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Postfazione a
Il lazzaretto di Dio

Veniero Scarselli

La poesia della filosofia

Non so se ciò che mi è capitato di scrivere si chiami poesia nel senso che oggi si attribuisce a questa parola, ma mi pare comunque che le mie elucubrazioni scritte in forma di poemi assomiglino più a quelle di un dilettante filosofo che a quelle di un dilettante poeta. Peraltro confesso di essere impudicamente compiaciuto d’aver dato questa impronta di “pensiero” alla poesia; anche se a dire il vero pronuncio la parola poesia senza convinzione né entusiasmo a causa dell’odierna omologazione istituzionalizzata in cui essa versa, a petto della quale la mia farebbe sicuramente la figura di un alieno.

Quanto al contenuto di quelle elucubrazioni, so bene che oggi la metafisica è stata da tempo messa in soffitta da un’allegra scienza neopositivista che le ha vietato di speculare sul mondo invisibile con l’aiuto della fantasia, come si faceva nei bei tempi andati, e con ciò le ha tolto l’unica cosa che avesse di buono: appunto la fantasia. Eppure, paradossalmente, sembra che oggi sia proprio la fisica moderna a fare con bella fantasia della vera metafisica, riprendendosi l’antico diritto ad esprimersi in una sorta di poesia che parla di antimateria, buchi neri, universi paralleli, particelle sempre più elementari e strane forze che terrebbero in piedi questo nostro casuale universo. In così buona compagnia, mi sarà quindi risparmiato di dovermi vergognare per aver fatto anch’io un po’ di fantasiosa metafisica.

Dati dunque i contenuti fantasiosi delle mie riflessioni poetiche, sarebbe pretendere troppo sperare che qualcuno abbia la pazienza di esaminarli in dettaglio per sbrogliare i nodi e forse le contraddizioni dei pensieri che spesso per imperizia espressiva sono stati troppo sinteticamente e poco chiaramente esposti; me ne sono quindi accollato la fatica con questo forse insolito saggio auto-esplicativo, sperando con ciò di rendere più accattivante e soprattutto più comprensibile la lettura del mio lavoro “poetico”. Chiedo tuttavia anticipatamente venia, se più di una volta mi avrà tradito la debolezza di un certo autocompiacimento facendo salire le trombe del mio dire oltre il rigo consentito da una onesta esternazione.

Livelli di lettura del poema

Come ha osservato Federico Batini nel suo introduttivo saggio-intervista, la fruibilità di questa “poesia” ammette diversi livelli di approccio. Questa sua peculiarità gli è consentita dal fatto che l’Autore non ha posticciamente “incollato” delle liriche nate singole facendone delle sillogi, ma ha investito tutta la sua produzione esclusivamente sul poema, che essendo legato da un filo conduttore narrativo o di pensiero si presenta come un blocco monotematico e al contempo permette forse di avvincere il lettore con una trama o una serie concatenata di riflessioni. L’unica variante è di essere costituito da stanze (o meglio “lasse”) le quali, pur restando strettamente nel tema e seguendo un filo conduttore, presentano una certa seppur limitata autonomia, in modo da permettere al lettore di soffermarsi a riflettere, a rileggere, o... a riposarsi.

E’ bene insistere su questa caratteristica della rigida unitarietà monotematica, nonostante che le singole “lasse” - come nelle singole scene di un film o nei capitoletti di un romanzo - possano diversificarsi per immagini, paesaggi, riflessioni, emozioni. E’ appunto tale pratica poematica, a consentire di fruire questi poemi a diversi livelli, salendo da quello più semplice, quasi puramente ritmico e musicale, a quello lirico-emozionale del singolo brano o della singola lassa, a quello più o meno avvincente della trama narrativa, a quello infine più alto del messaggio filosofico o religioso. Questa peculiarità di scrittura ha fatto dire al compianto linguista Giancarlo Oli che “in questa pluralità di accenti e di echi, talvolta sovrapposti, talaltra giustapposti o variamente distribuiti lungo il testo (...) consiste il fascino che Scarselli esercita su di me; è il primo autore che dai tempi della scuola provo il gusto di leggere e rileggere”. Anche riguardo la speciale strutturazione dei poemi in stanze, che potrebbero a prima vista essere scambiate per poesie singole, è lo stesso Oli a metterne in evidenza la continuità e la loro analogia con le “lasse” della medievale Chanson de geste: “Dileguato il carisma ideologico dello Stilnovo e non ancora istituzionalizzato il canone della imitazione petrarchesca (...) si individua nei due secoli in questione quasi un vuoto ideale che Scarselli arriva dal ventesimo secolo a colmare riguardo certe forme e certi contenuti. Tutti sanno come la francese Chanson de geste facesse parte del corredo di letture di quei tempi, senza tuttavia che si trovi in alcun autore italiano dell'epoca un solo esempio di quel tipo di narrativa strutturalmente ritmata in lasse: fatto, guarda caso, che pare una condizione espressiva connaturata e insostituibile nella poesia di Scarselli” (L’Indipendente, 27.01.1993).

