a poco a poco, abbattuto i tradizionali divisori per
non frapporre intralci al trattore che deve andare in fretta durante i lavori,
trainando le macchine nelle vaste, monotone monocolture.
Sono
cadute siepi, muricce, cespugli ed alberi isolati. Con la loro scomparsa, e con
quella conseguente degli abituali abitatori, è stato compromesso, o si è
dissolto, l’equilibrio dell’ecosistema.
Più
non ci attira il piacevole profumo dei fiori di biancospino, di rosa canina, del
ligustro, del caprifoglio; il ronzio degli insetti, come dei tozzi bombi, buoni
impollinatori, o delle pecchie solerti; delle cetonie, prima che si posino,
bronzodorate, sulle rosette carnicine o sulle bianche e odorose infiorescenze
del sambuco.
Soltanto un grato ricordo dei giorni maggiaioli dell’infanzia è rimasto il
macaone, la lenta ed elegante farfalla, con le sue ali gialle, con venature
nere; la ricerca delle delicate primule annunziatrici della primavera; delle
more lucenti tra le foglie dei fusti aculeati; o di rosse còrniole, di dolci
sorbe, di brune nespole asprigne, di fragolette di bosco... E soprattutto più
non ci sorprende lo svolazzare degli uccelli.
Mi è
rimasto della fanciullezza un bel ricordo che ho cercato di tener separato da
altri paurosi, poiché si riferisce al tempo dello sfollamento in campagna,
durante la fase più tragica dell’ultimo conflitto.
Ricordo di quando esploravo, insieme con i figli del contadino, il corso di un
ruscello che scorreva sotto una fresca galleria formata dai flessibili rami di
salci e di vinchi, con la sua acqua tersissima. Ad essa di tanto in tanto
scendevano a bere gli uccelli. Nella fantasia mi si sono, poi, trasformati in
alati dall’apparenza vistosa...
Anche
quelli che vedevo, comunque, mostravano una certa varietà di tinte. Non ne
conoscevo bene, allora, il nome, ma erano di certo verdoni dal colore verde
dorato sul dorso; e cardellini, che mostrano il nero, il bianco, il rosso e il
giallo, ma sono soprattutto distinti dal capino rosso; fringuelli dalla gola e
dal petto rossicci; ciuffolotti, in cui contrastano il grigio, il rosso, il
nero; e, in particolare, le cince dalla varia famiglia, che hanno il dorso verde
gialliccio, giallo il petto con strisce nere, e grigie le ali…
Divenuto maestro, trascorsi i primi anni di scuola in un villaggio di montagna e
nelle mie passeggiate (quando finalmente la primavera si faceva piena, a maggio)
mi lasciavo piacevolmente guidare dal volo nascosto e dal verso del cuculo, sino
a che s’affiochiva nel folto d’un boschetto, come quando una lusinghevole
attrattiva, fattasi irreale, ci abbandoni.
A
sera, al cuccù si sostituiva il chiurlare dell’assiòlo, remoto e lamentoso là
dove più intatto era il sonno della natura. E mi era gradito ascoltare, sempre a
maggio, l’appassionato gorgheggìo notturno degli usignoli che proveniva dalle
macchie; si prolungava sino all’aurora ad allietarmi il risveglio.
Di
giorno mi fermavo a guardare da lontano uno stormo di cornacchie che formavano
una macchia nericcia sul tappeto d’un praticello; e mi giungeva il loro
crocidìo, simile a una fitta ciarlata.
Ancora, quale maestro, sono stato in cima a una collina, in un paesetto, i cui
tetti, molti coperti di vecchi coppi, si animavano in primavera del cinguettìo
delle passere e del pigolìo delle loro nidiate, nonché di quelle delle rondini.
Le migratrici, tuttavia, prima numerose a far giri e a garrire attorno al
campanile, ad ogni bella stagione tornavano in uno stormo sempre più sparuto.
Potevo vedere scendere nel giardino della scuola un merlo, elegante nella sua
invariabile livrea nera e, ai primi freddi, ricomparire un pettirosso, che
gonfiava ormai il suo piumaggio.
Andando per un sentiero un poco discosto dall’abitato, mi capitava di
sorprendere lo scricciolo che, marrone tra gli sterpi, penetrava sicuro in una
fratta.
Spesso mi giungeva il grido, il paupulare d’un pavone; e non potevo non fermarmi
ad ammirarlo da vicino, in specie quando si compiaceva di allargare a ventaglio
la coda ocellata.
Ormai
vedo gli usuali passeri e qualche merlo svolacchiare da un terrazzo all’altro o
negli esigui quadrati verdi; ma è soprattutto guardarne qualcuno che s’è posato
sull’albero scheletrico di un’antenna televisiva che mi riempie di malinconia, e
ancor più se è una tortora che geme. Ritorno perciò ad attingere letizia dalle
pagine (più volte lette contemporaneamente alle dirette osservazioni che mi sono
state possibili) di quei poeti e scrittori che hanno ammirato e ascoltato gli
uccelli.
Inizio dallo “Elogio degli uccelli”, la più lirica delle “Operette morali” di
Giacomo Leopardi. Il Recanatese, nel suo tedio, riceveva conforto e diletto dal
canto che “l’uccello fa quando egli si sente star bene e piacevolmente” e che
diventa così simile a un riso.
E
anche invidiava gli alati per la vispezza, il brio, la mobilità di cui sono
dotati e che permettono loro di sfuggire alla noia.
Il
Leopardi aveva certo letto i bei capitoli che nella sua opera “Il genio del
Cristianesimo”, François-René de Chateaubriand (1768-1848) ha dedicato agli
uccelli. Adempiendo alla volontà della Provvidenza -dice lo scrittore romantico-
essi devono incantare gli uomini: il loro canto è fatto per l’uomo. E così
fanno, ancorché prigionieri dentro una gabbia...
Ma
quanto è più dolce ascoltarli quando vanno liberi nella natura, dove pare che la
stessa bontà divina li guidi, in particolare nella costruzione dei nidi, così
diversi tra loro!
Chateaubriand ha seguito religiosamente il canto “inebriato e palpitante”
dell’usignolo, nell’ora serale, che meglio induce al raccoglimento e alla quiete
dell’animo stanco. E in tale ora anche Gabriele D’Annunzio è rimasto con l’animo
sospeso alla voce “liquida e forte” dell’usignolo. []
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