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Michela Torcellan
Chi ha ucciso Umberto M.
La dottoressa Alessandra Romano entrò
turbinosamente nell'ufficio posando sul tavolo, con un tonfo, l'imponente risma
di documenti che teneva in braccio. Si sedette, accavallò le lunghe gambe
fasciate dalla stretta gonna del tailleur
e accese una sigaretta sprofondandosi nella lettura febbrile di alcuni
fascicoli. Era uno degli ultimi giorni del millennio, ormai oltre il normale
orario d'ufficio, ma un giudice per le indagini preliminari non conosce requie e
così sarebbe rimasta in procura a sciropparsi scartoffie. Quel caso le era
stato da poco affidato, con gran risonanza della stampa, e non poteva non
mostrarsi all'altezza. Era stato ucciso alcuni giorni prima il famoso scrittore
Umberto M., intellettuale di punta nel panorama italiano, osannato, invidiato,
odiato forse: un delitto inspiegabile, quasi in casa, mentre il celebre
intellettuale scendeva le scale. Un killer spietato e astuto lo aveva atteso
sulle scale e fulminato con sei colpi di Smith e Wesson a canna lunga con
silenziatore. Il cordoglio era stato unanime, i funerali imponenti, la
partecipazione delle autorità corale, il movente misterioso.
Tre vedove astiose si erano incontrate in
duomo. La prima moglie Jessica, attrice americana di antichi successi, non
nascondeva il suo odio verso Marta, giornalista italiana, celebre conduttrice
televisiva, che alcuni anni fa le aveva soffiato il marito con gran strascico di
liti giudiziarie e ghiotti resoconti dei rotocalchi popolari. Indennizzata
l'insaziabile Jessica con ampie fette del patrimonio, ottenuto il divorzio,
Umberto aveva sposato la rampante Marta con un'eccentrica cerimonia buddista.
Tuttavia la volitiva giornalista, campionessa di audience
per i suoi programmi sull'eros, non aveva dato figli allo scrittore che,
gradatamente, era ritornato a orbitare attorno a Jessica e ai due figli ormai
adulti. Per questo i sospetti all'inizio si erano concentrati sulle due donne,
entrambe interessate a una prematura dipartita di Umberto M. Ma lo scrittore
aveva messo incinta la giovane segretaria che al funerale era avanzata con passo
regale nella navata del duomo, tra i flash impazziti, sfoggiando con protervia
la sua pancia di sette mesi, sotto lo sguardo livido delle altre due. Si era
saputo poi che Katiuscia era beneficiaria di un'assicurazione sulla vita,
stipulata dallo scrittore nell'apprendere di questa tardiva paternità: anche la
ragazza, ventisettenne appena, avrebbe pertanto avuto interesse nel farlo
accoppare.
Ecco quindi formarsi una triade di donne su
cui indagare, ognuna delle quali non lesinava interviste e pubbliche accuse per
lo spasso del pubblico e la vanagloria di singoli giornalisti, mentre quotidiani
e rotocalchi si chiedevano a titoli di scatola "Chi ha ucciso Umberto
M.?". Dopo alcuni giorni di panico era stato deciso che il caso sarebbe
toccato ad Alessandra Romano, ed era quasi ovvio. Alessandra, donna di
smagliante successo, già nota alla stampa per le sue inchieste spregiudicate
sulla prostituzione e sulle connivenze di certi alti papaveri, era il giudice più
giovane e avvenente, cosa che il maturo seduttore Umberto M. avrebbe apprezzato:
ne era inoltre lettrice e ammiratrice. Ma molte altre cose la univano allo
scrittore: celebre come lui da subito, come se un'aura di deferente consenso
l'avesse accompagnata fin dai primi passi, come lui vincente e ammirata, come
lui corteggiata, Alessandra aveva percorso trionfalmente tutte le tappe della
carriera, senza venti contrari. Che il caso Umberto M. planasse sul suo tavolo
era perciò scontato.
