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La lettura di un testo poetico può dare luogo ad un atto d’identificazione, è una rara esperienza quando, scorrendo i versi e le meditazioni di uno scrittore, riconosciamo la purezza di un’idea, mai del tutto abbandonata anche da noi stessi. Si tratta di un processo fecondo che produrrà certamente altra poesia, o altre riflessioni, come una cascata di luce, contagiando positivamente.

La raccolta Radici e rami di Danilo Mandolini appare emblematica da questo punto di vista, avvertiamo, quasi, le parole radicarsi nella nostra interiorità, non per un malinteso sentimentalismo, piuttosto per la ricerca, paziente e puntuale, anche dal punto di vista linguistico, che l’autore ha saputo compiere. Non si trova un termine che non evochi parecchi livelli di significato, il segno di questa poesia è perciò determinato da una singolare tensione stilistica. Essa è causata dall’immaginare, delicatamente, il contatto, profondo e misterioso, con le persone amate, attraverso il loro stesso linguaggio, giunto fino a noi. Con l’aiuto di lettere, diaristica e riflessioni intense è possibile abbattere il muro della morte, sembra affermare il poeta, a tal punto la sua poesia è fedele ancella della memoria da renderci contemporanei al sentimento proiettato sulla pagina.

Studiamo questi versi: “Arrivarono nel buio la mattina | mia madre col fratello dentro un’ombra | a segnare una dimora che si scorda, | che si scorge, si perde e che lascia | la memoria in pegno alla paura | nell’istante trafitto dalla quiete.” Si nota, a prima vista, la scena, avvolta nell’oscurità, dalla quale emergono le figure amate, sono portatrici di mistero, forse di dolore, ma il tono è quieto e la tensione è tutta giocata sul dimenticare e ricordare, trattenere e perdere.

Il verso: “la memoria lasciata in pegno alla paura” esprime bene quello stato d’animo di precarietà esistenziale che in alcune stagioni della vita è compagno assiduo dell’uomo, forse lo aiuta a crescere nella dimensione dell’eterno. Al poeta tutto ciò appare naturale, la quiete è dettata dalla consapevolezza che non possiamo stravolgere disegni superni o imperscrutabili, la sola vittoria è nell’ospitare proprio nel cavo della mano le memorie amate, il Paradiso di Cronin nel romanzo “Le chiavi del regno” era proprio così.

Come ricordare? Forse l’atto avviene rivalutando la vita, le confidenze amorose e la trepidante voce della affettività che, tra mille pudori, ci coinvolge in una catena di sentimenti, dignitosa e inarrestabile, a dispetto dei distacchi più acerbi “Di quel viaggio resta l’alba che saliva, | il silenzio senza pace delle frasi | e la porta della casa che si apre, | che congeda nel rumore ogni parola | e che stringe ciò che vive in una mano.” Non ci sono quindi commenti efficaci, se togliamo la perizia tecnica nel fraseggio del verso, opportunamente musicale, resta il messaggio umanissimo che parla da sé ai lettori, rivalutando i particolari momenti della quotidianità che rischierebbero, in caso contrario, di svanire.

Il linguaggio, estraneo ai vertici incomprensibili dello sperimentalismo, usa una sintassi ed una punteggiatura creative e libere, ma sempre sorvegliate, cadenzate dai ritmi, anche endecasillabici, di alcuni accenti. E’ un dettato poetico che non disdegna la pura rappresentazione del reale, quando esso ha un valore irrinunciabile, né si chiude in un modulo stilistico ripetitivo, al contrario c’è un’istanza di apertura, un’eco di natura cosmica.

Il brivido della finitudine non altera, inoltre, la nostra capacità di amare, non esclude la gioia che gusta le immagini del passato e le avvicina a quelle del futuro nascente. Questa poesia è dunque un ponte fra generazioni, allude, rivela e propone un dialogo, dalle radici ai rami, nel quale le parole sono linfa, balsamo della fatica d’esistere e testimonianza di un’attitudine spirituale che non può morire, si veda questi versi di piena tenerezza “Nella mano destra gli mostrai | l’ultima foto bella di mio figlio.”

Fra le mani avviene un passaggio di sentimenti inespressi, perché elevati, è un contrappeso sereno al dolore dei versi precedenti che evocavano il calvario della malattia grave, ma con sobria profondità di canto.

Un discorso a parte meritano gli inserti, tratti dalle lettere del padre dell’autore. C’è in quelle parole una freschezza d’ispirazione, una forza interiore che sembra smentire il luogo comune che sostiene la non ereditarietà del dono poetico. In conclusione si tratta di un testo che ribalta la strumentale natura, squisitamente letteraria e formale, del genere prosimetro, a parte gli eletti esempi della Vita nova di Dante. Questa di Mandolini è una partitura fitta di richiami all’interiorità, di occasioni per fare, di un monologo, un dialogo con l’oltre.

L’autore ne è ben consapevole quando asserisce di aver “disegnato la struttura” del testo, “pensando proprio ad uno specchio”, ovvero scegliendo di guardarsi nell’atto di protendere i rami della poesia verso l’assoluto.
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