-
La battaglia per il latino e il centro-sinistra
(1961-1962)
A partire dal 1958 iniziò a delinearsi il progetto di
una scuola media uguale per tutti e che prevedesse il
raggiungimento dell’obbligo scolastico a quattordici
anni. Il primo disegno di legge era stato presentato dai
comunisti Ambrogio Donini e Cesare Luporini mentre, tra
le file governative, il ministro Medici si era occupato
della stesura di un altro testo di legge. In questa fase
il latino era il principale tema di discussione poiché,
all’interno della nuova scuola media, rappresentava
contestualmente la difesa della scuola elitaria e la
discriminazione di classe. La fase finale del progetto
di riforma della Scuola Media Unica era iniziata,
invece, con la discussione nelle aule del Senato della
Repubblica. Per comprendere come il latino fosse, in
questo periodo, il denominatore comune di tutti i
dibattiti politici sulla scuola analizzeremo una lettera
inviata a Tristano Codignola in cui affioravano i primi
commenti sulla riforma: ʺUna
coltura generale unica è indispensabile se vogliamo
formare una classe dirigente veramente democratica, la
quale, come dimostrano le esperienze antiche e recenti,
non può fare a meno di una solida preparazione
umanistica. La coltura particolare non può e non deve
essere data dalle scuole medie, ma dalle facoltà
universitarie. I tecnocrati senza coltura umanistica,
incapaci di una visione panoramica della vita, sono un
autentico pericolo pubblicoʺ.
Quest’insegnamento aveva avuto un ruolo decisivo
dal punto di vista politico e culturale come
testimoniava, ad esempio, la presa di posizione
dell’Accademia dei Lincei che, attraverso la Classe di
Scienze morali, storiche e filologiche, sottolineava
l’importanza di aumentare l’uguaglianza e la giustizia
sociale tra gli studenti. Tuttavia,
ʺnon [era]
umanamente possibile livellare la cultura e lo spirito,
d’altra parte abolire, o soltanto, indebolire lo studio
del latino nella scuola media avrebbe significato
rinunciare ad uno strumento insostituibile di formazione
intellettuale negli anni decisivi della scuola e
abbassare il tono degli studi liceali e universitariʺ.
Il latino doveva essere considerato come un
insegnamento necessario per il raggiungimento della
consapevolezza del proprio ruolo all’interno delle
strutture sociali. In una lettera indirizzata da un
docente di scuola media a Codignola il tema del latino
veniva approfondito evidenziando come nel ʺcriterio
selezionante, di fatto si [riconoscevano] come capaci i
figli di una determinata classe, come incapaci gli
altri; di fatto si afferma[va] che il liceo-ginnasio è
la scuola dei capaci, gli altri istituti degli
incapaciʺ.
La questione del latino faceva quindi parte di un
discorso più ampio sulla formazione degli alunni che
dovevano poter scegliere alcune materie. L’interlocutore
di Codignola non era d’accordo:
ʺLa questione del
latino o sarà risolta con un accordo con la D.C. o con
uno scontro. […] Un anno di latino non servirà
assolutamente a nulla se non a far perdere tempo a
coloro che lo studieranno […]. Due anni sono necessari
per arrivare a un qualche risultato nello studio del
latinoʺ.
Dunque, non bisognava dare per scontato che i
figli dei ceti meno abbienti non volessero imparare il
latino, poiché avevano una maggiore ambizione di ascesa
sociale. Il deputato Menghi, nella seduta parlamentare
al Senato del 18 settembre 1962, si scagliava contro i
comunisti: ʺChi
avversa il latino? Le sinistre per ragioni politiche e
certamente coloro che non lo hanno mai studiato o non
sono mai arrivati a penetrarne lo spirito dopo un
superficiale studio grammaticaleʺ. Il tema del latino,
oltre a essere rilevante dal punto di vista didattico,
sociale e culturale, mostrava dunque una forte
connotazione politica. A questo proposito il ministro
della P.I. Gui aveva presentato una serie di emendamenti
al disegno di legge Bosco sull’istituzione della scuola
obbligatoria dagli undici ai quattordici anni, già
approvata dalla Commissione P.I. del Senato. Mentre
erano ancora in corso tentativi di compromesso tra la DC
e l’area laica di sinistra, il direttivo DC del Senato
prima e dalla maggioranza della Commissione P.I. poi,
avevano approvato alcuni emendamenti presentati dal
ministro Gui. Questi emendamenti avevano aperto lo
scontro con Codignola il quale non aveva accettato la
decisione di Gui di riproporre una scuola come era stata
progettata dall’ex ministro Medici. (Guerraggio, 2013) I
dorotei volevano cercare nel latino un pretesto per
silurare il centro-sinistra. Probabilmente cercavano di
ricattare i socialisti per piegarli ad accettare il
compromesso. Sul latino gli scenari di collaborazione
sfociarono in un accordo tra DC e PSI. Questa
impostazione governativa, che influì certamente anche
sul latino, era stata spiegata dal senatore comunista De
Simone: ″Dicevo
dunque che le forze che, in seno al Governo di
centro-sinistra hanno imposto il nuovo indirizzo nella
scuola media obbligatoria sono, non c’è dubbio, le forze
conservatrici, le forze che ispirano alle gerarchie
vaticane, le forze che vogliono mantenere con il latino
e attraverso il latino la scuola media strutturata sul
privilegio di classe e sulla discriminazioneʺ. Gli studi
e gli approfondimenti di Casalegno (1962: citato in
Degli’Innocenti 2004 cur. 182-184) hanno confermato
questa tesi inserendosi in un contesto di ampia
divulgazione sia pubblica che scientifica.
