| |
In postfazione a
Lo specchio in mano
Due lettere
Caro Oddone,
ho letto – in questi giorni – delle
pagine appassionatamente polemiche sul difficile tema della possibilità di
riconoscere e distinguere la poesia dal diluvio di scritture in versi che
affligge la contemporaneità (ma, ci viene ricordato, il problema si poneva anche
nel passato, da Orazio a Montale). È
un tema, questo, sul quale avevamo già
discusso in un incontro padovano del 2006.
L'autore delle pagine che ho ricordato
(Alfonso Berardinelli,
Poesia non poesia, Torino,
Einaudi, 2008) propone una serie di questioni di un certo rilievo per chiunque
voglia misurarsi con la produzione contemporanea e coglierne il senso. Di fronte
alle centinaia (meglio: migliaia) di dattiloscritti inediti e di opere edite
che partecipano all'enorme numero di premi di poesia, di fronte alle decine di
antologie di autori che si costituiscono in "gruppi" con le finalità del mutuo e
reciproco sostegno, magari sotto l'insegna di qualche manifesto, ci
si chiede (è una domanda vecchia ma sempre buona) che cosa valga davvero, che
cosa vada salvato e difeso. E la responsabilità del critico (quello che non sia
coinvolto in conflitti di interesse, come già scriveva ai suoi tempi – sul
"Caffè" – Cesare Beccaria) diventa quello di segnalare le pagine di qualche spessore di fronte al vuoto di tante altre, di distinguere
le ricerche serie dai tecnicismi solo d'effetto, i testi di qualità dalle
troppe improvvisazioni. «La produttività poetica dilaga», scrive Berardinelli,
il quale – tra l'altro – sottolinea un fatto incontestabile, almeno in
riferimento alla poesia attuale: che – cioè – il «pubblico della poesia resta un
fantasma, un pubblico di non lettori, una virtualità che sembra condannata a
rimanere tale». Con il risultato di convegni e seminari e manifestazioni
promosse dai premi, dove il pubblico (fin troppo d'élite, nel senso di: esiguo, ristretto) è quello di autori-attori che ascoltano
altri attori-autori. Mentre è un fatto che, ad ascoltare letture di classici
(per esempio, Dante) ci sono oggi – sempre più – platee di gente comune (non
soli addetti ai lavori), e di giovani. Mi è capitato, un paio di settimane fa,
a Parma – per il Festival di
Poesia (Per altri versi) – di
restare in piedi per un paio d'ore in una piazza affollatissima (davanti alla
Casa della Musica) a sentire Gabriele Lavia che leggeva i Canti di Leopardi.
Da un altro lato, troviamo
sperimentazioni che non sono sperimentazioni bensì manierismi, reinvenzioni del
deja vu
(installazioni, poesia visiva, ecc.)
che ci fanno rimpiangere gli archetipi di questi generi di ricerche di tanti
decenni fa. In altri casi, troviamo quegli esperimenti che «hanno qualcosa di
neoclassico», scrive il nostro Autore, «arrivano dopo il vuoto e l'informe,
usano la forma per dare forma a un tema definito», segno che la «poesia prova a
diventare recitabile e leggibile». Ciò che ci rimanda a una vecchia verità, alla
quale Tu facevi riferimento nell'incontro padovano citato prima, che – cioè –
la prova di tenuta della poesia consiste nella lettura ad alta voce, non solo o
non solo quella attoriale, ma anche (e più semplicemente) la lettura di chi
mostra di intendere i punti di forza e il senso di un testo proprio o altrui. È
la ragione, questa, che mi ha fatto sùbito apprezzare i versi – tanto per parlare
di contemporanei – di Mariangela Gualtieri, una delle voci giovani e più
qualificate della poesia italiana d'oggi, una scrittrice la cui
esperienza è strettamente legata al teatro.