La poesia della filosofia

Molti hanno ormai esaminato i livelli metrici, lessicali, epico-narrativi e lirico-emozionali di questi poemi, ma per lo più hanno trascurato di illustrarne i contenuti di pensiero che a me, filosofastro dilettante, sembra invece costituiscano il livello di lettura più importante, oltre che uno dei più caratteristici. Si è parlato infatti di “poesia di pensiero”; ricordiamo sopra tutti per le loro estese trattazioni monografiche Vittoriano Esposito (“La riflessione poetica”, Campanotto 1997), Gianna Sallustio (“Oltre le colonne d'Ercole”, Ursini 1998), oltre alla presente introduzione di Federico Batini; ma vi furono molti altri entusiasti, fra cui Mario Sansone e Vittorio Vettori. Talora qualcuno, abituato all’odierno andazzo ermetico-intimista-minimalista che purtroppo confina la poesia in un ghetto per “addetti ai lavori”, si è trovato un po’ spiazzato, forse ricordando se stesso sui banchi di scuola alle dure prese col Paradiso dantesco. Eppure non mi pare che il pensiero poetico di questi poemi sia altrettanto difficilmente avvicinabile, poiché tratta di problemi esistenziali che sono il pane e il dolore quotidiano dell’uomo di oggi. Vale la pena riportare il giudizio di Mario Sansone sul secondo libro Pavana per una madre defunta: “Veniero Scarselli compone un libro di poesia sconvolgente fondato sopra una rigorosa e sconsolata concezione della realtà. Muovendo da dottrine scientistiche e materialistiche (del resto sempre ricorrenti nella storia del pensiero) egli, oltre le cotidiane ed empiriche angosce del mondo, cerca e scopre (anche questa, esigenza ricorrente del materialismo) l’origine dell’Io e dell’Autocoscienza e li riconosce nella struttura stessa della materia vivente, come la Forma che ambisce, specie nella esigenza dell’Autocoscienza, all’unione perfetta con la Materia, il cui compimento è la Divinità”. Come anche quello di Vittorio Vettori nella prefazione al quinto libro Eretiche grida: “Lo scavo in profondità nella dimensione viscerale e labirintica della natura umana si accompagna alla convinta e convincente assunzione in proprio di quel pensiero cristiano classico, eretico per l’effimero delle mode e delle retoriche, ma ortodosso viceversa in una prospettiva di verità eterna che fa storicamente capo alla coscienza cosmica di Giordano Bruno, su una linea dove si ritrovano di secolo in secolo i massimi araldi dell’anima rinascimentale italiana, da Dante a Michelangelo, S. Francesco, Campanella, Galileo, Vico, Rosmini, Gentile”. O quello di Gianna Sallustio nella citata monografia: “Scarselli è convinto, e noi con lui, che la poesia fornisce una conoscenza intuitiva del mondo, una conoscenza emozionale della verità non percorribile dalla ragione (...) Sperimentalismo d’avanguardia e astrattismo minimalista vengono quindi messi al macero come sterili rami d’una cultura artificiale che non porta alla conoscenza (...) Questo itinerario ascetico è perseguito con laica perseveranza dal logos lirico in un’esplorazione senza veli del divenire umano, animale, cosmico (...) Scarselli è stato paragonato a Lucrezio, avendo in comune con lui la rappresentazione ora scientifica e ora metafisica del mondo, sempre turgida di un’ansia di riscatto e di trascendenza”.

Tutti d’accordo dunque nel definire le mie riflessioni poetiche una sorta di appassionata poesia di pensiero anche quando mi sono avventurato nei concetti più astratti. Ma quando ciò accadeva, non lo facevo a cuor leggero; a illustrare la mia iniziale perplessità, può essere interessante rileggere una mia lettera del ’92 a Vittorio Vettori, definita da questi “accorata e toccante” perché in un certo senso rivela un mio lato debole; lettera che lo stesso Vettori riporta nella sua prefazione al mio quinto libro Eretiche grida e nella quale si sente quanto il mio approccio ai concetti filosofici più ardui sia sempre di stampo emozionale: “Spero di aver ripulito il testo da formali asperità e di averne migliorato l’intelligibilità. Forse i miei sforzi di rappresentare concetti astratti col linguaggio figurativo e immaginifico della poesia sono quelli di un’impresa disperata. Eppure, dato che la mente umana non può rappresentarsi le astrazioni se non raffigurandole con metafore tratte dal mondo concreto e naturalistico, questa deve essere necessariamente la stessa operazione mentale che fanno anche i filosofi. Credo quindi che il linguaggio poetico possa conferire ai loro concetti una maggiore incisività, introducendovi il colore delle emozioni. Così, anch’io spero di aver dato un po’ di colore alle enunciazioni più astratte. Sarà vero? Finora nessuno ha mai parlato di questo mio tentativo, che vado facendo fin da Pavana, di esprimere l’astratto col linguaggio figurato della poesia. L’unico ad approvare questo mio sforzo è stato Mario Sansone; ma non mi sento ancora del tutto rassicurato circa la riuscita poetica (...) E’ un problema che mi tormenta moltissimo: c’è della poesia nei brani filosofici dei miei libri? O danno piuttosto la sensazione di una fredda e cerebrale ricerca?”

