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Prefazione a
Straordinario accaduto a un ordinario collezionista di orologi

Giancarlo Oli

Veniero Scarselli: un Maestro della lingua

Sono stato, con trepidazione e fervore, alcuni anni in lista d'attesa per scrivere la presentazione a un poema di Veniero Scarselli. Alla passione struggente per la poesia si aggiungevano gli argomenti della linguistica: ero convinto dell'esistenza di alcune serie probabilità che la letteratura (la poesia in particolare, più significativa e sintomatica) si liberasse dagli egotismi e solipsismi stilistici e dalle tirannie di un espressivismo artefatto – propri del Novecento – per ricuperare la dimensione classica. E' bastata una reazione dubitativa di fronte alle sorti dell'italiano odierno (tendente a relegare il livello letterario – con i suoi più che sette secoli di storia – nel ruolo di lingua morta e a soffocare ogni forma di parlato vero della mappa dialettale elevando alla carica di divulgatore di grammatica il contraddittorio e rischioso strumento dei media) perché si parasse fulgida e tagliente al mio sguardo, impegnando la mia ansia di futuro, la visione e missione di questo straordinario Maestro che non ha mai voluto indulgere, come quasi tutti fanno per ignavia o servilismo, al frammentismo lirico, ai giochi di parole, ai "piagnistei", alle "farfalle svolazzanti sui prati in fiore", come lui stesso dice scherzando. Il confronto con la Bestia Trionfante fa arguire una lotta dura e pericolosa, perché si tratta di cozzare contro un muro di privilegi e pseudodiritti acquisiti, di interessi accesi ma anche di indifferenza; la masochistica indifferenza su cui riposa indisturbata l'Imposta Complementare sugli Immobili come il nuovo conformismo della Scuola, o il misoneismo di editori, critici, premi letterari. Ebbene, solo un vero poeta, contro la folla anonima di critici e versificatori, poteva dedicare la sua vita alla poesia epica, senza piegarsi al vaniloquio imperante.

In Straordinario accaduto a un ordinario collezionista di orologi, poema metafisico in 43 lasse (Campanotto Editore, Udine 1995), Scarselli ci propone una vicissitudine non del tutto nuova alla poesia e al mito. Tiresia avrebbe perduto la vista (ed acquisito la virtù profetica) per aver mirato la dea Pallade al bagno. In qualche modo la conquista del mondo delle armonie poetiche sarebbe costata la vista al cieco di Chio, cantato dal Pascoli nei Poemi conviviali. Similmente, al diseroicizzato protagonista di questo straordinario accaduto, un onesto burocrate impiegato | alle Regie Poste del Regno | ma non perciò meno sano di mente, | ... fu concesso per astrale coincidenza | di benevoli eventi e di un'anomala | forse diabolica eclissi del tempo | di vedere il vero corpo di Dio | fino alle parti periferiche estreme | del suo immenso luminoso meccanismo | sì da averne il cervello accecato; | ma fu in un punto per fortuna limitato | delle sue deboli circonvoluzioni cerebrali, | che forse rimase bruciato | proprio lì dove adesso la parola | gli è impedita; ma non la memoria, | ch'è ancora perfettamente capace | di ricordare.

Ho riportato quasi per intero la lassa cui classicamente è delegata la funzione di 'protasi' perché si colga fin d'ora quel che di sentenzioso e circostanziato, cui spesso in Scarselli è affidata la verbalità affabulatoria, nonché l'astuzia del poeta nell'aprirsi senza infingimenti all'alternativa della narrazione, qui già inequivocabilmente etichettata come racconto di ricordi e di memorie. Diceva Leopardi che la memoria favorisce l'indefinito, lo sfumato, e quindi la poeticità; in questo caso si direbbe che aiuti l'animazione fantastica di quelli che il volgo per pigrizia od ignoranza | chiama ancora scioccamente orologi, motivo sul quale concresce ogni sorta di fiabesche ipotesi: ... potevano anche improvvisamente | come allegri gnomi burloni | popolare le foreste delle notti | travestiti da bianchi coniglioni | e buffamente occhieggiare qua e là | inseguiti dalla dea della luna | e inebriarsi di danze sui prati | e della brina che cade dalle stelle.

Fra le motivazioni alla riflessione poetica, la più evidente, diffusa ed insistita è per il nostro Poeta la morte: da quella annunciata dello stato agonico, alla decomposizione dei corpi, alla tenebra congelata della fine del mondo. Dato che il protagonista metafisico del poema è il Tempo, il terzo tipo di morte è quello che meglio ci attendiamo d'incontrare; il primo appuntamento è in chiusura della lassa VIII: volevano... | rallentare la fuga tumultuosa | e inarrestabile della vita verso il Chaos, | verso il buio, verso la fine dell'universo. Seguiranno: XII, 20; XIII, 9; XVI, 27-28; XVIII, 21-23; XXI, 4-5; XXII, 4-6; XXV, 31; XXVI, 20-33. Il gioco che raggruppa i versi in lasse consente in qualche caso una certa autonomia, con ascendenti e referenti letterari sviluppati in toni paradossali o anche parodistici, rimanendo intatta quella concrescenza e gemmazione di nomi, di immagini e di verbi che è tipica della verbalità scarselliana ed è condizione del suo comporre. La lassa XI, che potremmo intitolare Al Sonno, quanti ricordi, per affinità o contrasto, richiama ai nostri cervelli di studenti e alle nostre letture antologiche! Dai Petrarchisti ai Barocchi è un susseguirsi di patetiche o risentite allocuzioni, di immagini, similitudini, ipotiposi. L'originalità del Nostro consiste soprattutto nella gemmazione di una proposizione dentro l'altra, che di tutta la verbalità concresciuta e impegnata consente appena di individuare tre tempi (Infame terribile Sonno...; Voragine di flutti melmosi...; Oh dormire dormire), perché uno è il discorso, varie le intonazioni, polivalenti i motivi; ma variamente e lucidamente esasperato il lessico, coinvolgente e tirannica la sintassi: Infame terribile Sonno, | che ogni notte discende a blandire | le labili creature di Dio | con l'insidiosa dolcezza dell'oblio | dalla maschera troppo simile alla Morte; | voragine di flutti melmosi, | che si spalanca nel cuore del mondo | e costringe i soldati recalcitranti | ma vinti ad abbandonare pieni d'odio | la mente a uno scempio infinito. | Oh dormire dormire, | dolce disperato naufragare | d'una nave con le vele spiegate ma immobile sul mare senza vento | imprigionata dai sargassi della memoria, | mentre il mostro dell'oceano è lì nascosto | ed attende impaziente che la preda | sia affondata nei luoghi più oscuri | della sua casa d'abissi marini.