Insegnare a leggere, a saper
leggere, anche a scuola (spesso gli alunni si lamentano di insegnanti incapaci
di leggere un testo), potrebbe essere un compito da affrontare nella formazione
degli insegnanti. Il discorso sarebbe lungo, per cui mi limito ad un solo cenno
a un problema che meriterebbe più attenzione: quello della lettura, primo passo
per qualsiasi interpretazione, per qualsiasi ragionamento sulla poesia, e per un
suo possibile recupero come forma di comunicazione a un pubblico non
circoscritto alla consorteria degli autori e dei critici di supporto; quello
della lettura, primo passo necessario per promuovere l'interesse non tanto verso
la poesia in quanto tale (suggerisce ancora Berardinelli), in quanto – cioè –
autorità sacrale, sorta di ombrello sotto cui riparare indistintamente tutti i
versificatori, ma piuttosto verso i singoli poeti, verso le poesie che
«convincono il lettore» e gli fanno credere nella poesia (e, aggiungerei, anche
verso la poesia di chi è in grado di fornirci chiavi di lettura della poesia
stessa e del nostro rapporto con essa).
Una delle definizioni più belle
della poesia che ho avuto modo di leggere recentemente è quella fornita da
Davide Rondoni ("Specchio+" di "La Stampa", 573, luglio-agosto 2008), secondo
il quale la poesia «è la voce di un altro che mi fa accorgere di più della mia
esistenza».
Questa è anche una delle
ragioni per cui ho sempre apprezzato i versi di Gabriella Villani. Pochi,
meditati, maturati ed elaborati a lungo, apparentemente semplici nella loro
nitidezza. Motivati da un'idea precisa della ragione per cui
vale la pena di dare forma poetica a un compito (enunciato in modo tanto
essenziale quanto profondo) che è quello di trasmettere una problematica
esistenziale concreta vissuta come rapporto tra sofferenza e felicità («Lo
specchio in mano | per vedere riflesso | oltre il mio viso |
dentro l'anima | chiedere se la sofferenza | è servita
| a rendere la vita felice per lunghi
attimi»; p. 51).
Rispetto al
precedente Abbraccio dei
colori,
dove – sin dal
titolo – era scoperto il rapporto tra visività e scrittura, questo
Specchio in mano ci
mette di fronte
a una felice coniugazione di testi poetici e testi figurativi, di mano
dell'Autrice delle poesie. Illustrazioni (tecnica mista, pennarello e tempera,
variamente datate dal 1970 al 2008) che sono in assoluta sintonia con
l'impostazione e gli esiti della poesia e che rivelano omogeneità, continuità e
coerenza di impianto. Dove il gusto cromatico raffinato si risolve in esiti
visivi che sembrano semplici. Dove domina il gusto della rielaborazione
fantastica di una natura viva e avvolgente, ricca di tonalità e di sfumature,
eppure compatta negli effetti, di un colorismo mai eclettico. Dove ancora, gli
effetti di colore – studiati da vicino – rivelano una stratificazione
complessa, volta a ottenere una sostanziale semplicità e unitarietà degli
effetti.
Nelle quattro
prove che illustrano il libro, tra copertina e corpo del testo, il soggetto è
una terra corposa e luminosa, dove piante e frutti, alberi case e castelli (un
po' fiabeschi) sembrano "posati" più che radicati, illuminati da uno
splendore tanto intenso quanto effimero. Con una esplosione di colori che sembra
voler dichiarare che si tratta di momenti di massima luminosità di un mondo che
– altrimenti – perderebbe la propria lucentezza.
Case
elementari, flora e paesaggi – rappresentati da segni essenziali – risultano
quasi come indicazioni convenzionali per avviare un discorso che viene svolto
piùdalla luce e dal colore che dagli oggetti stessi. E, dunque, una
raffigurazione che risulta complessa, che va oltre la pura forma e il contenuto
delle cose, che investe il colore e i rapporti di colore, diventa atmosfera,
clima, ambiente, modalità esistenziale. Allo stesso modo, nelle poesie di
Villani, le cose nominate sono solo un avvio per individuare atmosfere, momenti
vissuti nel raccoglimento dell'animo, riflessioni su di sé, sul senso della
vita, sull'amore, sull'amicizia, sulla solidarietà, sulla durata delle cose e
dei sentimenti.