Ormai i riconoscimenti ottenuti mi hanno rassicurato sul fatto che i concetti più astratti possono essere trasformati in figurazioni e metafore poetiche così convincenti da farne trasparire il pathos, anche se talvolta possono essere così virulente e provocatorie da... violentare il lettore. Tuttavia l’intera opera presenta un corpus di pensiero omogeneo e coerente che non è stato finora molto esplorato, forse perché esso si trova frammentato qua e là ed è andato prendendo forma nel susseguirsi dei poemi, dalla semplice intuizione originaria dei primi all’abbozzo sempre più definito degli ultimi, e raramente si trova enunciato in modo esplicito ed esauriente. Il bagaglio di pensiero che comunque anima questi poemi si ispira alle teorie filosofiche e scientifiche passate e moderne più diverse, spesso antitetiche, ed anche questo mi pare faccia di me più un “pensatore dilettante” che un poeta; sarà perciò utile enuclearne le idee direttrici, dato che queste costituiscono l’assunto, la struttura portante e il fine stesso dei miei poemi. Nondimeno, essendo incapace di separare l’emozione dal pensiero adoperando le fredde e distaccate enunciazioni dei veri filosofi, ho chiamato riflessione poetica l’intento in essi perseguito.

La riflessione poetica

I principali motivi che mi tormentano, e sono oggetto della mia esplorazione, sono le questioni esistenziali che da sempre assillano l’umanità: il significato e la funzione della morte nell’economia della natura, l’esistenza dell’anima e il suo rapporto col corpo, l’esistenza e la natura di Dio, la struttura dell’Io individuale e il suo rapporto col mondo esterno, la natura del Male e del Bene. Ma la mia curiosità e il mio abito mentale di ex ricercatore scientifico mi portano quasi naturalmente a riflettere in molti altri campi del pensiero, da quello naturalistico e antropologico fino agli aspetti più umili della vita, e ciò mi permette forse di trasportare in poesia una visione del mondo variegata e probabilmente diversa da quella dei poeti-letterati.

Questa poetica è dunque molto semplice, e si può sintetizzare dicendo che è la stessa ricerca del Vero e la stessa sete di conoscenza che negli anni giovanili avevo creduto ingenuamente di soddisfare con la ricerca scientifica. Accortomi dell’inettitudine di questo strumento a dare risposte generali, ho scelto di ritornare al primo amore, la poesia, trasportandovi la stessa passione per il Vero e la stessa insofferenza per il particolare e l’insignificante. Nella nota biografica di Pianto di Ulisse (la riduzione di Isole e vele pubblicata con questo titolo nel 1997) ho sintetizzato così questo punto: “Ancora una ricerca del Vero, non più di quello sfuggente della scienza, bensì di quello raggiungibile attraverso la certezza dell’intuizione poetica”; e in uno dei tanti articoli sul rapporto fra scienza e poesia (p. es. Alla Bottega, XXXIV, N. 1, 1996) ho spiegato il significato di quest’ultima affermazione osservando come tutte le acquisizioni della scienza vengano quotidianamente e fatalmente “falsificate”, se non annullate, da quelle più recenti che di volta in volta gli succedono sostituendole; mentre peculiarità delle intuizioni poetiche, come anche di quelle filosofiche, è di essere di per sé assolute e senza tempo, non soggette ad alcuna verifica sperimentale e quindi non falsificabili da altre più recenti.

Per quest’opera di “riflessione poetica” ho scelto il poema come l’unico genere che mi fosse congeniale, anche se poco di moda essendo stato nell’ultimo secolo sopppiantato dal minimalismo e frammentismo intimista. Solo il poema infatti permette di sviscerare un determinato tema in un modo che ancora ricorda quello scientifico, esaminandolo cioè in tutti i suoi vari aspetti e sfaccettature. Ci si potrebbe chiedere perché scrivere in versi delle riflessioni che odorano di filosofia; ma la risposta è semplice, anche se per molti insoddisfacente: è l’unica forma che, per una misteriosa conformazione della mente ch’io stesso non riesco a spiegare, mi venga naturale. Tuttavia confesso di non gradire di essere chiamato “poeta”, non solo perché non mi piace usurpare il titolo ai veri poeti istituzionali, ma soprattutto perché temo che la parola “poesia” metta in ombra i contenuti di pensiero che invece ritengo costituiscano la parte più importante di ciò che scrivo.

La teoria molecolare dell'Io

Una prima caratteristica costante è una lacerazione fra cuore e ragione. Essendo fondamentalmente agnostico ma con un’infanzia alle spalle impregnata di educazione religiosa, tutta la mia riflessione poetica è animata dal bisogno irrazionale di trovare le prove dell’esistenza di Dio e ciò, mio malgrado, conferisce ai miei scritti un anelito al Divino ed al Sacro che non si può non chiamare religiosità. Questa, infatti, dopo varie oscillazioni e lacerazioni sembra assestarsi su di un panteismo alla Giordano Bruno, adattato alle più recenti acquisizioni della fisica quantistica e della cosmologia. In questa visione del mondo potrebbe esserci un posto anche per l’anima, se si accetta la legittimità del procedimento adottato per la sua dimostrazione. L’anima viene generalmente attribuita all’uomo perché si ammette che la condizione indispensabile per averla sia la “coscienza di sé”. Ma la coscienza di sé è strettamente connessa con l’Ego individuale ed esiste anche in molti animali superiori (primati antropomorfi); la cerchia quindi dei possessori di anima tenderebbe ad allargarsi. D’altra parte, ripugna alla ragione la netta discriminazione che le varie filosofie, fatalmente influenzate dalle religioni, hanno sempre fatto a favore dell’uomo: se si ammette che un orango possa avere un ego e una forma di anima, perché non dovrebbe averla un cane, un uccello, un pesce, un invertebrato, un microbo? Il problema quindi, a mio avviso, si sposterebbe sulla domanda: che cos’è l’Io individuale? e come, e quando, si è formato?

