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Prefazione a
Perché la vita sia... e altre poesie
di Giovanni Tavčar
la
Scheda del
libro

Le problematiche dell'essere
in Giovanni Tavčar e Antonio Colinas
Angela Ambrosini
Nella disillusa, perentoria
sentenza “Non serve più, ormai, / la parola” (Il tempo), Giovanni Tavčar
contrappone alla balsamica fiducia nel logos una quasi necessaria afasia
nella constatazione che “il tempo travolge / ogni collaudata misura” (ibidem).
Il rifiuto tenace di mendicare sogni consolatori nell’alveo di una scrittura
compiaciuta distingue il poeta triestino nell’affollato scenario letterario
contemporaneo, spingendolo verso una traiettoria compositiva lucida, scevra da
incrostazioni retoriche e che spesso si fa meditazione quasi discorsiva sul
fugit irreparabile tempus.
Un minuzioso scandaglio
lessicale delle sue liriche (che paiono dipanarsi con la fluidità di un unico
poema coeso), conduce alla registrazione rilevante di lessemi di una stessa area
semantica che esprime frantumazione, assenza, opacità dell’essere: “sbiadite
mezzetinte”, “sfumati grigioscuri”, “fari miseramente spenti”,” derive di luce”,
“ingannevoli baluginii”, “inaridite fonti”, “sterili opacità”, “collosa
poltiglia”, “ambigue e opache misture”, ”eco granulosa del tempo”, “itinerario
sbiadito e sbocconcellato”, “grumose percezioni” ecc… È il tempo il suo rovello
più acuminato, un tempo frantumato e labile, grumoso e opaco, sì, ma mai approdo
inappellabile, mai termine invalicabile. Ecco che quindi la ricerca
dell’assoluto, vera problematica della sua poesia, si snoda attraverso
l’indagine tragica e sofferta del suo opposto, cioè del tempo. È vero,
purtroppo, che “contro l’avanzare del tempo / non abbiamo / nessuna valida difesa” (Nessuna
valida difesa) e che “i contorni sfuggenti della vita / non … permettono di
fissare il perseguito, / di circoscrivere l’attimo fuggente” (Frana rapido
il pendio del giorno), purtuttavia l’uomo, destinato a soccombere in
beffarda sincronia con il tempo, è percepito da Tavčar nell’assolutezza di una
proiezione al di là del tempo stesso, tempo che si fa larvale sembianza di
un’eternità sempre perseguita nell’inesauribile “bisogno di verticalità /….verso
giorni nuovi / pieni di montanti resurrezioni” (da Bisogno di verticalità).
L’apparente cupezza dei toni
si smaterializza quindi in una tersa luminosità, in un’ossimorica ricerca
concettuale che attraverso un gioco di sapienti chiaroscuri va a cauterizzare le
ferite della nostra condizione umana. “Solo chi crede ai racconti / del vento /…/
può misurarsi con i cavalieri / erranti / dell’agognata felicità”. (Solo chi
crede). Coinvolgente e raffinata è l’impalcatura strutturale dei suoi versi,
a volte asciutta, tagliente, a volte elegiaca, ma sempre all’insegna di una
trattenuta emozione di persuasiva autenticità in sintonia con il lettore. Simile
sintonia esprime, nell’ambito di una concezione conoscitiva del verso, l’iter
lirico di uno tra i più affermati e pregnanti poeti spagnoli contemporanei,
Antonio Colinas (La Bañeza, 1946). Al di là del tratto distintivo, squisitamente
iberico, di quel “culturalismo” di parte della sua ricca produzione, ciò che
maggiormente magnetizza di questo poeta spagnolo (valente traduttore di
Quasimodo), è la capacità di saldare indissolubilmente l’esperienza artistica
all’umana condizione, sovente per mezzo di parole chiavi, di parole simbolo. La
luce è termine di alta frequenza nei suoi versi: “…lasciatemi con la luce
bianca / la stessa che avvampa e annienta gli uomini feriti / i tesi giorni, le
idee come coltelli” (Fe de vida, da El libro de la mansedumbre,
1977) e che qui sembra congiungersi alle “derive di luce” che “risucchiano in
vortici / impietosi” il nostro poeta triestino (Stagione occulta) e,
altrove, alla sua meditazione “È tempo ormai / che mi fermi, che metta radici, /
prima che la luce digradi” (Sono stanco ormai).
Il motivo del viaggio, dell’homo
viator, uno dei più vitali in poesia, emerge nei due autori: “Segui il
sentiero delle pietre muschiose / quello che conduce alla grande roccia / alla
radice dell’altare / alla radice eterna/ del tempo /…/ Non potrai andare oltre /
Non devi andare oltre” (Signos en la piedra, da Canciones para una
música silente, 2014), laddove in Tavčar, nella presente silloge, si
esplicita compiutamente fin dal titolo nella lirica Il sentiero della vita:
“Come s’è degradato, / con gli anni, / il sentiero della vita. // Transitarvi / è
un’avventura sempre / più difficile e impegnativa. /…che non sempre porta / a
una meta definitiva e sicura”. Ma è al nucleo tematico del tempo che risulta
maggiormente protesa l’indagine più assorta dei due poeti. “Mi manca il tempo /
per tornare: / o non sarà piuttosto quest’istante tutto il tempo / che
sento scivolarmi fra le dita /come oro liquido? / So di essere io quello che
passa” (Colinas, Llamas en la morada, XVIII, da Canciones…cit.). E
così in Tavčar:
“Il tempo ci insegue /…/ e muta gli attimi in anni /…// La clessidra continua
intanto a sgocciolare / gli ultimi granelli di sabbia inconsistente” (Anime
ferite). Ma, come Mario Luzi, anche i nostri poeti ben sanno che compito
della poesia è “insegnare a far pace con il tempo”.
La traduzione italiana dei versi di Antonio
Colinas è di Angela Ambrosini
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