Nelle
illustrazioni, domina il gusto della sperimentazione di tutti i colori
dell'arcobaleno sia nella loro individualità sia nelle sfumature e mescolanze.
Purezza e ibridazione. Utopia e realtà. Sogno, come risvolto di ciò che non lo
è, di una realtà spesso dura. Riduzione a unità ed elementarità di segno di una
realtà che è tutt'altro che comprensibile e "facile" da cogliere e da
esprimere. In questo mantenimento della molteplicità di facce del reale, sta il
fascino della pittura e della poesia di Villani. E le illustrazioni prodotte ci
fanno rimpiangere che l'Autrice non abbia continuato a coltivare questa vena
così felice; e ci fanno capire quanto il suo sguardo e la sua scrittura siano in
debito rispetto all'esercizio dell'attività pittorica. Sia in forme
immediatamente percepibili dall'impianto paesaggistico della scrittura
(Alla ricerca di Cala Corallina o
Non più poesie d'amore) o
in certi tratti
da natura morta (p. 11: «...|| Le conchiglie rigate | gli "occhi | di Santa
Lucia" | dalla spirale grigia || i gusci secchi dei ricci | colorati di rosa
|
appena verde | quasi turchese |...») sia in forme più sottili (tratti di visi e
di fisionomie; posture; percezioni della memoria sollecitata dallo sguardo;
quadretti in movimento con il vento che anima il paesaggio; notturni
"leopardiani" e interni metafisici, ecc.). Ma anche i colori dei sentimenti: «Il
colore della nostalgia | forse blu | che si accartoccia | dentro
| lasciando | corto il respiro | ...» (p. 25). E i segnali di stati d'animo:
«Perfetto | bozzolo bianco | Dondola appeso || il vento porta odore di
salmastro |...» (p. 26). Un incontro (quasi una concrezione)
colore-odore-movimento-riflessione che trova momenti di speciale felicità in
poesie come L'uomo delle api.
E, ancora, i colori degli
affetti, come quelli delle sciarpe, evocati in due poesie:
Lunga sciarpa rosa
e
Passione per le sciarpe.
In questo contesto di immagini,
la poesia può anche essere vista come una tessitura; e pure quella del telaio –
del telaio della fantasia – è una metafora presente nei versi di Villani, dove
gli strappi della tela indicano quel dolore, quelle lacrime, quell'interruzione
della felicità e degli affetti che sempre ci minacciano e che sono presenti,
come un filo poco appariscente ma saldamente presente sotto la pàtina incantata
dei colori e della ricerca della bellezza. Così come ai colpi del dolore e
dell'angoscia fa da contrappeso il movimento dell'ala o degli aquiloni (altre
immagini-griffe presenti nei versi di Villani), emblema dell'attesa, della
speranza, del sogno; in una vita vissuta come momento di nostalgia e di ricerca
dell'infinito («Pensieri d'amore |...» p. 41).
Un intreccio complesso di fili
diversi della realtà, proiettati nella prospettiva utopica della serenità,
identificata nel blu del cielo, dove approdano storie diverse, voli di
differente facilità e felicità.
Un sistema di segni – quello
della poesia di Villani – per rappresentare una complessa visione
dell'esistenza, che si traduce in musicalità leggera, in colloquialità
confidenziale, in un lessico sempre elementare che – però – produce situazioni
psicologicamente ed emotivamente complesse: il disegno di una totalità dove la
ricerca di serenità e di felicità vuole essere solo la pàtina lucente di
unmondo che va letto anche nel suo rovescio difficile e doloroso, che la
volontà e gli affetti tentano di dominare.
Per tutte queste ragioni, caro Oddone,
mi sembra che questa poesia meriti attenzione e valga una lettura intensiva,
come spetta ai testi dei poeti, non a quelli dei versificatori. Perché, come
diceva quel poeta dell'intervista che ho citato prima, è la voce «di un. altro
che ci fa accorgere» della nostra esistenza. E perché ci insegna a leggere,
dentro la pàtina della realtà (parole, forme, colori, suoni, ritmo, movimento)
e oltre la seduzione della bellezza, anche il cuore difficile dell'esistenza.
