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Nota critica sulla silloge
di Daniela Quieti
nell'opera collettanea
I Poeti del Drago

Davide Rondoni

Daniela Quieti ha la sorpresa – quasi per lei medesima – di una poesia che si dispone senza inquietudini apparenti a servire la vita. Un diario di anima che fidandosi delle parole e della loro disponibilità chiama la poesia a essere modo per conservare il cuore, cioè il fuoco dell'esperienza. Si tratta di una poesia che si articola in modo piano. Secondo una disposizione che da un lato riprende la lezione certo di Ungaretti (o di quel che si pensa abbia fatto lui, ma la cosa è più estrema) e dall’altro sta ancora cercando probabilmente una propria riconoscibile voce, la poesia della Quieti ha una gentilezza abitata da una forza enorme. Testi abitati da una grazia inquieta. Dalla sorpresa, quasi, che la poesia possa davvero adempiere al supremo compito che la poetessa delicatamente implora di serbare il vivo del cuore. Ma la poesia, ancora una volta, può e non può. Non è la letteratura un dio che ci possa salvare. Ma il luogo – come la Quieti sa bene – dove la nostra insufficienza si fa voce, e il nostro disastro, e la nostra speranza. Lei con fare gentile e potente ci sta provando.

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