Ebbene, se si accetta la definizione secondo cui l’Io è il complesso unitario e omogeneo delle strutture e proprietà vitali racchiuse nel corpo dell’individuo, io non ho saputo trovare altra risposta laica, se non che esso abbia avuto necessariamente origine col primo organismo vivente formatosi agli albori della vita, cioè quando delle molecole semplici, per caso o per intervento divino, si unirono in un agglomerato formando la prima struttura ordinata che si sia dimostrata particolarmente fortunata nella capacità di replicarsi e di opporsi al disordine del mondo. Da allora, essa ha continuato a replicarsi trasmettendo il proprio ordine ai geni di ogni figlio, e man mano che aggiungeva al suo edificio molecola su molecola procedeva nella scala evolutiva. Si può dire dunque che l’Io - e quindi la vita che lo sottende - è nient’altro che un’isola di ordine nel mare del Chaos; e la sua attività non può esplicarsi in altro modo che riproducendo intorno a sé, in un destino automatico di coazione a ripetere, quest’ordine interno delle sue molecole, delle sue cellule, dei suoi organi. Inoltre, i limiti materiali della sua corporeità e del suo sistema sensorio fanno dell’Io individuale un mondo assolutamente separato e indipendente dagli altri io, una monade racchiusa dentro un guscio impenetrabile alle altre monadi e afflitta quindi da un disperato isolamento. Ma dopo tutto questo ragionamento, che cosa ne è dell’anima? Ebbene, dal momento che suona come molto ridicolo estendere il possesso dell’anima fino ai microbi, dovrebbe conseguirne che essa sia una pura invenzione delle religioni. E forse lo è.

Ma l’Io non è solo quello comunemente nominato dagli psicologi, che non mi risulta si siano molto curati di capirne la natura biologica; esso si può definire in senso lato come lo spazio delimitato dall’orizzonte visibile entro il quale ognuno pensa ed agisce. Ogni individuo quindi, sia uomo che animale, è racchiuso nello spazio e nel tempo come in una capsula. La monade che ne risulta ce la possiamo rappresentare come il cerchio di orizzonte in cui i sensi e la ragione riescono a percepire, rappresentare e gestire, a immagine e somiglianza del proprio ordine interno, una fetta del caotico mondo esterno, essendo frenati nella loro penetrazione dalla limitatezza della propria potenza sensoriale. Ciascuno di noi ha dunque un suo proprio orizzonte, oltre il quale non può vedere; ma tutto ciò che è compreso al suo interno, sensazioni, immagini, ricordi, deduzioni, proiezioni, e che egli ordina in una struttura armoniosa e coerente, costituisce il complesso dell’Io, il suo “volume”, la sua monade. Dio, se esistesse come essere pensante e onnisciente, godrebbe per definizione di un orizzonte infinito che si estenderebbe a tutto l’universo, non ad una piccola porzione come il nostro ego, quindi sarebbe l’Io per eccellenza, l’Io Assoluto.

Il Bello come proiezione dell'ordine molecolare

La teoria dell’origine molecolare dell’Io è forse quella più coerente e feconda per la molteplicità dei fenomeni che si possono interpretare estendendola ad altri campi. L’evoluzione biologica, sviluppando a poco a poco l’ordine molecolare originario della materia vivente, dapprima attraverso la creazione di strutture microscopiche ordinate, poi di strutture anatomiche via via sempre più complesse, poi di un sistema nervoso capace di coordinarle, e infine di una mente autocosciente che sovrasta tutto, ha conservato e sviluppato nel mondo dei viventi l’idea di Ordine e di Armonia, cioè di Bello, innata nel primigenio gruppo di molecole. Il Bello si può definire come la sensazione di benessere che proviamo, a prescindere da ogni profitto materiale, quando kantianamente e aprioristicamente diamo una forma ordinata (specchio di quella innata originaria) al caos delle sensazioni che ci investe, in modo da ottenere una rappresentazione coerente, quindi armoniosa, del mondo esterno; quando cioè riproduciamo, o vediamo riprodotto intorno a noi, quell’ordine interiore nato agli albori della vita col primo aggregato molecolare capace di replicarsi, e quindi ormai stabilmente fissato nel nostro DNA.