Alessandra fumava una sigaretta dopo
l'altra scuotendo la splendida chioma bionda naturale, ora disciplinata in
un'acconciatura manageriale a caschetto, mentre un tempo, agli inizi della
carriera, si sparpagliava in una cascata di riccioli ribelli, lunga fino alla
vita. Era lei, accompagnata da una scia di sesso, il sogno proibito di tutti i
poliziotti della pretura -che la contemplavano con sguardi languidi-, ma anche
di qualche giudice e pubblico ministero attempato. Aveva sposato un medico e
avuto nel giro di tredici mesi due figli, maschio e femmina. Ma la diversità di
orari e i trasferimenti continui avevano finito per avere la meglio così i due
si erano lasciati nell'impossibilità di potersi vedere. I bambini, ora di sei e
cinque anni, stavano per lo più con le nonne e l'ex-marito, che aveva più
tempo di lei, dedicava loro tutti i momenti liberi. Nessun rancore né
rivendicazione aveva accompagnato la fine della loro storia e così Alessandra
Romano, gip della procura, donna in carriera senza preoccupazioni né conflitti,
poteva dedicarsi in pace ai propri trionfi professionali. Ma proprio questo la
turbava in quella sera gelata, una delle ultime del morente millennio:
l'inchiesta sull'assassinio di Umberto M. era una vera patata bollente. Tutte e
tre "le vedove" avevano interessi economici per sopprimere
l'ultrasessantenne maitre à penser,
tutte e tre avevano degli alibi, tutte e tre avrebbero potuto assoldare dei
sicari. Le indagini sulla mala locale tuttavia non avevano portato a nulla:
nessuno si era venduto per tanto o per poco, nessuno era sparito
improvvisamente, nessuno si era di colpo arricchito.
«E se non fossero state loro?» si
chiedeva Alessandra sfogliando il dossier ormai ponderoso. La porta si aprì e
un usciere fece capolino: «Dottoressa, c'è un uomo che ha chiesto di
parlarle!». «E chi è questo? Digli che passi domattina. Ho da fare
adesso». Ma l'usciere dopo un po' tornò ad affacciarsi. «Dottoressa
Romano, quell'uomo non se ne vuole andare. Dice che deve parlare proprio con
lei». «Uffa!» sbuffò Alessandra «ma non sei capace di
mandarlo via? Ho un caso importante su cui lavorare!». Dopo un altro quarto
d'ora l'usciere ritornò. «Dottoressa, io vado a casa. Rimane il poliziotto
di guardia!». «Va bene, va bene!» esclamò irritata la gip
sprofondata nella lettura dei documenti. «Ah, dottoressa! L'uomo di prima
ha detto che non se ne va. E' giù che aspetta accanto al poliziotto di guardia.
Ha detto che deve testimoniare sul caso di quello scrittore, quello che hanno
accoppato sulla porta di casa…». «Umberto M.!» sbottò
Alessandra. «Mi pare si chiami così…Beh, buona sera!» e l'usciere
si allontanò nel corridoio polveroso trascinando i piedi. Alessandra imprecò e
telefonò giù dicendo di mandarle l'uomo che attendeva. Passata un'altra
mezz'ora si sentì bussare con delicatezza senza che si fosse udito rumore di
passi: Alessandra lo notò subito.
«Avanti!» disse e la porta si aprì lentamente.
«Permesso…Buonasera dottoressa»
e un uomo sulla sessantina dall'aria impacciata
entrò nella stanza, subito bloccandosi per balbettare qualche scusa
sull'ora. «Entri, si accomodi» disse la gip. L'uomo, stempiato e
occhialuto, si guardò attorno con smarrimento tra gli squallidi arredi della
stanza prima di riuscire a capire dove dovesse accomodarsi. «Si
sieda!» gli intimò Alessandra additando la sedia. L'uomo vi si lasciò
quasi cadere e, estratto un fazzoletto di carta da un pacchetto, si deterse il
sudore della fronte.
«Sono a sua disposizione, parli pure!
Lei è il signor?» e Alessandra stiracchiandosi sulla sua poltrona mise in
atto tutti i sistemi di sicurezza che la circondavano, compresa l'apertura del
cassetto davanti a lei dove c'era la pistola carica. Ma l'uomo sembrava
inoffensivo.