Le discussioni al Senato e l’intervento del ministro Gui
– evidenziati dagli studi recenti di Gabusi (2010) –
erano proseguiti insieme all’iter della riforma sino al
26 settembre 1962. In questa data si era giunti alla
prima approvazione da parte dell’Assemblea e, in
seguito, il progetto di legge era passato all’esame
della Camera dei Deputati. In una lettera inviata da
Tristano Codignola ad Aldo Moro, il deputato socialista
aveva espresso il proprio disappunto per un incontro
avvenuto tra cinque personalità (il cosiddetto ʺConvegno
dei Cinqueʺ) all’interno del quale si proponeva un
accordo sul latino e a cui i socialisti non avevano
preso parte: ʺNon faccio, ovviamente, alcuna questione
di prestigio, né del partito né mio. Ma è sembrato a
tutti incomprensibile che non fosse rappresentato
proprio quel partito che aveva maggiormente sostenuto il
confronto con la D.C. e che aveva rappresentato
l’elemento decisivo per il raggiungimento dell’accordoʺ.
Una lettera di Alfredo Sisca (docente di liceo a
Napoli) esprimeva il sostegno per le proposte di
compromesso tra il PSI e la DC. Codignola ribadiva la
riuscita degli accordi a Sisca: ʺSi è potuto ottenere di
evitare la soluzione del latino per tutti in seconda,
riducendone lo studio soltanto nei limiti di un
approfondimento della lingua italiana, per tuttiʺ.
La replica del professore napoletano sottolineava
quanto il problema del latino fosse marginale rispetto
alla richiesta di aule e di una maggiore cura
dell’edilizia scolastica. Da segnalare, nel passaggio
dello studio della legge dal Senato alla Camera, è la
relazione di Francesco Francescaglia. In questo
documento intitolato ″Il Latino nella scuola
dell’obbligoʺ , era stato presentato il pensiero
del personale docente in merito all’insegnamento del
latino all’interno della nuova scuola media. Aver
lasciato il latino facoltativo nella seconda e terza
classe, sebbene non riscontrasse il favore della
maggioranza degli ambienti culturali e politici
rappresentava un vero e proprio compromesso.
Emblematiche, in tal senso, erano le parole di
Francescaglia: ʺA
mio giudizio, nel compromesso non ci sono né sconfitte,
né vittorie; c’è solo un’affermazione di buon sensoʺ.
Egli era convinto che per giudicare bisognava
mettere alla prova tutti gli attori scolastici, dagli
insegnanti agli alunni sino alle famiglie. La
trasmissione della legge alla Camera era stata preceduta
dalla redazione di alcune relazioni presentate dalla
VIII Commissione Istruzione e Belle Arti della Camera
dei Deputati. Tra queste, la relazione di Scaglia si
focalizzava su diverse questioni: la capacità formativa
del latino per un miglior apprendimento dell’italiano;
l’opportunità di un latino non discriminante e formativo
per ogni alunno che proveniva da qualsiasi classe
sociale; la necessità che il latino costituisse un mezzo
per il miglioramento non solo didattico dell’allievo, ma
anche per un accrescimento morale ed educativo. Nel
testo di maggioranza Scaglia si esprimeva in questi
termini: ʺÈ, con poche differenze, il latino come è già
configurato nei vigenti programmi della scuola media, ma
con una particolare considerazione per coloro che tale
studio non continueranno, ai quali non si vuole imporre
uno sforzo inutile, ma, con un preciso obbiettivo
pedagogico-sociale, si vuol fornire un elemento di
esperienza che, senza pesare come materia autonoma,
consenta loro di decidere con una qualche cognizione di
causa se tale studio intendano o no continuareʺ. La DC
aveva deciso di avvicinarsi anche a coloro i quali non
avevano capacità tali da poter intraprendere una
carriera scolastica che comprendesse lo studio del
latino. Tuttavia, la nuova struttura scolastica
permetteva agli alunni di avvicinarsi alla disciplina
con un occhio meno disinteressato. In questo senso
l’offensiva delle forze di sinistra si era dimostrata
vincente anche se, solo grazie ai socialisti, si era
riusciti a operare un incontro tra le posizioni più
radicali e quelle più disposte a dialogare. Questo aveva
provocato, all’interno di alcuni partiti, un
avvicinamento nei confronti del progetto di legge Donini,
ma solo col fine di ribadire l’esigenza educativa di un
insegnamento considerato essenziale per la crescita
culturale della nazione. All’interno della relazione del
deputato liberale Badini Confalonieri questo aspetto
veniva affrontato attraverso due tesi; una definita
monistica e l’altra pluralistica: secondo la prima tesi,
la nuova scuola 11-14 anni doveva garantire la piena
valorizzazione dei giovani, indipendentemente dalle loro
condizioni economiche. La tesi pluralistica prevedeva,
invece, una valorizzazione caratteriale e didattica non
tanto orientando, quanto soprattutto formando i giovani
nell’intelletto, nello spirito, nel carattere. Nella
seconda relazione di minoranza, presentata dagli on.
