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Premessa dell'autore a
Ora che è tempo di sosta
la
Scheda del
libro

Il mio
ringraziamento agli artisti
che hanno reso
possibile la realizzazione
di questo ideale
"testo a fronte".
A Elena Ambrosini,
Massimo Dini,
Edi Magi, Enrico
Milanesi, Fabio Sercia.
A mia madre, nel
ricordo più struggente.
Angela Ambrosini
Credo sia d’obbligo una premessa a una raccolta poetica nata, in buona parte,
dall’accostamento a immagini (foto, dipinti e, persino, creazioni in ceramica)
nell’intento di sbriciolare l’apparente asimmetria tra i due codici espressivi,
semantico e asemantico. Un sodalizio, quello tra immagine e parola, al quale
sono stata educata fin dall’infanzia. La corrispondenza sottile che
implicitamente pervadeva sia i quadri che i versi di mia madre, pittrice e
poetessa, ha via via accresciuto la suggestione affabulatoria dell’humus
culturale del quale mi sono alimentata.
Il tempo e gli studi umanistici
intrapresi, unitamente a uno scandaglio inesausto delle potenzialità espressive
della parola, avrebbero fatto il resto. In questi ultimi anni la collaborazione
con artisti nell’ambito dei linguaggi visivi, propiziata dalla realizzazione di reading, mostre ed eventi comuni, ha corroborato il mio impulso a dar “voce”
all’immagine, nell’elusione deliberata di quel descrittivismo meramente
accademico che presiede l’ecfrasi. Di qui che la relazione tra immagine e poesia
non avvenga per sovrapposizione (procedimento sostanzialmente tipico dell’ecfrasi),
bensì per accostamento, in una dialettica articolata che si propone di superare,
quindi, la forma di partenza agganciandosi a una dimensione amplificata nel
sottinteso, nel taciuto, nell’adiacente, in una direzione che vada “oltre la
soglia” tanto dell’immagine che della parola. Una poesia che sia solo figurativa
e riduca il messaggio verbale a una trascrizione puramente descrittiva ed
espositiva non urge né modella il pensiero che la produce.
D’altro canto,
persino un dagherrotipo, pur implacabilmente fermo sulle forme delle apparenze,
può a sorpresa innescare, come sostiene Yves Bonnefoy in Poesia e fotografia,
“una percezione pura del non-essere”, uno stordimento, un senso di alterità e di
altrove nel quale il tessuto dei sensi si sgrana fino all’enigma della soglia. È
in questa ricerca della soglia, dell’intercapedine sottile che separa il
visibile dall’invisibile (e che in arte tutti sappiamo come spesso collimi con
una sorta di allucinazione) che si orienta la mia ricerca linguistica ed
espressiva. Superare il dato visivo, realia, per attingere a una realtà
superiore, realiora. Cristallizzare in una dimensione atemporale quello
che con termine ormai abusato si chiama “l’attimo fuggente”. Dilatare in un
esemplare “fermo immagine” l’adesso nel sempre, cosa che, in ultima analisi, è
il fine dichiarato di ogni manifestazione artistica. A sostanziare tale ricerca
non solo di stile, ma, prioritariamente, di contenuti, è la metafora, la cui
amplificata capienza semantica consente di annullare tutte le dissonanze, tutte
le distanze, operando il salto di qualità in un segmento più esteso della
singola parola, nella direzione sia sintetica che analitica del linguaggio.
L’uomo ha bisogno, per esprimersi compiutamente, di scavalcare la formulazione
stessa dell’enunciato, di andare al di là di esso (cioè meta). E, nella
fattispecie, in questo volume (che per ragioni di spazio contiene solo alcune
delle molte immagini fonte di ispirazione dei componimenti), poesia e immagine
intendono proporsi l’una metafora dell’altra, spostandosi il significato da un
codice all’altro, processo ancor più palese nelle belle videopoesie (per ovvi
motivi purtroppo qui non visibili) realizzate dal fotografo e videomaker Fabio
Sercia su alcuni miei testi.
La poesia, diceva Ezra Pound in una definizione solo in apparenza
lapalissiana, è “semplicemente linguaggio caricato di senso al più alto grado
possibile”. Questo è il titanico obiettivo di colui che scrive e, proprio perché
titanico, va perseguito con umiltà. L’umiltà di sentirsi votati, a volte, anche
alla sconfitta in quel viscerale, mai sopito istinto di custodire la bellezza,
quasi fosse un deposito, un tabernacolo d’eternità.
“La bellezza in realtà non è che la vita fisica in una sua condizione
ideale”, asseriva William Butler Yeats. Non l’ho ancora fatto, ma credo che non
molto diversa sarebbe la loro risposta se chiedessi di indagare il senso della
bellezza agli artisti che mi hanno affiancata in questo percorso tra immagine e
parola.
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