«Mi chiamo Ugo Maccarone» sussurrò,
talmente piano che Alessandra fu costretta a farglielo ripetere tre volte.
«Bene, signor Maccarone! Dica! Cosa sa
dell'assassinio di Umberto M.?». L'uomo deglutì più volte, si inumidì le
labbra e con voce tremante disse: «Ho ucciso io Umberto M.!». «Cosa? Può ripetere?» gridò con un sobbalzo la dottoressa Romano
anche se aveva capito benissimo, ma in realtà per poter azionare il
videoregistratore con un clic
mimetizzato dall'urlo. L'uomo si asciugò il sudore con un altro fazzoletto di
carta, si mise diritto sulla sedia e poi ripeté quasi sillabando, con voce
forte e chiara: «Ho ucciso io Umberto M.!». La confessione stavolta
era stata registrata e Alessandra non poté fare a meno in quel momento di
immaginare la gloria che l'avrebbe circondata per il caso risolto, la risonanza
sui mass-media, la celebrità che l'avrebbe investita, l'avanzamento di
carriera che ne avrebbe ricavato, gli invidiosi -e soprattutto le invidiose- a
rodersi il fegato, il tutto a meno di trentacinque anni. Ma questo lusinghiero
progetto, pur immaginato nei dettagli, non prese nella sua mente che lo spazio
di pochi secondi, mentre al di fuori non traspariva altro che un'espressione di
gravità e di interesse per quanto quell'uomo sconosciuto andava cianciando.
Solo allora Alessandra Romano prese a guardarlo davvero: aveva un aspetto
dimesso, grigio, addirittura banale, da professore delle medie alle soglie della
pensione, stempiato, il cranio lucido, gli occhiali a montatura pesante, il
vestito anonimo su cui risaltava un unico particolare: il gilé con la catena
d'oro dell'orologio, retaggio di anni perduti quando anche quello era banale.
Alessandra si accese una sigaretta, ne offrì all'uomo che rifiutò e preferì
una mentina: le portava sempre con sé, spiegò, e, estratta una scatolina
metallica dalla tasca, la posò sul tavolo perché anche la gip potesse
prenderne.
«Adesso mi spieghi meglio, signor
Maccarone. Perché avrebbe ucciso Umberto M.? Cosa le aveva fatto?» chiese
Alessandra aspirando lentamente grandi boccate di fumo.
«Come avrei?
Io ho ucciso Umberto M.!» proclamò l'uomo con orgoglio «Perché usa
il condizionale, cioè un modo ipotetico, e non l'indicativo, il modo della
realtà?».
«E come le dovrei chiedere?».
«Mi chieda: perché ha ucciso Umberto M.?».
«Allora ricominciamo da capo. Perché
ha ucciso Umberto M., signor Maccarone?». Un altro fazzoletto percorse la
faccia e la pelata del reo confesso che riprese: «Perché mi aveva rovinato
la vita! Non è sufficiente come motivazione?».
«Capisco, eravate rivali. Ma nella
professione o in amore? Quali erano i vostri rapporti?» chiese Alessandra.
«Non c'erano rapporti, signora mia.
Umberto M. ignorava la mia esistenza». Alessandra sgranò gli occhi,
incredula. «Vuol dire forse che non vi conoscevate?».
