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Prefazione a
Torbidi amorosi labirinti

Luigi Baldacci

Ho ritrovato Veniero Scarselli nell'88: ma l'avevo perduto quarantacinque anni prima, alle scuole medie. Mi ricercò per farmi leggere un poema che era stato pubblicato quello stesso anno da Forum/Quinta Generazione. Isole e vele, sottointitolato romanzo lirico. In generale sono molto diffidente: se si passa alla storia per le prefazioni che si scrivono ai nuovi poeti, indubbiamente mi sono bruciata questa possibilità. Ma nel caso di Scarselli l'impressione fu profonda e l'adesione senza riserve.

Gli scrivevo così il 12 settembre 1988:. «...Ti parlo in termini molto semplici e non da critico. anche perché io sono di quei critici che credono poco o non credono più alla critica... Le tue poesie (o il tuo poema o il tuo romanzo) mi hanno totalmente convinti... C'è un grande flusso, una grande durata, un vasto movimento di marea, in questo poema che sempre ricomincia e ha un suo bioritmo inconfondibile. Una specie di Laus vitae rivisitata: Le città terribili; e non dico per l'argomento. ma proprio per la fisicità musicale. C'è una grande immaginazione. nel tuo poema, e una grande capacità retorica (nel senso buono, s'intende), a sostegno di un'esperienza religiosa molto singolare. E tutto questo lo dico contro – in un certo senso – le mie stesse preferenze: io amo, oggi almeno, un tipo di poesia più siglata, più tecnicamente elaborata, con problemi e progetti metrici ecc. Ma questo vuol dire che sono stato preso di contropiede.

Mi accorsi ben presto che era difficile comunicare con Scarselli, tutto assorbito dal suo lavoro di poeta e altrettanto chiuso a qualsiasi discorso critico. E del resto poteva essere anche questo, paradossalmente, per le ragioni appena accennate, un aspetto che me lo rendeva vicino. Intanto stava lavorando alla Pavana per una madre defunta sottointitolata Appunti per una storia naturale della morte, che uscì nel '90 per la Nuova Compagnia Editrice. Anche in quell'occasione gli scrissi: «... L'impressione che ho ricevuto è molto forte. Libro barocco, libro farcito, alla maniera di Céline (solo per trovare un punto di analogia), libro terribile (perché tale è) che ha il coraggio dell'ultima dissacrazione: eppure ti accorgi che non si tratta di una provocazione gratuita. In questa orgia, magma, colata lavica verbale c'è anche un ricordo di Testori? E' una cosa che mi sono chiesto. Eppure nel tuo libro eccessivo – come è eccessivo tutto ciò che scrivi – non c'è ombra di forzatura. Tutte le tue sconce innaturalezze si dichiarano molto naturalmente. Tu mi chiedi in che rapporto lo collocherei con l'altro libro. Non so se ci sia un progresso. Dico piuttosto che è una cosa diversa, un altro poema, anche se è evidente la stessa mano: e uso la parola mano non a caso, ma per indicare la materialità della tua scrittura. Quanto poi a questo aspetto, non nego che ci sarebbe spazio a tanti possibili interventi: trovare di tanto in tanto la parola più giusta. Che però non sarebbe la parola insostituibile, perché in un'esperienza come la tua la parola è sempre una delle infinite possibili e non è mai quella lì, che tu hai usato: e questo in grazia del carattere fluido, non definito, non formalizzato, del tuo modo di far poesia. Insomma, anche la Pavana mi pare una cosa di grande rilievo. E mi fa piacere che tu ti sia confermato, un'altra volta. come un poeta che lascia il segno».

Ma Scarselli continuava a intrattenere i suoi caotici rapporti con tutti coloro che riteneva addetti ai lavori: tali cioè da potergli assicurare un passaggio per il mondo del successo letterario. Sbagliava i conti in modo sistematico, come li ha sbagliati anche stavolta ricorrendo al mio esplicito patrocinio. Integralmente innocente. confondeva e continua a confondere la realtà e la sua proiezione, e a fronte di una poesia che si colloca, per la sua stessa novità, fuori del sistema. insiste ad esibire i «diversi riconoscimenti» finora ottenuti «fra cui i premi Campagnola, città di Brindisi, città di Marineo, Italia letteraria. Monferrato, Valsassina...», fino a concludere che, «finalista ai premi Comune di Petrosino e San Nicola Arcella, ha inoltre ricevuto numerose sengalazioni fra cui quella del Premio Montale». Non sa che di riconoscimenti non gliene è stato accordato neppure mezzo; e questo prima di tutto perché non ha sottoscritto l'identificazione fra letteratura e mondo letterario, in tutti i suoi riti e le sue pompe, che è contratto preliminare ad ogni concessione di cittadinanza.

Ma sarebbe troppo facile impostare un discorso moralistico sul pretesto della poesia di Scarselli. Bisogna piuttosto ammettere che per l'accoglienza di questa poesia ci sono delle difficoltà obiettive, che si traducono, come si accennava, nella sua stessa aseità rispetto al discorso oggi in atto. Nessuna presenza di quel realismo, magari frantumato, schizoide, che, risolvendosi nella sua valenza civile, è stato ed è ancora uno dei poli espressivi della poesia italiana contemporanea: e se quella cifra è settentrionale, lombarda, in Scarselli c'è una lutulenza e insieme una passione filosofica di tipo vichiano che ne fanno, ad honorem, un meridionale; né, come dicevo già a lui privatamente, non c'è mai il sospetto di quei problemi metrici che sono diventati – e secondo me molto opportunamente e con gran beneficio del livello poetico nel suo aspetto istituzionale – un elemento caratteristico delle forze nuove; e neppure vi è traccia di quella pungenza epigrammatica che fu di Cattafi e di Caproni, ed è restata modello per molti poeti giovani.