Ma anche negli animali che apparentemente non sembrano avere coscienza di sé è possibile osservare le medesime manifestazioni di benessere simili a quelle procurateci dal “nostro” Bello, seppur limitatamente alle situazioni in cui i pericoli sono lontani o in cui l’animale è intento all’esplorazione dell’ambiente obbedendo alla sua naturale curiosità. Ogni amico degli animali conosce infatti il disagio, fino al vero e proprio terrore, che coglie il suo pupillo (con un’eccezione, forse: il cane che ha fiducia nel padrone) quando è tolto dall’ambiente a lui noto e viene immesso in un luogo sconosciuto, il quale è sempre percepito come potenzialmente pericoloso; il suo ambiente gli è noto appunto perché fin dagli inizi egli ha sottoposto il mondo esterno sconosciuto, il caos, a questa operazione di ordinamento e classificazione al fine di poterlo tenere sotto controllo. La chiave per capire anche questo scenario animalesco è sempre e soltanto l’ordine di quel pugno di molecole che si sono evolute a livelli superiori di organizzazione, cui è seguito lo sviluppo della mente e l’idea più o meno consapevole di Bello, fino alle più alte manifestazioni umane dello Spirito. Questa concezione mostra naturalmente l’influenza dell’evoluzionismo mistico di inizio Novecento rappresentato dal pensiero di Bergson e in particolare di Teilhard de Chardin, ripreso più tardi da molti fisici e cosmologi come “principio antropico”. Secondo questo principio, il cosmo sarebbe animato da una continua evoluzione creatrice che avrebbe prodotto, per tendenza naturale, dapprima la vita; poi la vita avrebbe creato la mente; e la mente si sarebbe ultra-umanizzata nello Spirito, teleologicamente punto d’arrivo e “punto omega" dell’evoluzione.

Il problema del Male

L’ubiquità e irriducibilità del Male, unitamente al fatto singolare che sembra esistere soltanto nel mondo organico e non esistere nel mondo inorganico, ha da tempo intrigato lo Scarselli-biologo, in quanto suggerirebbe uno stretto legame solo col comportamento degli esseri viventi e principalmente dell’uomo. Questo aspetto del Male è stato ampiamente esaminato ne Il Palazzo del Grande Tritacarne costituendone la chiave di lettura. Ma poiché questo tema, espresso in versi forse anche un po’ maldestri, costituisce per alcuni la parte più “cerebrale” e meno “poetica” del libro (ma non certo la meno importante per capirne il messaggio) tenteremo con alcune considerazioni di svilupparne in chiaro tutte le implicazioni. E’ un tema che al biologo sta molto a cuore perché sembra mostrare, fra l’altro, come anche il mito del Peccato Originale adombri metaforicamente un evento reale e naturale ben determinato avvenuto nella notte dei tempi.

E’ ormai opinione consolidata che l’esistenza della vita nell'universo - comunque si pensi sia stata originata - abbia seguito, nonostante le avversità del mondo inorganico, anzi proprio a causa di esse, un fecondo percorso evolutivo in direzione di una sempre maggiore complessità e differenziazione delle sue strutture, fino a raggiungere le vette della mente e dello Spirito. Muovendo dunque dall’assunto di una lotta senza quartiere della vita contro le forze tendenti a distruggerla, l’ovvio e immediato corollario biologico è che sia buono tutto ciò che appartiene alla vita e la favorisce; e cattivo invece tutto ciò che le si oppone per danneggiarla. E’ una visione del mondo che descrive questo come un gigantesco campo di battaglia fra Vita e Morte, fra Piacere e Dolore, fra Bene e Male; basta guardarsi attorno per constatare come il mondo in qualunque scala di grandezza non sia che un’enorme fabbrica di nuova vita (cioè di Bene) che cerca di sopravvivere all’enorme strage di esseri viventi con cui le forze distruttive dell’ambiente (il Male) tentano di schiacciarla. Il Male dunque non sarebbe un’entità astratta e a sé stante, ma innata alla materia biologica, una imperfezione originaria nella struttura degli esseri viventi che è causa della loro distruzione e della sofferenza che ne è associata: Pulvis es et pulvis reverteris.