Dopo una mentina Ugo Maccarone riprese: «Non ci conoscevamo, infatti. O meglio lui non conosceva me, ma io lo
conoscevo, eccome. Forse per farle capire dovrei raccontarle tutta la mia vita,
ma non voglio farla troppo lunga. E' già tardi, siamo sotto le feste e lei ha
due bambini a casa che l'aspettano, so anche questo. Ma non tema: non uccido
tutte le persone che conosco e non sanno di me. Il fatto è che quell'uomo mi è
apparso fin dagli albori della vita, quando tutti aspiriamo a qualcosa. Si iniziò
con dei saggi sulla televisione che stavo scrivendo quando la TV era all'inizio
ed ero ancora universitario. Se ne uscì prima lui e tutti a dire: «Che
arguzia, che intelligenza», mentre quelle stesse idee me le stavo covando e
scrivendo io. «Coincidenza!» mi dissi. Cominciai a seguire i suoi
studi, le sue iniziative e giuro che lo facevo con simpatia: ero anzi uno dei
suoi estimatori. Dopo la laurea emigrai al nord -sa dalle mie parti per un
intellettuale non c'era niente- e cominciai a fare il correttore di bozze,
coltivando l'ambizione di diventare inviato speciale, magari corrispondente di
guerra. Volevo andare in Africa e descriverne tutti gli aspetti più autentici,
non quelli da jet-set annoiato che piacevano ad Hemingway e che la gente
continuava a ricordare. Avevo già ottenuto dal mio giornale di essere mandato
per un reportage in Biafra, allora
devastato dalla guerra civile e dalla fame. Ma il giornale concorrente mandò
Umberto M., allora giornalista e saggista, con gran strombazzo dei mass-media.
Il direttore mi convocò e mi disse. «Devi restare a casa! Adesso che ci va
lui noi dobbiamo opporre qualche firma di prestigio, non un correttore di
bozze!». Ebbi un crollo. Erano cinque anni che mi documentavo, sapevo tutto
della cultura africana occidentale, ne masticavo un po' le varie lingue, invece
lui su due piedi aveva deciso e tutti ad applaudire. Naturalmente dovette
viaggiare con uno squadrone di esperti e la sua testata spese una cifra folle
per mandarlo in giro, ma lui era Umberto M. e tutto quello che gli saltava in
mente poteva farlo, anche senza preparazione, tanto ci pensavano i suoi
negri».
Alessandra sospirò. «Certo, quelli
dell'Africa! A quell'epoca doveva esserci ancora la schiavitù!».
«Ma che Africa!» esclamò
Maccarone concitato «i negri sono gli schiavi
di qui, quelli che studiano, scrivono, documentano, perché un capo si
attribuisca tutto. Anche le trasmissioni che vede in televisione…»
«Non guardo mai la televisione, non ho
tempo» disse sdegnosa la gip accendendosi un'altra sigaretta.
«Le trasmissioni che vedono o vedranno
i suoi bimbi, allora: documentari naturalistici, relazioni scientifiche,
inchieste politiche. Sono tutte frutto del lavoro di negri malpagati che vanno a
finire sotto l'egida del grande nome del giornalismo il quale, agli occhi del
pubblico, fa tutto lui e sa tutto lui. Capisce l'equivoco?» e Ugo Maccarone
sospirò.
«Ho capito» concluse Alessandra «allora anche nell'Africa degli anni '60 furono mandati questi esperti che
hanno parlato le lingue, fatto le interviste, studiato la storia, la politica,
l'economia e poi Umberto M. è arrivato comodamente, ha scritto un bel pezzo con
il suo stile avvincente -perché questo glielo deve riconoscere- ed è stato
ancora una volta un successo!».
«Esattamente! E' come se lei facesse
le inchieste e un giudice superstar se le attribuisse…ma qui queste cose non
succedono!».
«Lasci perdere…E continui!»
disse seccamente la gip.
«Avevo perso la mia grande occasione
per colpa di Umberto M. Però scrivevo romanzi. Sono sempre stato uno scrittore,
ho anche vinto dei premi. Mi hanno sempre detto che ho uno stile fluido,
accattivante, che si legge con piacere. Così dopo l'amara esperienza del
mancato viaggio in Africa mi decisi a por mano a un abbozzo di tanti anni prima:
un romanzo medievale. Era la storia di otto più uno cavalieri che nell'anno
1033 si recavano in Oriente a cercare le prove dell'esistenza di Cristo allo
scopo di far trionfare la vera fede. Ci lavoravo fin dagli anni '50. Dopo il '68
mi misi all'opera e, pur continuando a correggere le bozze e a scrivere qualche
articolo di nera, dipanavo la matassa di una ricerca religiosa e filosofica,
antichissima eppure estremamente moderna, in cui gli otto più uno arrivavano
addirittura a trovare il corpo di Cristo, sepolto in una montagna dell'Iran ed
evidentemente mai risorto, ma reale e storico perciò ancor di più degno di
fede e d'amore…»
«Scusi ma perché otto più uno? Non
sarebbe meglio dire nove?» domandò interessata la dottoressa Romano.