Fin dalla classicità sono soliti gli epici, in prossimità dell'acme della vicenda, riprendere anche brevemente la didascalia iniziale della protasi, quasi ad avvertire dell'aprirsi di un nuovo e più impegnativo poema nel poema. Puntualmente il Nostro (XIV): ricordo bene: in quella notte straordinaria | il grande arco degli astri e della luna | era al suo colmo...

D'ora in avanti, l'apoteosi e catastrofe. Brusco risveglio del protagonista, provocato dall'improvviso silenzio degli orologi: Il silenzio s'era fatto di marmo | come il tavolo ignudo della Morgue | quando accoglie il cadavere del tempo. Il tempo è cancellato e con esso tutte le certezze, lo scorrere della vita e il domani: L'utero così gravido della notte | aveva miseramente abortito | il rospo morto dell'alba. Ma a questo punto avviene la scoperta del vero Orologio | originario della notte dei tempi, | l'Unico fra tutti gli orologi, Sovrumana Intelligenza meccanica, Custode della vite senza fine del tempo; poi c'è l'errare notturno fino alla base di questo grande Tiranno, la penetrazione della torre; il protagonista s'inoltra all'interno: tutto è prodigiosamente organico e vivente; i suoni celesti, gli escrementi, la vetta; la materia protoplasmatica del mostro, la reiezione della grande Macchina, la penetrazione ancestrale:... il mio disegno diabolico | era arrampicarmi alle armature | fino al cervello seguendo fedelmente | il percorso dei nervi encefalici | per aggredire i centri nervosi | più segreti e profondi dell'estasi | che generano la gioia assoluta | e fare esplodere nell'utero di Dio | l'ondata straripante e irrefrenabile | dell'orgasmo universale; infine la teofania clitoridea e fallica: l'apoteosi dell'Ermafrodito. Qui il dettato si placa, pur movendo da interrogativi cruciali:

Ma esiste veramente il tempo? | O è un luogo fittizio della mente, | una cortese fata morgana... | mentre l'Io non ha spazio né tempo; | e allora saremmo condannati | ad esistere per sempre nei secoli | con una mente immortale che intristisce | dentro un corpo laidissimo ora d'uomo | ora di cane ora di rospo ora d'insetto | finché qualcuno riesca ad inserirla | nella scheda elettronica immarcescibile | d'un robot da lanciare nello spazio | a propagare una più nobile vita | di organismi pensanti e ragionanti...? Ho già azzardato i termini di "concrescenza" e di "gemmazione"; talvolta, sintatticamente, la nota conclusiva e decisiva la dà magari la similitudine, quando addirittura non ne dà baldanzosamente l'avvio: Come un pesce che sfida temerario | fra le rocce l'avversa corrente | incontro al destino di morte | dentro la tenera tana della madre, | nuotai con furia nel fiume di quel ventre... Il segreto del periodare scarselliano risiede dunque in questa capacità di progredire della frase sulla frase, dell'immagine sull'immagine, in un divenire aperto a soluzioni fino all'ultimo momento anfibole.

Prove di una letterarietà così certa e perentoria, unitamente agli incastri e alle tarsie impeccabili di derivazione classica (qui è Dante, in chiusura di lassa: caddi nel vuoto, come corpo morto cade; e in apertura della seguente: Quando tornai a riveder le stelle), pongono il problema, più che altro filologico, degli autori e dei testi che hanno formato Scarselli. Ma io credo che tentare di nuovo la poesia epica non implica farsi il contraltare di questo o quel poema, di questo o quel poeta; significa piuttosto riconferire alla poesia una voce che essa sembrava aver perduta; un'esemplarità significativa anche sul piano morale ma soprattutto su quello della espressività e della persuasione e quindi della capacità di trascinare e commuovere. Referenti e confronti testuali possono servire a puntualizzazioni erudite, ma non per la formulazione di giudizi di merito né, tanto meno, di valore. Tuttavia, dato che il lupo (che sarei io) perde il pelo ma non il vizio, dopo che a proposito della Priaposodomomachia (il capolavoro di Scarselli!) parlai di riferimenti da orientare decisamente fra l'ultimo Trecento ed il pieno Quattrocento (e il confronto piacque anche ad un insigne quattrocentista), ora parlerei dei Barocchi, così traboccanti di turgore mortale e paludati di sublimi drappeggi sintattici.

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