Molti tentano di sottrarsi alla dolorosa constatazione di questa distruzione generalizzata liquidandola con l’etichetta di un male naturale, etichetta che pare un pietoso trucco da illusionisti per farci passare per buono - in quanto appartenente alla Natura - ciò che invece è soltanto orribile Male che le forze del Bene tentano invano di arginare. Orribile è ad ogni livello la morte e il dolore; orribile la guerra e la violenza del forte; orribile, perché non invocabile quale castigo di volontari e consapevoli peccati umani, lo spettacolo di miliardi e miliardi di animali d’ogni forma e grandezza che senza averne consapevolezza si cibano di altri esseri viventi indifesi. Pochi amano soffermarsi sulla agghiacciante universalità ed ubiquità di questo continuo spargimento di sangue, di morte, di dolore, se non quando riguarda direttamente la sofferenza degli uomini, le carestie, le stragi, le guerre. Invece il Male è intorno a noi, ne è imbevuto ogni essere vivente ed invade tutto il Pianeta, è una grandezza universale davanti alla quale le nostre sofferenze umane sono numericamente davvero trascurabili; nonostante ciò, si è formata una sorta di assuefazione, di cecità sensoriale, di anestesia, cui oggi non poco contribuiscono la televisione e tutti i mass media con le scene continue di violenze e omicidi, perfino con i documentari di vita animale in cui si mostrano raccapriccianti dettagli di prede inermi sbranate, documentari che rivolgendosi soprattutto ai giovani ormai dimentichi del francescano amore per gli animali li inducono con immagini e parole a pensare che tutto ciò sia naturale, quindi, paradossalmente, buono: l’ha stabilito la Natura, forse il buon Dio, quindi non può non essere giusto e buono. Anche noi, seguendo lo stesso principio, non rinunciamo a cibarci di animali senza battere ciglio, e non ci accorgiamo che con ciò legittimiamo, o imitiamo, quello che avviene in natura. Ma se si accetta come giusto uccidere per nutrirsi e difendersi, il passo è breve per legittimare ogni specie di violenza e di assassinio non appena, più o meno arbitrariamente, si ritengano in pericolo la propria persona, le proprie cose, il proprio piacere. Tutti i viventi infatti, dall’uomo fino al lupo e all’insetto, uccidono in qualche modo per sopravvivere o comunque perché spinti da una forza vitale di autoaffermazione individuale, la quale sempre si alimenta a spese della distruzione di altri esseri viventi; chiunque uccida qualunque cosa ha sempre teoricamente delle “buone ragioni naturali”; e nel bilancio delle vite e delle morti alla Natura non interessano i moventi, essa non cerca responsabili o colpevoli, questa è piuttosto un’attitudine squisitamente umana dovuta alla nostra conoscenza consapevole del Bene e del Male; in natura non esiste il male morale, ma solo il dolore fisico.

Questa visione sconsolata della vita e del mondo rappresenta un punto cruciale nelle riflessioni di Pavana per una madre defunta; è presente anche nelle opere successive, seppure in forma meno gridata e disperata, perché vi si cerca una via d’uscita che soddisfi la ragione: questa sarà di volta in volta l’utopia di un irraggiungibile amore evangelico come in Torbidi amorosi labirinti, la separazione cruenta dell’anima dal corpo del peccatore come in Priaposodomomachia, la fede nell’Amore universale come in Eretiche grida, la purgazione della carne con le macchine dell’ospedale come ne Il Palazzo del grande Tritacarne, fino a scomparire del tutto nella pietas di Piangono ancora come bambini e nelle visioni mistiche di Straordinario accaduto, di Ballata del vecchio Capitano e di Diletta Sposa.

Ma vorrei ancora soffermarmi su questa visione cruciale e disperata della vita per rendere concreta e tangibile la mia idea che il dolore fisico sia l’espressione per antonomasia del Male, fino addirittura a identificarsi con esso. Biologicamente, infatti, il Male e il Dolore sono la stessa identica cosa: ciò che alla vita fa bene è il piacere, e ciò che alla vita fa male è la malattia, la morte e, appunto, il Dolore. E’ inutile illudersi che il diuturno massacro compiuto dagli animali per nutrirsi non sia doloroso quanto quello inflitto dagli uomini ad altri uomini, solo perché quello avviene nella “innocente” Natura; è soltanto la nostra visione antropocentrica, che ci fa considerare ovvio e naturale che un branco di leoni o di iene sventri a morsi una gazzella strappandole ben viva e sveglia le budella, senza neppure che la morte possa essere almeno pietosamente istantanea. E’ inutile anche illudersi che negli animali cosiddetti “inferiori”, in virtù di una asserita mancanza di consapevolezza, la morte sia meno dolorosa: tutti gli esseri viventi, dall’uomo al topo, al pesce, all’insetto, fino alle forme più trascurate dalla nostra attenzione, quelle microscopiche, hanno almeno qualcosa che assomiglia a un sistema nervoso, con una rete fittissima di terminazioni dolorifiche in tutto il corpo; eppure nessuno della nostra cosiddetta “civiltà cristiana”, neanche di sfuggita, si sofferma a pensare che un verme divorato da un verme più grosso possa provare un dolore simile al nostro; mentre in certe ideologie e religioni orientali e perfino in quelle animistiche, considerate inferiori dalla nostra prosopopea, è profondamente diffuso ed insegnato il rispetto della vita perfino dei più piccoli animali; e ciò dovrebbe darci la misura del loro vero grado di civiltà.

Il Male come Entropia

L’ubiquità e irriducibilità del Male sembra a prima vista una caratteristica esclusiva del mondo organico-biologico. Siamo anche soliti fare una distinzione fra male fisico e male morale, laddove il primo, il dolore, competerebbe alla sfera animalesca e il secondo alla sfera spirituale. Non è difficile tuttavia constatare che il Male intorno a noi (e dentro di noi) è invece un’entità assoluta e generale, e non ammette alcuna distinzione di categoria. Esso infatti ha la costanza fisica di una legge della materia cui è assoggettato l’intero universo: l’Entropia. Questa si può definire come l’ineludibile destino di degradazione “in discesa” verso il disordine, propria di ogni struttura organica o inorganica che contenga un certo grado di ordine (leggi: di energia potenziale) finché essa abbia raggiunto la condizione di totale azzeramento energetico che è la morte termica: le montagne si sgretolano, i fiumi si disperdono in mare, i pianeti si raffreddano, i soli si consumano irraggiando nello spazio la propria luce e la propria materia; anche la materia vivente, quando ha terminato la sua rivoluzionaria funzione di autopropagazione, si degrada. La materia vivente è “rivoluzionaria” perché si è configurata fin dalle origini come un evento di rottura, una forza che tenta - seppur per breve tempo - di opporsi alla legge ferrea della degradazione entropica organizzandosi “in salita” nelle singolari strutture biologiche ricche di energia che ben conosciamo, che ci sono amiche, e di cui partecipiamo noi stessi; ne consegue che, se la degradazione entropica cui è assoggettato l’universo rappresenta il Male, la Vita che è il suo contrario non può essere che il Bene. E’ probabile che l’identificazione del Male con l’Entropia non sia di immediata comprensione; ma ciò accade soltanto perché noi tutti siamo indifferenti al “male” delle montagne che si sgretolano e non al male della degradazione biologica.