«Domanda intelligente, signora
mia!» ammise compiaciuto Ugo Maccarone «perché infatti si trattava di
otto uomini e una donna, scelti tra il meglio della società europea del 1033,
anzi allevati fin da piccoli allo scopo di compiere la grande impresa, che era
anche il titolo del romanzo».
«Bello! Ma non l'ha pubblicato?»
chiese Alessandra appoggiando il mento alla mano, con il gomito sulla scrivania
e prendendo una mentina.
«No, purtroppo. Era quasi finito.
L'avevo già fatto leggere ad alcuni editori che ne erano entusiasti:
l'argomento piaceva anche se un po' eretico, ma d'altronde l'eresia accompagna
l'ortodossia per tutto il medioevo, come una storia parallela. Alla fine mi
accordai con un editore serio, minore ma non minimo. Stavo per firmare il
contratto quando Umberto M. se ne uscì con il suo
romanzo medievale, volgare e antistorico, costruito a tavolino senza il minimo
studio sull'epoca che trattava. Ma non importava: l'aveva scritto lui
e questo bastò per mandare il pubblico in delirio. Il medioevo divenne di
moda e il mio editore si rifiutò, e con ragione, di seguire le velleità del
momento: era un editore serio, ripeto, per questo ora è fallito».
«Poteva però rivolgersi a uno meno
rigoroso. Immagino che molti pubblicassero roba medievale a quell'epoca, anche
roba qualsiasi…»
«Proprio così, signora mia, proprio
così. Ma doveva essere pesante, volgare, piena di sesso e violenza, torture e
roghi, sennò non la voleva nessuno. Proposi l'opera a qualche modaiolo, ma
-dissero- avrei dovuto cambiare molte cose. La donna del gruppo doveva portarsi
a letto gli altri otto, magari tutti insieme e poi venir arsa sul rogo come
strega, invocando Satana e calandosi le mutande. Questo volevano, ma io, mi
spiace, certa roba non la scrivo. Così "La grande impresa" rimase
inedita, mentre Umberto M. era invitato ovunque, intervistato su qualsiasi
argomento, considerato un grande studioso, tanto che gli diedero la cattedra di
Filologia Medievale, ma lui beccava lo stipendio e non andava mai.»
«Per questo lei lo odiava,
allora» e Alessandra ebbe un brivido di pietà per lo scrittore fallito che
le stava davanti.
«Per questo e per altro…»
mormorò Maccarone «Io facevo, come le ho detto, il cronista di nera e mi
ero specializzato in delitti, conoscevo le armi, avevo imparato le mosse degli
assassini, le loro motivazioni, i loro errori. Dopo qualche anno, avendo
acquisito i necessari titoli, tentai l'esame di stato che mi avrebbe consentito
di campare di giornalismo, forse di conoscere degli editori e pubblicare qualche
mia opera. Avrei potuto abbandonare le bozze e fregiarmi del titolo di
professionista iscritto all'albo. Ero però già abbastanza anziano e, dopo due
fallimenti, avevo riposto tutte le mie speranze nel terzo tentativo, dopo il
quale sarebbe stato impossibile mettermi ancora a studiare. Ero preparatissimo e
affrontai la prova scritta con sicurezza.
Ma fui scartato anche allora, benché avessi svolto il mio compito
perfettamente. Attivando delle conoscenze riuscii a sapere il motivo della mia
esclusione: c'era tra gli altri candidati un raccomandato di Umberto M. e costui
doveva superare l'esame. Così quando
videro che non ce l'aveva fatta, decisero di scegliere per sorteggio chi
scartare tra gli idonei per lasciare il posto al pupillo dell'illustre
tuttologo. Data la mia fortuna, la scelta cadde su di me…».
«Povero Maccarone!» mormorò
Alessandra «lei non è riuscito ad avere niente dalla vita e sempre si è
trovato davanti la presenza ingombrante di Umberto M. Pare quasi una
maledizione… come le vostre iniziali!».