Quello di Scarselli è un viaggio ossessivo in un tunnel che non finisce mai. Il confronto con una rima, con una misura metrica gli sembrerebbe una sosta esasperante, essendo la sua condanna quella di una coazione a ripetere che non conosce riposo; né, una volta imboccato quel tunnel, gli è dato sapere più niente di quello che si chiama il mondo esterno, lasciato per sempre, di cui egli ignora ogni notizia. Ma quel tunnel si chiama corpo, visceri, sesso: sesso nella sua accezione più totalitaria, come se tutta la biologia e tutta l'anatomia tendessero a un significato solo, quello sessuale. Del mondo di prima, del mondo di fuori persiste una traccia di sudato sogno, tormento ulteriore e non sollievo a questa visione turbata: «Del buio di quellagrotta | ho solo briciole di ricordi evanescenti, | ceneri di grovigli inestricabili, | scorie d'una pesantissima pena | che ancora oggi intorbidano la memoria: | una figura di madre che umilmente | accudiva ai miei bisogni corporali, | un raggio che filtrava inosservato | da un pertugio superstite delle imposte; | mi recava da un mondo refrattario, | che continuava rumorosamente a vivere. | solo curiose indecifrabili ombre | schiacciate sul muro | prigioniere d'una camera oscura | che s'agitano lente e insidiose | come in un pigro acquario di vetro; | suoni indistinti di quel mondo, | silenziose grida dell'aria | come piccoli feti uno a uno | partoriti da un enorme pesce | si aprivano la strada faticosamente | per arrivare al mio cuore in letargo | e sembravano voci di bambini | – o forse lo erano – | che giocassero magici giochi | sul marciapiede assolato d'una strada».

Il prigioniero rievoca la caverna coi suoi giochi d'ombre come uno stadio addirittura superiore a quello dell'infima lacuna in cui ora gli tocca a vivere. Eppure l'aggregazione di questi Torbidi amorosi labirinti ubbidisce a un senso e a un significato che trascende i momenti che compongono il libro. Siamo di fronte ancora una volta al poema del viaggio, con una sua meta destinata: «Forse alla fine del mio tunnel | m'attende il varco angusto e fremente | del perdono, una lunga, convulsa, | irrefrenabile oscena diarrea | di pezzi d'anima sconciamente tritati | d'inestini e pensieri liquefatti...». Forse: perché, come in certi film in cui si è sicuri, alla fine, che il mostro sia stato eliminato – e il mostro ricompare più minaccioso nell'ultimo fotogramma –, anche qui l'ossessione corporea si ripresenta per l'ultimo assalto.

Tutto l'esistente, nella sua fenomenologia infinita, si connota come male, e il sesso, come volontà di essere e di continuare ad essere, è la radice di quel male: è l'orrore delle cose create.

Tutta la contingenza dell'essere dovrà liquefarsi in Dio. Scarselli è oggi un poeta della condizione, della maledizione materiale; se fosse vissuto nell'Ottocento sarebbe stato un schopenhaueriano, un wagneriano; ma nella sua ansia di liberazione c'è una punta più acuta di cattolico sentimento del peccato. Senza, tuttavia, nessuna proiezione di paradiso, poiché fuori da questo inferno non saremo più riconoscibili a noi stessi: «Ma io m'ero eretto a giudice. | legislatore: demiurgo. Dio | di azioni pervertitrici di ordine | dalla profonda delirante Suburra | del mio lo e ora l'Ordine | dell'universo mi rifiutava | come un osso immasticabile, una scheggia | vitrea fra gli enormi e inflessibili | suoi ingranaggi; con l'acido potente | delle sue lacrime mi disgregava | sciogliendo anche le ossa dell'anima | per rimuovere il mio corpo estraneo | e malato dall'occhio di Dio».

E, prima, la diuturna, estenuante battaglia della materia con la materia, l'orrore e il richiamo della vagina (amore e morte) che è sempre quella da cui siamo usciti, condannati a un destino d'incesto. E' in questi casi che, come dicevamo, Scarselli fa pensare alla prosa di Céline, o a quella di Burroughs: per meno richiamo dell'ossessione materica, mentre l'intuizione filosofia di una natura aggressiva e infernale, quasi un Lucrezio pervertito e stravolto, appartiene solo a lui: «Il vulcano s'era spento | con un umile gemito. | Tacevano gli slanci degli assalti | il cannone, le trombe, le grida | garibaldine della vittoria sul nemico; | il mostro sacro della Grande Vagina | non fu che il torvo ripugnante cratere | di cui i saggi ci avevano ammonito, | tutto ancora oscenamente spalancato | fra le macerie fumanti della libidine...».

Ma i nostri saggi potrebbero proseguire ad apertura di pagina: quello che stupisce nell'alluvionale abbondanza di Scarselli è la tenuta di tutti i suoi singoli momenti, l'arco della tensione, quasi che anch'egli sia sotto l'effetto di un beveraggio amatorio che non gli consente sosta. E non gli consente di guardare fuori di sé. di combinarsi con gli altri: caso di purezza obbligata, per la quale il dio persecutore non ammette distrazione.

Spero che qualcuno si accorga di questo poeta, che avrebbe la forza di cambiare le regole del gioco: se, naturalmente, il banco glielo consentisse. In ogni modo, la candida testimonianza di giudizio, come dice Orazio, può bastare almeno per la nostra tranquillità.

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