Postfazione a
Spettacolo e Palcoscenico
Maria Pia Moschini
Costruire una lunghissima
promessa...
L'opera di Liliana Ugolini
Spettacolo e palcoscenico è un paziente lavoro di
ricognizione dell'oltre, dimensione che sfugge al passato e al futuro ma che non
si colloca neppure nell'attimo presente, si dissolve.
Oltre, infatti, come visione percettiva di un
altro da sé, che indaga e
descrive in graffiti, in onde lunghe, lineari, il percorso che conduce
all'acquisizione del senso profetico. Profezia come intuizione del divenire: niente
è immobile. Il viaggio si
compie nella consapevolezza del viaggio.
Nella visione concava della vita come rappresentazione, tutto avviene
all'interno di un emisfero che può contenere solo la meta del vero.
L'eco ripercuote i suoni che noi stessi abbiamo provocato, immersi nella
penombra dell'altro emisfero concavo che ci contiene.
Registrare i fatti non è perlustrazione del reale, ma teatro, iper-azione
rappresentativa, esaltata dalla parola che, narrando, s'inerpica nella curva del
tempo e si riempie di senso, anche occulto.
Liliana Ugolini con una lanterna, più che magica, iperrealista, descrive e
inscrive i fatti nel paradosso della filosofia. Anima se stessa di quel vento arcano e fertile che svela i diaframmi sottili
dell'accedere a una verità composita, articolata.
Il sogno è volontà di
perfezione più che di
percezione. Il percorso è
nella rinuncia al senso compiuto, è l'accettazione di una verità che si dilata fino all'inverosimile dove
forme e contenuti si nutrono della stessa sostanza.
La prima parte: spettacolo,
è interamente filmica. Le sequenze, come fotogrammi, vengono
sospinte da un vento tellurico, oscillante.
Muovono e sommuovono i vari piani di azione.
Le presenze, al femminile, perdono le
connotazioni: il tutto legato dal filo violetto del
dramma implicito, catenella che porta in sé il respiro della speculazione.
Invento nel teatro verità...
Il corpo in movimento esaurisce la mimesi, il dramma si consuma nel gesto
minimale/subliminale. È un teatro viaggio di voci, ripensamenti, presentimenti.
E in questo presentire che la passione,
il sogno, la vena... non si rivelano
anticipazioni di ciò che è
già accaduto ma che dovrà ancora accadere, nel ripetersi delle continue catarsi
a cui l'uomo è intimamente
connesso.
I personaggi-persone, verranno sostituiti da altri personaggi. Quello che
rimane è l'evento che conduce
a un altro evento, necessario per poter completare il viaggio.
Un carro di Tespi? Non solo...
una navicella spaziale, un'arca che precede
il
diluvio e lo esorcizza, lo annienta con la forza della sua volontà di essere
spettacolo. Si cammina insieme tenendosi per mano, ma le interferenze della vita ci
impongono la separazione, lo sciogliersi delle dita.
È in questa autonomia
di azione che l'Autrice si riconosce: "Immersa sto
diversa, a capire come, grana di pieghe e d'orme
l'arte
divenga luce di riscatto nel mostrar tra spine (capogiro immane) la Bellezza".
L'autore di testi teatrali soffre quindi di doppia vertigine: I'immersione
nell'abisso ruotante, nel vortice he inghiotte e la risalita in totale assenza di
timone. E lasciarsi andare alla forza creatrice della parola
per poter inabissarsi e
riemergere stremato dall'energia di un percorso che penetra il senso della vita.
"L'autore muore. L'esigenza, dicono, teatrale..."
È in questo
occultarsi, scomparire nell'iter che dello spettacolo
è la prassi, l'enigma che rende l'Opera
un documento che si autodistrugge nell'attimo
della sua manifestazione. Ogni replica scrive un documento nuovo, lo codifica. Restano le date, le foto,
gli esiti del presagio.
L'autore addensa la sua pena, quella di aver viaggiato con dei fantasmi.
Resta da solo davanti allo specchio e, a volte, non si riconosce tanto
il senso
si è dileguato nell'effimero
disincanto.
Allora riprende il cammino, una nuova partenza che
lo condurrà (attraverso il
silenzio) oltre il silenzio, nella dimensione del già accaduto che, come l'Araba
Fenice riprenderà forma e visione, luminescenza e applauso nell'eco che fa del
Teatro il paradosso dell'invisibile.
Nel testo Palcoscenico, il Teatro assume il viaggio come percorso mentale,
introspettivo. Il monologo è un canto che
a sua volta è richiamo e intima
verità. Il dramma descritto diviene elemento purificatore
oggetto della Passio.
Gli specchi si moltiplicano in una dimensione che
il mito colloca nelle volte di una foresta gotica. L'inconscio esplora i suoi spazi verdi, occulti ma densi di vita, di humus,
il dolore si abbevera alla sorgente di una verità che scaturisce dalle viscere.
I limiti e i confini esistono:
è l'Ara del sacrificio, è
il fossato che isola. L'eroe combatte, l'eroe donna scava con la forza della sua fede nella vita e
nella morte un pozzo profondissimo da cui sgorgherà l'acqua della rigenerazione.
Toccare il fondo dell'esperienza tragica è sfiorare un altro fondo
che conduce all'annullamento, all'invisibilità.
Le donne rievocate da Liliana Ugolini sono invece passate alla storia per
aver sfidato l'abisso da cui sono riemerse diverse ed eterne. È un invito alla sfida, alla verità che frantuma tutte
le maschere fino alla
luce della visione interna, speculum di un'etica che non coincide spesso con i
mores ma li trasforma e li toglie dalla loro fissità di morte.
Solo il monologo in versi può esternare il dramma avvolto nelle pieghe di un
segreto che scintilla nel buio.
È un lacerare con le
mani la propria immagine per dare forma a quell'altro
da sé che segna l'esordio di questo scritto,
dedicato a un'autrice che nel cuore della notte scrive aspettando l'alba,
attingendo della profondità del silenzio il grano d'oro
della bellezza.
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