«Vedo che capisce, e me ne compiaccio!
Guardi che è la prima volta che accade. Forse dipenderà dal fatto che lei è
giovane quindi ha meno pregiudizi. Ma capisce come mi sono trovato? Quell'uomo
mi ha attraversato la strada di continuo, come un malefico gatto nero, gli sono
state attribuite le mie idee e i miei progetti che io non riuscivo mai ad
affermare, anche se li pensavo prima di lui. Lui otteneva subito risonanza
appena un barlume gli attraversava la mente e tutti osannavano il miracolo di
cotanto genio. Ma le stesse cose dette da me già anni prima erano state
ascoltate con noia .»
«Poteva fare il negro! Ha detto che si
chiamano così no?» suggerì con tristezza Alessandra che ormai aveva
mangiato tutte le mentine di Ugo.
«Già…E vendere le mie idee per una
miseria, raccattare le briciole della gloria altrui, pasteggiare con gli
avanzi…come le iene. Che bellezza!»
«Almeno le iene mangiano, signor
Maccarone. Invece lei ha avuto solo amarezza» osservò la gip.
«Anche questo è vero, ma la mia è
stata una scelta oculata. E coerentemente ho deciso di togliere di mezzo
quell'uomo, per la gioia dei suoi eredi, del suo harem, ma anche degli scrittori
mediocri come me che pure hanno diritto di vivere, almeno in questo
strombazzatissimo e già tedioso millennio veniente. Ho escogitato tutto molto
freddamente, sa? Non è stato un impulso. Ho meditato per anni, cronaca nera
alla mano: basta non lasciare tracce, impronte, avanzi organici, basta studiare
il nemico. Così con la stessa accuratezza e disciplina con cui ho scritto le
mie opere, ho preparato quella più originale: l'assassinio di Umberto M. L'ho
atteso sulle scale. Scendeva a piedi perché soffriva di claustrofobia, ma
saliva in ascensore per via dell'asma. Al primo piano c'è un appartamento vuoto
e in un altro abita una vecchietta sorda. Ho aspettato lì. Mi ha anche salutato
e io ho risposto, poi ho sparato sei colpi: cinque al torace e l'ultimo, quando
era a terra, alla testa, il colpo di grazia. Non mi sono sporcato di sangue, ho
usato i guanti, ho abraso il numero di matricola dell'arma che ho abbandonato
sul posto. L'avevo comprata molti anni fa e ho il porto d'armi. Non mi avreste
trovato mai. Ma non è stata solo la rabbia di una vita di fallimenti a
ispirarmi, è stata anche la speranza.»
«In che senso la speranza? Si
spieghi!» chiese Alessandra. Ugo Maccarone si deterse ancora la fronte con
l'ultimo fazzoletto poi continuò.
«Nel nostro paese purtroppo si sta
imponendo un feudalesimo culturale non molto dissimile da quello medievale.
Vede, signora mia, esistono solo i grandi, quelli che compaiono in Tv e
tappezzano i giornali, perciò scrivono libri e hanno libero accesso ovunque:
potrebbero anche sfilare o cantare o girare film se gli venisse il capriccio,
sarebbe comunque un trionfo. Dall'altra parte stanno gli ignoti. Insomma non c'è
una classe media degli scrittori e degli intellettuali in grado di fornire una
produzione di buon livello professionale senza essere delle celebrità. E' per
loro che mi sono battuto e che ho ucciso Umberto M., anche se domani i giornali
strilleranno che l'ho fatto perché volevo essere famoso, perché il mio nome
venisse eternato seppur in un atto distruttivo, un po' come l'incendiario del
tempio di Efeso di cui pochi ricordano il nome: Eratostrato. E gli psicologi
diranno…mi vengono i brividi a pensare a ciò che diranno! Ma io l'ho fatto
per affermare i diritti dei mediocri! Aurea
mediocritas, cioè la "preziosa moderazione", virtù divina…Non
esistono solo i grandi e le nullità a questo mondo, come non esistono solo gli
elefanti e le formiche! Esistono anche tanti stadi intermedi che dovrebbero
essere considerati e apprezzati per quel poco o tanto che possono dare. Perché
non valutare anche gli onesti artigiani della cultura? Pensi se una mentalità
del genere si facesse strada anche negli altri campi, per esempio in
magistratura, ed esistessero soltanto i grandi giudici da un lato e gli sbirri
dall'altro, i processi fossero dati solo ai grandi, magari direttamente in
cassazione, e voi foste solo gli ignoti componenti delle équipes di costoro -oppure dei semplici agenti, in pratica carne da
cannone, buoni solo a morire- e non vi fosse riconosciuta la dignità di gip o
di commissari e il vostro lavoro fosse ignorato, dimenticato, ascritto ad altri.
