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Introduzione a
Nonostante tutto

Renzo Francescotti

Il rito magico dei versi di Lilia

Una sera ad Ala, dopo la presentazione dell’antologia “Donne in poesia nel Trentino” (un libro dove Lilia Slomp Ferrari è presente assieme ad altre dieci tra le più significative poetesse trentine odierne) camminavamo attraverso strade e piazzette di quella piccola città; una luce lunare sui palazzotti in gran parte disabitati, per le strette vie senza presenza umana. Camminavamo con alcuni amici, parlando di quella cittadina com’era stata pullulante di vita due secoli prima, quando era divenuta una piccola capitale nella produzione dei broccati di seta, e com’è adesso, una piccola “Bruges la Morta” trentina, quando mi sentii chiamare da Lilia: “Guarda un po’ cos’ha fatto un ragazzo con la fionda…” mi disse indicandomi qualcosa sul selciato. Guardai. Nei riflessi della luce di un lampione centinaia di piccoli cristalli iridescenti scintillavano il loro messaggio di luce. Alzai gli occhi in alto e c’era un vetro rotto. Camminando e conversando tutta la piccola compagnia era passata sopra quel piccolo arcipelago di cristalli scintillanti; ma nessuno ci aveva badato. Solo Lilia.

Ecco: se si vuole cogliere qualcosa di emblematico per capire la sua poesia, penso che possiamo isolarlo in un episodio come questo: la ricerca del magico nel grigiore del quotidiano.

A questo terzo volume di poesia in quattro anni, dopo aver pubblicato con successo di critica ma soprattutto di pubblico En zerca de aquiloni (1987) e Schiramèle (1990), primo suo libro in italiano, l’autrice si presenta dopo aver vinto innumerevoli concorsi di poesia sia in dialetto che in lingua, dopo essere stata inclusa in molte antologie e infine dopo aver selezionato le liriche di questo Nonostante tutto tra centinaia scritte negli ultimi sei anni.

Che questa poetessa abbia una stupefacente facilità a scrivere versi è ormai risaputo; che si tratti di una dote naturale da canalizzare, da affinare è altrettanto certo. Scorrono i versi di Lilia come quelli di una polla dei nostri monti, limpida e senza timore di inaridirsi.

Prevale la scelta dei versi medio-brevi, con la predilezione per il settenario: uno scorrere musicale interrotto solo da qualche cascatella, in un ambiente che è quello della natura germogliante di fiori, di voli di uccelli e farfalle, di ronzii di insetti, oppure quello leopardianamente notturno percorso dai passi della luna.

Non piacciono le albe cineree né i tramonti infocati a questa poetessa: non è attirata dai laghi nebbiosi, dalle lande desolate, dalle valli rupestri. Il suo “habitat” è la solarità, o il suo contrario, la notte. E in questo suo paesaggio Lilia si muove come una zingara, a cantare la sua “ballata scalza, denudata”, a leggere la mano, a decifrare gli enigmi, come figlia del vento:

Come figlia del vento
mi scioglierò i capelli
al suono dei violini,
ti leggerò la mano
in leggera carezza…

Qualcuno potrebbe chiedersi che senso abbia questo “mascheramento” della poetessa in gitana, che potrebbe obiettare che la vita delle zingare ha ben poco di poetico: è una vita di accattonaggio, di piccoli furti, di umiliazioni, di degrado. Ma ciò che ha còlto quest’autrice è la libertà e l’enigma degli zingari, questo loro vivere nella natura senza bisogno, come noi, di faticose mediazioni culturali per capirne qualche frammento, la loro “naturalezza del sogno”. E c’è anche il piacere tutto femminile del “travestimento”.

Così Lilia si traveste da creatura marina, da polena, lei che non ama l’acqua, non ama nuotare o navigare, e ci offre alcuni dei suoi versi tra i più suggestivi:

…e mi farò polèna d’oro
fra baci rabbiosi di schiuma..
Regalerò a frustate di vento
manciate di polline giallo…
Resterò senza veli protesa
sulla prora fantasma
d’un vascello guerriero…

Perché scriva questi e altri splendidi versi marini; lei che adora invece la montagna, ne ha grande familiarità, è stata per anni un’arrampicatrice su vie anche difficili, ma alle rocce, alle pareti non ha mai dedicato un solo verso, resta un’enigma psicologico.

Forse lei canta il mare e non la montagna perché è portata ad indagare ed esprimere in versi i sentimenti più sottili, più ambigui: ed uno di questi è sicuramente il rapporto di timore-attrazione che noi abbiamo con le creature viventi e le cose. Su questo versante, della suggestiva ambiguità, va interpretato anche il suo codice linguistico e stilistico, che è un continuo germogliare di analogie, di metafore, di correlazioni emozionali, spesso di solare comprensione, ma altre volte più sfuggente, più complesso.

Basterà analizzare, brevemente, quello che potremmo definire “piccola rapsodia dei fiori”, che comprende liriche quali “Come convolvolo”, “Nel pianto del glicine”, “Dove si artiglia il biancospino”, “Sboccerà l’arcobaleno”, “Paura”…

Intanto c’è da dire che Lilia i fiori non li descrive mai: sono solo un pretesto, un elemento di fascino riconosciuto a cui intrecciare dei sentimenti; e i sentimenti sono sempre espressi con il gioco delle metafore: così il convolvolo, il biancospino, il glicine, la ninfea, la margherita gialla, le campanule azzurre diventano via via simboli di un modo di esistere: “l’attorcigliarsi al tempo”, il pianto, il sogno, l’eros, la fine del tempo, la morte…

Perfetta nella sua semplicità, nella sua misura da pittura cinese ci sembra in tal senso la lirica “Sboccerà l’arcobaleno”.