Nicosia e Grilli, appartenenti al gruppo parlamentare
missino, si sosteneva che il latino non doveva avere una
portata discriminatoria nei confronti delle classi
sociali meno abbienti ma, al contrario, aveva una carica
formatrice di notevole importanza. I due deputati,
inoltre, non concepivano che gli altri partiti
deplorassero lo studio del latino: potevano comprendere
la posizione antica dei comunisti, ma non dei
democristiani troppo accomodanti nei confronti delle
forze di sinistra. Credevano, inoltre, che la scuola
dovesse fornire le capacità di raggiungere i confini
della vera cultura, così da consentire ai giovani di
ampliare il proprio bagaglio culturale.
Il 13 dicembre del 1962, in seguito alla distribuzione
in aula delle tre relazioni, iniziava il dibattito e
nelle sedute di discussione alla Camera i temi che
riguardavano il latino non erano mutati. La necessità
del latino, secondo il parere della DC, seppur
ampiamente ridotto e reso facoltativo nella classe
terza, era fondamentale poiché quanto all’astrattezza,
alla difficoltà e all’esigenza di sforzo mnemonico, il
latino non era più complesso di altre materie. Nei
giorni successivi, la discussione si focalizzò
ampiamente sul latino terminando il 21 dicembre con la
sua definitiva approvazione. Secondo il deputato
Sciorilli Borrelli,ʺil latino resta[va] dunque la linea
discriminante tra i futuri membri della classe dirigente
e i destinati ai mestieri tecnici: resta[va] tale nel
complesso della scuola media, resta[va] nella scuola
dell’obbligoʺ. Tristano Codignola non si era espresso a
favore o contro l’insegnamento del latino. Egli
considerava necessaria la possibilità di scegliere tra
lo stesso e un’altra materia e, a suo parere, la classe
politica commetteva l’errore di non reputare un giovane
di quell’età in grado di operare una scelta autonoma. Si
ritornava a una soluzione socialmente molto pericolosa,
perciò i socialisti avevano proposto al Senato una serie
di emendamenti che abolivano il latino e prefiguravano
l’insegnamento della matematica, delle scienze fisiche e
naturali e delle loro applicazioni, una attività
artistica, ma proponevano di portare gli insegnamenti
artistici e quelli tecnici al di fuori dell’orario
mattutino.
Nelle successive sedute, mattutina e pomeridiana, del 21
dicembre, in seguito alle dichiarazioni di voto, la
legge veniva approvata dalla Camera dei Deputati. In
conclusione, dobbiamo rilevare l’importanza del latino
nelle discussioni sia politiche che culturali. Un
cambiamento era necessario al fine di un adeguamento
alla nuova società industriale, inoltre, ci si avviava
verso quei meccanismi che avrebbero reso la cultura
umanistica un aspetto propositivo, ma non necessario,
della vita scolastica degli alunni. In un lungo e
travagliato dibattito questi temi ricorrono ancora oggi
e ci fanno interrogare fortemente sul rapporto che
dovrebbe intercorrere tra la “tecnicaʺ e la “cultura
umanisticaʺ.
2. Analisi dei periodici
2.1 I quotidiani
Il latino ha rappresentato un momento di cesura tra la
concezione di una scuola elitaria e quella di una scuola
di massa.
Gli organi di stampa affrontavano queste difficili
problematiche cercando di avvicinare la popolazione agli
avvenimenti, per coinvolgerla e renderla consapevole. In
alcuni casi ci si dimenticava che il tasso di
analfabetismo italiano fosse tale da non favorire una
elevata divulgazione di questo tema politico e sociale.