Come vi sentireste?»
Alessandra spense il videoregistratore con
un sospiro e guardò con occhi stanchi l'orologio. «E' mezzanotte e mezza,
lo sa?». Ugo trasse l'orologio dalla tasca del panciotto, allibì, si scusò
e sorrise umilmente. Alessandra sorrise a sua volta, salì sulla poltrona dopo
essersi tolta le scarpe, raggiunse la telecamera, ne estrasse la cassetta e,
ridiscesa, la infilò nella sua ampia tracolla che pendeva dallo schienale. Ugo
osservò tutto in silenzio.
«Lei mi deve arrestare, dottoressa. Io
sono un assassino».
«Non ho prove di quanto lei mi ha
raccontato e questa cassetta registrata sparirà presto. Quindi, signor
Maccarone, le consiglio di tornare a casa, farsi una bella dormita e vedrà che
domani con il sole del nuovo giorno e con quelli del nuovo secolo e magari del
nuovo millennio, le cose le appariranno più concrete e queste fissazioni che ha
avuto si dissolveranno».
Ugo rimase interdetto. «Insomma non mi
ha creduto!» disse.
«No! Non lo credo possibile e poi lei
non è il tipo del criminale, lo lasci dire a me che me ne intendo… Ci siamo
fatti una bella chiacchierata su un personaggio che entrambi ammiravamo. Le
consiglio di dimenticarsene. Non vada a ripetere questa storia a qualche mio
collega avido di celebrità, mi raccomando. La sbatterebbero come un mostro in
prima pagina! E non capirebbero nulla di lei».
«Ma io sono un assassino!»
proclamò, quasi con orgoglio, Ugo Maccarone.
«Capita! Capita nelle migliori
famiglie!» e Alessandra si diresse verso la porta, l'aprì e invitò
Maccarone a uscire. L'incredulo omino, dopo qualche opposizione, si lasciò
convincere, si accomiatò, promise di tacere, di ritornare quieto alle sue bozze
-sempre più fradice di errori con i tempi che corrono!- e uscì alla
chetichella dalla procura. Alessandra si stiracchiò sulla sedia, guardò i
fazzoletti di carta sparsi qua e là, accese con voluttà l'ennesima sigaretta,
poi sospirò: «Nemmeno io farò mai carriera!». Ma questa prospettiva,
per la prima volta in vita sua, le parve stranamente allettante come qualcosa di
veramente nuovo che si profilasse al suo orizzonte al di là di uno sciocco
cambio di data: un part-time,
equivalente a una carriera bruciata o, nella migliore delle ipotesi, rinviata
alla mezza età, le giostre con i bambini, vacanze in qualche spiaggia per
famiglie… magari un altro marito, uno normale. «Aurea mediocritas!» ripeté assaporando i suoni pastosi della
lingua madre.
Si alzò, spense le luci, chiuse l'ufficio,
percorse il corridoio polveroso dove tanti uscieri erano invecchiati
strascicando i piedi, passò davanti al poliziotto di turno che la guardò
rapito, lo salutò affabilmente. Fuori del palazzaccio della procura fu accolta
da una notte serena e ventosa, con un cielo nero e punteggiato di stelle come
certi manti di madonne medievali. Si tirò su il bavero del giaccone imbottito,
infilò i guanti e si incamminò a grandi passi verso i suoi ignari bambini.
Tornò a casa contenta.
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