Sboccerà l’arcobaleno
su petali di ninfea
allargati al sole
nell’impudico invito.
E l’insetto avventuriero
cercherà l’approdo
al rizoma perenne
che solitario pesca
nello stagno viola.

C’è in questa e in altre poesie, una sottile ma intensa sensualità che, come altre volte abbiamo avuto occasione di osservare, è una delle qualità più affascinanti di questa autrice.

Lilia Slomp Ferrari, nell’arco dei suoi versi accattivanti, che sembrano ignorare le angosce individuali e collettive del nostro tempo (anche se non mancano come in “Bimbi del Nicaragua”) sa però anche esprimere lo struggimento e il tormento. L’immagine della morte è “nell’ombra sfatta di un fiore”, e Lilia cerca di esorcizzarla, di sublimarla: come nella lirica “Oltre la neve”, che ha questo inizio:

Arriverò al capolinea
col primo vestito nuovo,
quello azzurro
dal colletto di trina.
Nei piedi, le scarpe
di vernice nera
un po’ graffiata. Nelle mani
solo io saprò cosa avrò…

Sono immagini di struggente tenerezza, immagini che poteva scegliere solo una donna.

La freschezza, la cantabilità, i colori magici sono le caratteristiche della cifra stilistica di questa seducente poetessa trentina: una cifra stilistica che nasconde però una trappola a cui Lilia non sempre ha saputo sfuggire. Altrove ho definito “metastasiano” il suo stile, nel senso della musicalità, della facilità, dell’armoniosità. Ma è anche vero che dei personaggi melodrammatici metastasiani il De Sanctis ha scritto “la superficialità è la loro condizione di sopravvivenza”.

La trappola è quella di credere o far credere che la realtà sia sostanzialmente armoniosa, che tutte le contraddizioni siano armonizzabili, che il caos e l’irrazionale non esistano, o che comunque devono restare fuori dalla nostra riflessione, dall’idea che ci facciamo del mondo. La trappola è quella di una poesia troppo accattivante che tende a rifare il verso a se stessa, senza mai rotture o frantumazioni.

Lilia, ci sembra, ha avvertito questo pericolo e ha reagito sia intellettualmente che stilisticamente.

Così le poesie dell’ultima sequenza, quelle da “Nonostante tutto” (che dà il titolo alla silloge) in poi, si sono fatte meno “istintive”, sono più dialettiche, più complesse. Sul piano stilistico questo significa aver allungato il verso, averlo variato di misura, fare più frequente ricorso all’”enjambement”, alla pausa interna, alla rottura del ritmo. Sul piano linguistico la lettura si fa meno immediata, più cifrata. Qualcuno potrebbe osservare che tutto questo va a scapito della freschezza, della immediatezza. Certo. Qualunque sia la nuova mossa che facciamo, uno scotto va pagato. Ma è un prezzo che, secondo noi, questa poetessa doveva pagare, anche per non rischiare di ripetersi, di non rifarsi il verso (che è la cosa peggiore che può capitare ad uno scrittore, perché significa che non ha più niente o quasi da dire).

Una lirica come quella che dà il titolo alla silloge, pur riprendendo le suggestioni marine che sono tra le cose più coinvolgenti di quest’autrice, è in gran parte nuova. C’è una maggiore complessità, una maggiore intensità rispetto al passato: le metafore invece che scaturire l’una dall’altra, si incastrano tra di loro, venendo a comporre non un gioco di rifrazioni di specchi, ma le rifrazioni di un cristallo sfaccettato. C’è anche, se vogliamo, una variazione di ambienti, di “travestimenti” nuovi, come in “Sherazàde” e in “Marrakech”, poesia quest’ultima di cui vogliamo trascrivere la conclusione.

…In piazza Djemaa el Fna,
nel canto più buio siedo, col capo
alle crepe che sanno le lucertole; aspetto
il flauto magico per la mia pelle di luna
e di serpente, agonizzante
nella sua stessa spira.

È una Lilia nuova, certamente, più intensa più drammatica, con una capacità di sogno più originale.

E lo sforzo per trovare nuovi territori poetici tocca il suo apice in “Io so”, la lunga lirica che conclude la raccolta. Lo svolgimento di questo testo poetico non è affidato nè a una linea descrittiva-narrativa, né ad un tracciato razionale, meno che mai filosofico. Vediamone l’”incipit”:

Io so che i grandi saggi camminano
insieme sui sentieri d’argilla e d’acqua,
forse solamente sul filo dello zeffiro
incontro al sole che non brucia la pelle.
Del resto nessuno ha mai veduto
il colore dell’anima. Dicono che sia
bianca. Ha fatto un patto, lei, con gli angeli
e coi dèmoni…

In poco più di sette versi Lilia ci “spiazza” almeno quattro volte, sorprendendoci con quello che noi non immaginavamo che dicesse.

È una proprietà, questa, che hanno solo i poeti veri. Lilia Slomp Ferrari con questa poesia ha varcato il crinale; che cosa vedrà di là, se un giorno ce lo vorrà raccontare, sarà affascinante saperlo

ottobre 1991

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