(Demetrio 1977)
In seguito all’approvazione in Commissione al Senato
della legge sulla scuola media unica, il 2 settembre del
1962 l’organo torinese ʺLa Stampaʺ riportava alcuni
passi della relazione Moneti – sottolineata nel testo di
Serenella Macchietti (1986) – in cui si considerava il
tema del latino come uno snodo fondamentale. Il medesimo
giorno ʺL’Unitàʺ pubblicava un articolo nel quale
approfondiva il tema che stava per andare in discussione
al Senato: ʺLa permanenza del latino fra le materie
d’insegnamento costituisce, per esempio, un elemento
molto grave, in quanto lascia in piedi una
discriminazione oggettiva nei confronti degli alunni
provenienti da famiglie operaie e contadine.ʺ(1962) Un
commento che potremmo giudicare anacronistico in quanto
le classi sociali più dedite al mondo agricolo avevano
sì bisogno di manovalanza, ma allo stesso tempo il
decollo industriale stava modificando i rapporti di
forza tra la domanda e l’offerta. Il Partito
Repubblicano si esprimeva sulle pagine di ʺL’Avantiʺ
cercando di cogliere i nodi problematici di questo tema:
ʺPotendosi seriamente studiare il latino nei cinque anni
di scuola media superiore, tenuto conto della
maturazione dell’età, non era necessario imporre lo
studio nella media inferiore obbligatoria, oppure porlo
come facoltativo con conseguenze limitatrici della
futura libertà di scelta professionale. Le opposte
ragioni […] hanno immeritatamente mobilitato alcuni
settori scolastici i quali vedono nel rinvio della data
di inizio di studio del latino una specie di affronto
alla classicitàʺ. La voce dei repubblicani rappresentava
una valida posizione per la salvaguardia, l’applicazione
e il rispetto della Carta Costituzionale ottenuta con
sacrificio dopo la Seconda Guerra Mondiale. Alle
posizioni molto dure nei confronti del latino si
accodava anche il PSI il cui punto di vista era il
risultato di una mirata strategia politica. ʺL’Avantiʺ
aveva iniziato un’analisi del dibattito sul latino
attraverso la pubblicazione di un’inchiesta in cui
venivano riportate le opinioni dei cittadini. Il caso di
un minatore italiano emigrato negli Stati Uniti e
tornato in Italia all’età di sessantacinque anni era un
esempio di come la popolazione italiana vedeva lo studio
del latino: ʺIl fatto che il minatore abbia preteso dai
suoi figli lo studio del latino – denota a parere nostro
– un’aspirazione di rivalsa sociale. È facile indovinare
in essa l’antica matrice fatta di umiliazioni che
giovanetto provò prima di imbarcarsi per l’America di
fronte ai notabili del suo paesino che sapevano il
latinoʺ. (Riga cur., 7).
La professoressa Gazzi esprimeva una posizione di
compromesso attraverso la possibilità di istituire due
scuole, una con e l’altra senza il latino, in modo da
tutelare da un lato coloro i quali volevano affacciarsi
il prima possibile nel mondo del lavoro e, allo stesso
tempo, salvaguardare chi volesse proseguire gli studi.
Oltre ai docenti, anche il clero si mostrava interessato
al dibattito: all’interno di quest’inchiesta trovava
spazio l’idea che il latino non dovesse essere una
materia obbligatoria. L’inchiesta proseguiva con
l’intervista a un operaio e a uno studente di quindici
anni: il primo, sosteneva significativamente, in accordo
con gli emendamenti Bosco, la maggiore rilevanza da
assegnare allo studio delle lingue; mentre il secondo
considerava il latino come una vera e propria perdita di
tempo. In un articolo pubblicato da Panfilo Gentile,
noto liberale, si descriveva il rapporto che si era
creato tra il latino e la politica evidenziando uno
scontro con il pensiero dei socialisti: ʺSopprimendosi
il latino nella scuola dell’obbligo la discriminazione
classista non [era] affatto soppressa, ma soltanto
prorogata.ʺ (1962, 7). La difesa della humanitas
da parte degli ambienti liberali era da associare anche
a una vicinanza al mondo cattolico, ma non era da
sottovalutare la difesa della cultura classica come
strumento per il consolidamento dell’ appartenenza
culturale. In Commissione Istruzione e Belle Arti non si
era riusciti ancora a trovare una soluzione per
l’approvazione di tutti gli articoli. Le posizioni erano
notevolmente differenti anche se non sempre
l’appartenenza politica risultava determinante per la
posizione presa dai singoli senatori. Il latino si
rivelava la discussione più viva e, la numerosa
pubblicazione di articoli all’interno delle maggiori
testate giornalistiche, ne dimostrava l’alto significato
politico e sociale. Carlo Casalegno approfondiva il tema
in un articolo pubblicato su ʺLa Stampaʺ il 20 settembre
1962. nel quale l’autore spiegava quanto fosse
necessario distaccarsi dalle motivazioni politiche per
giungere alla migliore delle soluzioni possibili senza
incorrere in un danno didattico nei confronti delle
generazioni che avrebbero frequentato la nuova scuola
media. Nelle classi in esperimento, il latino era stato
proposto come materia facoltativa, ma secondo Casalegno
quest’operazione posticipava solamente il problema.