Tuttavia anche l’associazione molecolare che ha dato origine alle strutture viventi, cioè al Bene, deve fare i conti, proprio per la sua fortunosa e fortunata origine come evento di rottura, con la fragilità dell’ordine che ha creato e quindi col suo destino di degradazione al pari delle montagne: la Natura non fa privilegi. L’evento rivoluzionario che ha dato origine alla vita conserva in sé il marchio di un’imperfezione causata dalla debolezza delle forze chimiche che si sono trovate nel brodo primordiale ad assemblare molecole semplici formando, in opposizione all’Entropia, complessi molecolari più grandi capaci di riprodursi. Così è avvenuto che anche l’imperfezione si riproducesse e venisse conservata nei complessi sempre più grandi che l’evoluzione andava creando, quali le cellule, i tessuti, gli organi, gli organismi, poiché tutti erano fatti nella stessa maniera e con le stesse pietre di costruzione. Ma la debolezza innata di tutti i legami biologici non consente una durevole stabilità delle strutture e queste dopo un certo periodo di resistenza vengono a cedere manifestando quell’invecchiamento chimico e quella morte dolorosa che affligge la corporeità degli esseri viventi. Questa imperfezione è dunque intrinseca all’ordine molecolare che sta alla base di tutti gli organismi viventi, ed è quella che infine li fa soccombere alle aggressioni degli elementi caotici esterni obbedendo alla legge dell’Entropia, finché anche la materia vivente si disperde ritornando di nuovo a costituire il mondo inorganico (sei polvere e polvere ritornerai). Il Male è dunque innato alla materia vivente, come l’Entropia è innata a tutto l’universo, e anch’essa segue la legge fisica che la riconduce fatalmente nel Chaos donde è nata. Che cosa sono infatti il dolore, la malattia, la morte, se non il contrario di ordine, cioè un disordine che porta al disfacimento dei corpi e alla loro dispersione nel Chaos? E che cosa sono il Male e il Peccato ai livelli umani, se non ancora disordine e disgregazione spirituale? Ma ecco, anche in questa sconsolata concezione, una luce di speranza: se il Male è innato alla materia vivente e deriva dalla debolezza e fragilità dei legami molecolari, allora è solo nella sua componente spirituale che l’uomo può trovare la via del riscatto; e il premio potrebbe essere la sopravvivenza del suo spirito, o almeno, seppure per una durata meno ambiziosa, delle sue opere.

L’analogia col Peccato Originale della cristianità è tanto evidente, da poter considerare anche la teoria molecolare del peccato come una valida spiegazione laica del medesimo, in singolare sintonia con la dottrina della Chiesa, se si scavalca la mitologia della mela e del serpente. Bisogna inoltre osservare come questa teoria, che fa derivare anche l’Idea del Bello dalle stesse basi molecolari della vita da cui deriva anche il Male (che, per mantenere l’analogia, avrebbe il suo omologo nel “Brutto”), getta anche una luce sul mistero delle origini dell’Idea platonica di Bellezza: tutti i pensatori hanno girato intorno al problema limitandosi agli attributi del Bello e ai suoi effetti sull’uomo senza chiarirne le origini fisiologiche. Questa teoria spiegherebbe come poté avvenire che il Bello sia stato fin dai tempi più antichi considerato in unione col Bene (cfr. kaloskagathos), mentre il Brutto in unione col Male.