Un saluto affettuoso e un abbraccio dal
tuo Elvio Guagnini
Carissimo Elvio,
non so se in questo
scambio epistolare mi riuscirà di darti del "Tu" come hai fatto con me in un
certo tratto della tua lettera. Se mi consenti una battuta non del tutto priva
di senso: mi è venuto in mente che l'Imperatore, quello che aveva la
sua sede nella Hofburg, nel rivolgersi ai suoi sudditi, si dava – se così si può
dire – dell'Io, scrivendo ad essi frasi del tipo, «Invio un saluto ai Miei
diletti sudditi...». Credo che Egli abbia toccato con ciò un vertice altrimenti
inattingibile di maiestatica, anzi imperiale, cerimoniosità. Se mi sono permesso
questo accenno è perché incontrandoti pochi giorni fa (avevamo ai nostri piedi
il castello di Miramare), mi sono reso conto di come tu sia profondamente
pervaso di quello spirito di "triestinità" che è un prezioso retaggio
consegnatovi anche da quell'Imperatore, che forse non fu il peggiore
dei regnanti.
Sì, Miramare, ma poco lontano c'era anche Duino, e c'è il
sentiero Rilke... E di associazione in associazione sono venuto, anzi vengo ora, a quanto tu scrivi a proposito delle
moltitudini di "versificatori" che tappezzano di pagine
stampate il nostro Paese; e mi chiedo
se non sia finalmente il caso che il nostro Parlamento licenzi un decreto legge
che avrebbe, questo sì, tutti i richiesti caratteri di necessità e urgenza; un
decreto che all'art. 1 imponesse a tutti i nostri poeti o sedicenti tali, in
potenza o in atto, di apprendere a memoria ("par coeur", direbbero i francesi),
le Lettere ad un giovane poeta del nostro duinese Raniero Maria. All'art.
2 il dl obbligherebbe chiunque intenda versificare ad uniformarsi fedelmente a
quanto ivi prescritto dal Praghese, pena l'espulsione in caso di inadempienza
dal territorio comunitario o la reclusione per non meno di 18 mesi in un
c.c.m.p.(Campo di concentrazione per mancati poeti.)
Quando incontrai la prima volta
Gabriella Villani, e ne ricevetti un suo libro di poesie, prima di cominciare a
leggerlo le chiesi proprio se avesse letto quelle Lettere,
e
ne ebbi in risposta un sorriso di sfida
e insieme di compatimento, con l'assicurazione che non solo le aveva lette, ma
le aveva anche messe in pratica... Con, quale valore aggiunto, la capacità di
transitare non di rado dalla penna ai pennelli, con risultati la cui eccellenza
tu hai qui sopra descritto come meglio non si potrebbe.
Né io ora mi cimenterò con Te (e qui le
maiuscole mi sono inevitabili) nell'analisi delle Sue poesie, perché sarei in
partenza perdente. Insisterò invece su di un'idea che tu pienamente condividi,
quella della poesia come "lettura", interiore o meno, perché quella interiore
non è meno intensa di quanto si possa raggiungere su di un palco, in una piazza,
o semplicemente da un banco di conferenziere o di professore. Guai a lasciare
che l'occhio scorra di rigo in rigo, senza freni di pause o di soste più o meno
brevi, senza intervalli più o meno lunghi di silenzio. Il silenzio interposto fra l'uno e l'altro verso, o scandito fra una parola
e quella successiva (e in ciò Gabriella è un'autentica maestra), è parte
costitutiva della poesia, e sta al lettore — cioè al "fruitore", al
"consumatore" della poesia — saperlo correttamente dosare, anche perché fra
questo alternarsi di parola e di silenzio sta racchiuso il segreto del ritmo,
senza del quale non esiste poesia, e neppure scrittura artistica.
E con l'invito
a
questo
tipo di lettura che mi piace chiudere,
caro Elvio, questa postilla al tuo saggio sul nuovo libro della nostra poetessa.
Con affettuosa ammirazione
Tuo Oddone Longo
| |
 |
autore |
|