Inoltre, egli considerava la predisposizione allo studio
del latino come una conditio sine qua non senza
la quale non era possibile avvicinarsi allo studio di
tale disciplina. Dal punto di vista politico la DC non
voleva cedere alla possibilità di attenuare le proprie
idee nei confronti delle forze laiche di sinistra, ma
questo era stato solo il primo degli atteggiamenti che
presero i vertici del partito democristiano. In seguito,
infatti, si sarebbero maggiormente aperti a un confronto
sia dal punto di vista politico che culturale.
ʺL’Unitàʺ rimproverava queste posizioni ai vertici
governativi sostenendo che, all’interno della VI
Commissione, le riflessioni delle altre forze politiche
non erano state considerate. Il PCI era schierato contro
il latino e ciò si era palesato chiaramente in
un’intervista di Luporini nella quale egli aveva
dichiarato: ʺÈ evidente, mi pare, che l’introduzione del
latino per tutti al terzo anno deformerebbe enormemente
questo problema, creando un vero pasticcio pedagogicoʺ.
(1962, 2) Il voto contrario al Senato evidenziava quale
che i comunisti erano mal disposti a trattare; ciò
derivava anche dalla distanza nei confronti dei
socialisti che si erano accordati con i democristiani. I
socialisti stavano accettando a malincuore la presenza
del latino, ma avevano compreso che per l’approvazione
della legge era determinante una trattativa con la
maggioranza di governo. L’appoggio esterno del PSI si
rivelava decisivo per il raggiungimento di questi
obiettivi che assicuravano il buon esito delle
discussioni della legge al Senato. Mentre il governo
ribadiva la proposta di un latino obbligatorio nella
seconda classe e opzionale nella terza, ʺL’Unitàʺ
proseguiva nella sua requisitoria contro il latino
giudicando le posizioni dei liberali una
ʺcontraffazioneʺ delle reali possibilità che la nuova
scuola doveva offrire; anzi i liberali avevano
considerato gli emendamenti Gui troppo morbidi: il
latino andava incrementato. Alle considerazioni dei
partiti si aggiungeva quella dell’ADESSPI la quale
sottolineava la natura discriminante del latino e
chiedeva di riconsiderare completamente gli emendamenti
presentati dal ministro Gui per scongiurare il pericolo
di un trattamento uguale per tutti dal punto di vista
didattico.
Questo riscontro lo possiamo trovare nell’articolo del
26 settembre 1962, firmato da Fausto De Luca,
all’interno del quale si descriveva la definitiva presa
di posizione del ministro Gui sul tema del latino nel
quale si confermava l’accordo tra le parti. Sulle
posizioni del ministro si esprimeva il quotidiano più
legato alla DC, ʺIl Popoloʺ: ʺIn conclusione
l’emendamento DC-PSI, sempre in materia di insegnamento
del latino attenua in parte la chiarezza della posizione
assunta dal governo con le sue modifiche al testo
originario del disegno di legge, ma allarga la sfera di
conoscenza del latino stesso a tutti gli allieviʺ.
(1962, 1) Queste posizioni erano figlie di un’ingerenza
da parte della Curia attraverso la quale si tentava di
mantenere vivo il latino nella scuola media. A tal
proposito in un articolo del 24 febbraio 1962 comparso
sul medesimo quotidiano la Chiesa Cattolica si schierava
apertamente in favore del latino facendone uno dei
valori portanti della propria dottrina; fu proprio papa
Giovanni XXIII a rafforzare la sua importanza: ʺNon v’è
alcuno che possa mettere in dubbio l’efficacia tutta
speciale che ha la lingua latinaʺ. (1962, 2)
Dunque la chiave per il miglioramento della società era
riposta nella fede e nell’approfondimento culturale
della classicità contestualizzata in chiave moderna.