L'ordine molecolare e la conoscenza del mondo

La teoria di base dell’ordine molecolare, se applicata a interpretare la struttura dell’Io, porta ad estendere fruttuosamente la riflessione anche alla gnoseologia. Se l’Io si è opposto al Chaos fin dagli albori della vita ordinando per la prima volta in un certo modo le molecole dell’agglomerato originario, e se intorno a questo modo si sono avvolte strato dopo strato altre strutture con esso compatibili creando la molteplicità degli organismi dei nostri giorni, ma sempre conservando quel certo modo di ordine impresso nel DNA, quello stesso identico modo di ordinare la materia è necessariamente anche l’unica misura interiore con cui anche gli organismi più recenti si rapportano col mondo esterno; quel modo non può non essere l’arbitro assoluto di ciò che essi vedono e sentono, il modello, la forma secondo la quale essi riordinano kantianamente “a priori” il mondo esterno (pensabile ma inconoscibile: il Noumeno). E’ evidente l’analogia con le categorie kantiane innate, secondo le quali gli esseri viventi si formano una rappresentazione logica e coerente di uno spicchio della realtà; la quale forse, essendo inconoscibile, potrebbe anche essere il Chaos stesso, o anche non esistere affatto. Quest’ultima ipotesi riapre un tema da vertigini, cioè che il mondo esterno possa non essere una realtà oggettiva al di fuori del nostro Io ma solo una creazione di questo, e che dunque esista unico al mondo solo il nostro Io-Pensiero-Assoluto che tutto crea e tutto distrugge. Confesso che quest’idea è stata per me una tentazione idealistico-solipsistica affacciatasi spesso qua e là come sospetto irrisolto in molte mie opere, senza tuttavia ch’io abbia mai avuto il coraggio di accettarla fino in fondo, lasciando talvolta una certa sgradevole ambiguità. Da questi pochi cenni, comunque, è possibile vedere quanto sia feconda la teoria dell’ordine molecolare e come intorno ad essa si possa sviluppare un piccolo sistema filosofico capace di abbracciare armoniosamente molti aspetti della vita.

Anima e corpo

Un altro problema che ha assillato sempre il mio pensiero è il rapporto fra anima e corpo, ovvero, detto più laicamente, fra parte corporea e parte incorporea: come può un’essenza incorporea essere contenuta in un corpo materiale? Pur avendo dovuto nelle ultime opere ammettere infine l’esistenza dell’anima, agli inizi ero ancora guidato prevalentemente dalla ragione scientifica ed ero piuttosto incerto, oscillavo fra negazione agnostica e accettazione supina del mistero; ma poi, trascinato da un sentimento interiore cui certo contribuiva la mia educazione cattolica, mi pare di aver mantenuto costante una concezione dualistica dove il corpo è il brutto involucro, il triste contenitore di una cosa immateriale che ho dovuto (o a denti stretti sperato, poiché indimostrabile sperimentalmente) riconoscere come anima. Nondimeno, nel Palazzo del Grande Tritacarne, ho ancora tentato una scappatoia pseudo-scientifica sviluppando la concezione immanentistica che l’anima sia una sostanza impalpabile, o un tipo di energia comunque strettamente attaccata alla carne e così finemente assorbita dalle molecole da assumerne in certo senso la forma, per cui solo l’altissima energia del Ciclotrone divino - la macchina terminale e salvifica del Tritacarne - riuscirebbe a spezzare il legame elettromagnetico, anzi metapsichico, di essa con gli atomi materiali strappandola al loro abbraccio mortale e permettendole di assurgere al Regno della Luce.

Ancora una volta dunque la teoria dell’ordine molecolare può essere invocata per spiegare la natura dell’anima. Se si considera l’anima come un software formato dall’ordine programmatico che struttura a livello molecolare la sostanza vivente, si comprende come essa possa presiedere alla gestione dell’hardware (il corpo). Tutti sanno che il software non è una materia ma un ordine, una forma, quindi una cosa incorporea, e come tale potrebbe essere assimilato all’anima; anche se resterebbe per ora irrisolta e oltremodo imbarazzante la possibilità di realizzarne la sopravvivenza al di fuori dell’hardware, come si suppone e si spera avvenga per l’anima dopo la morte.

Il bisogno naturale di Dio

La riflessione sugli aspetti, l’essenza, e il potere di Dio, è nelle prime opere alquanto ondivaga e ambigua, oscillando fra la certezza della sua inesistenza e il desiderio di abbandonarsi con pieno sentimento al Credo cristiano. Infatti, pur accarezzando l’idea che esista un Demiurgo ordinatore dell’universo, o meglio un Dio personale fatto di Amore, un ostacolo insormontabile per il Poeta-filosofo è l’esistenza del Male che si vede ovunque nella malattia, nel dolore, nel peccato; non sono riuscito ad accettare che in un Creato, che si dice opera d’un Dio d’amore, la vita sia fondata su di un Male organizzato e generalizzato: ovunque si vede il dolore e la morte, il reciproco divorarsi di animali innocenti fra di loro e il reciproco scannarsi degli esseri umani. Così ho cercato di risolvere la contraddizione ora immaginando una limitatezza o impotenza del Demiurgo fino a ridicolizzarlo, ora considerando il Male come opera del Chaos manicheisticamente contrapposto al Bene dell’Ordine Assoluto divino, e ora ipotizzandone l’origine in un errore accidentale, una mutazione fortuita nel meccanismo altrimenti preciso dell’universo. Comunque tuttavia si concepisca Dio, la mia resta una concezione fondamentalmente manicheista, dove il Bene e il Male sono sempre in lotta, il Bene identificandosi con l’Ordine e lo Spirito, e il Male col disordine molecolare, con la materia, col corpo. Questa lotta dello spirito per non farsi annichilire dalla materia (metafora della lotta dell’ordine molecolare della materia vivente contro la degradazione entropica che la spinge senza sosta verso il disordine del Chaos) è per me comunque un costante motivo di esaltazione, e forse talvolta anche occasione di edificante lirismo in ciò che scrivo: un effetto collaterale, a dispetto dei miei pudichi sforzi per non usurpare... il titolo di “poeta”.

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