Proprio per questo il Papa criticava il progresso
scientifico in questi termini: ʺPurtroppo vi sono molti
che, stranamente abbagliati dal meraviglioso progresso
delle scienze, pretendono di rigettare o ridurre lo
studio del latino e altre discipline similiʺ. (1962, 2)
Dopo l’approvazione in Senato il disegno di legge
passava in Commissione alla Camera dove Lucio Lombardo
Radice esprimeva il risentimento verso un insegnamento
che limitava la possibilità di una maggiore apertura nei
confronti di un tipo di scuola tesa al miglioramento
culturale da un lato, ma anche all’approfondimento
scientifico dall’altro. Il PSI, nella figura di Nenni,
presentava una relazione nella quale erano evidenziate
le posizioni dei socialisti: ʺSi è lasciato interamente
nell’ombra il dato essenziale, sul quale il Partito deve
insistere nella sua opera di chiarificazione che la
nuova scuola è obbligatoria per tutti e che quindi
sarebbe stato un assurdo politico e didattico imporre lo
studio del latino soltanto per tre classi ad una
popolazione scolastica, gran parte della quale non
seguirà altri studi o seguirà studi di ordine tecnico o
professionaleʺ. (1962, 8)
ʺLa Stampaʺ riaffermava l’antico concetto secondo il
quale era falso sostenere che nei periodi storici
maggiormente fiorenti a livello culturale non ci fosse
mai stato uno sviluppo scientifico, anzi questo sarebbe
stato notevolmente incentivato per il miglioramento
delle condizioni socio-economiche. A questo proposito è
da segnalare un saggio dal titolo “I filosofi e le
macchine” che Serini, l’autore stesso, commentava
così: ʺEgli vi mostra come non solo negli scritti degli
artisti e degli sperimentatori del Quattrocento e poi
nei “libri di macchine” e nei trattati degli ingegneri
del Cinquecento, si sia fatta strada una nuova
considerazione altamente positiva, del sapere
tecnico-artigianale e dei suoi interessi ai fini del
progresso delle scienzeʺ. (Serini 1962, 9)
Una dura requisitoria in merito all’impostazione e al
ruolo che veniva attribuito al latino fu quella avviata
dalla destra più o meno radicale che faceva capo al MSI
e al PLI.
In un articolo pubblicato su ʺL’Unitàʺ si evidenziavano
le richieste ampiamente conservatrici di un mondo che
non aveva accettato il cambiamento socio-culturale
oramai sotto gli occhi di tutti. (Lombardo Radice 1962,
5) La battaglia dei comunisti proseguiva, piuttosto che
sul latino, sugli studi classici andando ben oltre la
considerazione di questa materia come veicolo culturale.
Fu Alessandro Natta, attraverso ʺL’Unitàʺ, a esprimere
queste considerazioni proprio nei giorni finali del
dibattito generale della scuola media unica (1962, 2).
ʺLa Stampaʺ riportava le considerazioni di Codignola, il
quale sosteneva che il latino era frutto di un
compromesso politico che aveva eliminato la funzione
discriminante di quest’insegnamento. A questa
impostazione di tipo politico si contrapponeva il
ministro Gui che sulle pagine de ʺIl Popoloʺ dichiarava:
ʺNon può non essere la politica quella che indica le
grandi linee maestre dello sviluppo sociale, poiché è
essa che esprime la vera e propria coscienza del paese,
anche se devono poi essere gli esperti ed i tecnici a
dare forza applicativa, ordine e rigore tecnico alla
soluzione presceltaʺ. (1962, 6)
2.2 Le riviste
Le riviste scientifiche che andremo ad analizzare
avevano probabilmente un pubblico diverso rispetto agli
organi di stampa. ʺLa Civiltà Cattolicaʺ non si
distaccava dalle opinioni che già erano apparse su
numerosi quotidiani. Il pensiero cattolico considerava
il latino come un’arma culturale che doveva disarcionare
la cultura positivista. La rivista si situava in una
posizione di difesa della classicità secondo la quale lo
studio del latino non era possibile se non in una forma
assai elementare. Era necessario: ʺCreare da una parte
una scuola media aperta a tutti, anche a coloro che, per
la presenza d’una materia così impegnativa com’è il
latino, sia garanzia di un buon livello culturale e
permetta a coloro che continueranno gli studi,
soprattutto quelli classici, di non perdere del tempo
prezioso per l’apprendimento.ʺ(1962, 191)
I socialisti, pur vedendo nel latino uno scoglio
all’instaurazione dell’umanesimo marxista, comprendevano
che fosse necessario un accordo per tutelare gli
interessi politici e per rassicurare il mondo
scolastico. ʺLa Civiltà Cattolicaʺ credeva ʺin una
scuola unitaria [in cui] non [era] possibile insegnare
il latino a tutti se non in una forma assai elementareʺ.
(1962, 191) In queste parole era espresso tutto il
pensiero cattolico che riguardava l’insegnamento del
latino: o lo si insegnava in maniera approfondita oppure
uno studio di carattere elementare sarebbe servito a
poco. Attorno a esso ruotava un’altra questione: la
consapevolezza della necessità di ʺcreare da una parte
una scuola media aperta a tutti, […]; dall’altra, creare
una scuola che, per la presenza d’una materia così
impegnativa com’è il latino, sia garanzia di un buon
livello culturale.ʺ(1962, 191)
Pur constatando che il latino veniva conservato
all’interno della scuola media, allo stesso tempo non
godeva di piena considerazione all’interno della
programmazione didattica da poco approvata. La soluzione
era quella di garantire il latino obbligatorio per tutti
in prima e seconda media. Lo stesso tema, trattato dal
periodico comunista ʺRiforma della Scuolaʺ, assumeva
toni completamente differenti. Il compromesso veniva
inquadrato in un’ottica di accerchiamento per cui il PCI
veniva raggirato per rafforzare il governo di
centro-sinistra e far crollare l’opposizione. Tuttavia,
il cuore del problema si estendeva nella costituzione di
una scuola di massa rispetto a una d’élite ormai stantia
e discriminante. ʺIl centro è stato invece ciò che il
latino presuppone e sottintende particolarmente nella
storia della scuola italiana; un asse educativo
retorico-umanistico, collegato ad una concezione
dell’uomo e ad una visione del mondo, che ha sempre di
più perduto i tratti della tradizione classica e
rinascimentale, per assumere quelli della scuola
gesuitica.ʺ (Ledda 1962, 1)
Questo passaggio veniva spiegato dalle valutazioni di
Romano Ledda (1962), per il quale ormai il latino era
divenuto il mezzo di divulgazione religiosa dei gesuiti
e, per estensione, della stessa Chiesa cattolica. Questo
aspetto annullava peraltro l’asse culturale proprio del
Rinascimento che consegnava oltre a un accrescimento
culturale dal punto di vista umanistico anche dal punto
di vista scientifico e tecnologico. I socialisti erano
molto vicini al pensiero dei comunisti che vedevano nel
latino un insegnamento discriminante per le classi
sociali meno avvezze all’accrescimento culturale, ma
dedite al mondo contadino e operaio.
Limitare l’insegnamento del latino ai corsi liceali
rimaneva, dunque, la sola decisione di massima suggerita
dal buon senso, né più né meno che cent’anni prima,
quando il filosofo pedagogista Giovanni Maria Bertini
notava che ʺquel lungo studio del latino è quasi affatto
infruttuosoʺ (Visalberghi 1962, 121) e patrocinava una
scuola secondaria unica senza latino.
Queste valutazioni di Aldo Visalberghi (1962) venivano
riconsiderate da Aldo Capitini, il quale scrivendo una
lettera alla rivista ʺScuola e Cittàʺ faceva notare come
sul latino si poteva giungere a un accordo, ma che
anch’egli lo reputava adatto a un impiego nella scuola
superiore piuttosto che nella scuola dell’obbligo. Aldo
Capitini spiegava il suo diniego per la scelta del
latino nella media considerando che ʺi vantaggi di
questa soluzione [toglievano] quel predominio del latino
in età precoce, quando non se ne capisce il valore, e si
resta perciò delusi, si diventa svogliati e
indisciplinati, nel momento nel quale si possono fare
altre cose che interessano molto di più gli scolari in
quell’età difficile.ʺ(1962, 258) La conferma della
posizione dei socialisti per ciò che riguardava il
latino veniva ampiamente certificata da Codignola il
quale aveva dichiarato che ʺcontrariamente a quanto
molti pensano, unicità della scuola dell’obbligo non
deve affatto significare appiattimento e livellamento:
ma questo risultato non si raggiunge certo mediante il
latino, che a quella età e nella nostra società, non
rappresenta altro che un elemento obiettivo di
discriminazioneʺ. (1962, 377) Quindi se da un lato
possiamo affermare che il gap culturale si
avviava verso una lenta diminuzione, dall’altra non
possiamo non considerare il latino come chiave di
lettura del compromesso che aveva consentito
l’approvazione della legge alla Camera. Nel numero di
novembre di ʺRiforma della Scuolaʺ si mettevano in
risalto gli aspetti che avevano permesso il passaggio da
un latino disinteressato dei programmi Bosco, a uno
molto più ingombrante negli emendamenti Gui. Il
compromesso aveva portato alla obbligatorietà per tutti
di almeno un anno di latino ammettendo in questo modo
l’accusa della presenza di toni discriminanti
all’interno della legge che veniva definita da i
comunisti un ʺpasticciaccioʺ che non risolveva alcun
problema nella scuola.
Ciò che i comunisti proponevano era una ipostatizzazione
del problema: non bisognava realizzare una scuola al cui
interno ci fosse il latino, ma al contrario andava
proposto un ordinamento scolastico più moderno e solo in
un secondo momento si doveva valutare la possibilità
dell’inserimento del latino in questo nuovo schema.
(Zappa 1962, 1-2)
Una presa di coscienza sulla nuova scuola media si era
avuta con le sperimentazioni volute dal ministro Bosco
di cui abbiamo un ampia testimonianza in “Scuola e
Cittàʺ attraverso la pubblicazione delle esperienze di
coloro che avevano avuto la possibilità di analizzare i
nuovi meccanismi della media unica.
Giuseppa Vantaggiato Sabato sosteneva che dovevano
essere gli insegnanti a ʺfare la scuolaʺ e che era
necessario un interessamento e ampliamento della
formazione di questi ultimi per un miglioramento
complessivo della vita scolastica. Sul latino, la
preside esprimeva un parere mediano sostenendo la
necessità di avere due sezioni, una con e una senza il
latino così da garantire agli alunni la possibilità di
seguire le proprie inclinazioni culturali. Risultava
invece netta la posizione di Agata Torres Consoli,
ordinaria di filosofia e pedagogia presso l’Istituto
magistrale statale “Gaetana Agnesiʺ di Milano, che
sosteneva: ʺA mio avviso, la scuola unica ai quattordici
anni dovrebbe essere basata sulla cultura generale,
rimandando le scelte al compimento di questo primo ciclo
di studi.[…] Il latino, sia pure come materia opzionale,
introdurrebbe un elemento di divisione nella scuola
unica, che non sarebbe più unica e tenderebbe a
perpetuare una discriminazione di carattere sociale di
partenzaʺ. (1962, 218) Le perplessità in merito
all’unicità della scuola con opzioni era penetrata anche
all’interno del contesto culturale e pedagogico. Il
dibattito era molto attivo e coinvolse numerosi docenti
di magistero. A questo proposito, Roberto Berardi,
espose il suo punto di vista fotografando una situazione
scolastica arretrata bisognosa di un miglioramento delle
sue strutture e dei suoi insegnamenti. Dal punto di
visto sociale ed economico egli considerava
significativo lo studio delle lingue straniere poiché
l’Europa si stava preparando a dei mutamenti sostanziali
sia dal punto di vista economico che sociale. A questo
proposito la risoluzione di Amburgo, che concluse il
Convegno dei Ministri della P.I. del Consiglio d’Europa
(12-14 Aprile 1961) e che ʺimpegnava i governi a
diffondere l’insegnamento delle lingue straniere già al
livello della scuola elementare, non aveva avuto finora
seguito da noi, per cause di forza maggiore su cui è
superfluo soffermarci.ʺ(Berardi 1962, 275)
Probabilmente l’analisi risultava eccessivamente
futuristica, ma voleva gettare delle basi solide per il
futuro dei ragazzi italiani anche in chiave lavorativa.
A queste idee nettamente progressiste si opponevano idee
conservatrici, come quelle espresse da Emilio Brigato il
quale sosteneva che la scuola media doveva essere
strutturata in tre rami: classico, tecnico e
professionale.
Tuttavia i docenti dimostravano una professionalità
notevole nel non inserirsi direttamente all’interno di
un contesto politico sugli accordi che si stavano per
prendere tra la DC e il PSI, ma analizzavano i dati
della riforma per esporne pregi e difetti che non
fossero figli dell’uno o dell’altro colore politico. Il
lavoro che fece “Riforma della Scuolaʺ per ciò che
riguardava i risultati delle sperimentazioni della
scuola media è molto interessante, in quanto,
analizzando la prima classe, si potevano effettivamente
trovare i primi spunti per comprendere in che modo fosse
stata recepita la riforma. Analizziamo l’esperienza
diretta di una docente intervistata dalla rivista
sopracitata: ʺLa preparazione di base dei ventisei
alunni iscritti nella mia classe si è dimostrata
insufficientissima, sia in riguardo alla ortografia, sia
alla grammatica italiana. […] Si deve però riconoscere
che molti degli iscritti presentavano dei difetti
caratteriologici che li rendevano alunni particolarmente
difficili e, in qualche caso, addirittura
irrecuperabili.ʺ (Giudice 1962, 121)
Come sempre si dimostrava necessario discernere i
problemi astratti da quelli reali: dal punto di vista
politico si dibatteva sull’importanza o meno del latino,
la battaglia del centro-sinistra, i risvolti economici,
nel quotidiano invece, emergevano dei problemi reali sui
quali ancora non c’erano state delle risposte concrete e
che neppure questa riforma poteva risolvere nel breve
termine.
Tali caratteri ʺastrattiʺ della riforma si scontravano
con una situazione totalmente differente da come la si
poteva immaginare. Raffaele Laporta sosteneva
l’importanza di uno studio sociologico alla base di ogni
tipo di riforma al fine di garantire la dovuta
integrazione tra classi sociali situate agli antipodi.
La critica muoveva verso una marcata passività del mondo
della scuola che non sapeva accogliere gli input della
politica e delle stesse associazioni scolastiche. Gli
studi di Sani a tal proposito (1987, 103), avvalorano la
soluzione prospettata da Laporta ossia che “lʼinsegnante
che considera ferma la scienza e la pratica
dell’insegnamento, o ignora addirittura che la pratica
possa esser svolta su un piano scientifico, è il nostro
insegnante-tipo.ʺ(1962, 400) Laporta evidenziava
chiaramente la forbice che si era creata tra mondo
politico e mondo educativo che aveva comportato che ″le
masse inconsapevoli hanno potuto esser considerate
ancora come la base-voto elettiva di forze politiche che
non condividevano né i principi né le esigenze di una
riforma. Lo stesso partito di maggioranza ha dovuto
parzialmente cedere a queste forze, ossia in ultima
analisi al voto inconscio di masse culturalmente
autolesioniste.ʺ (Laporta 1962, 400) Il PCI, nelle
pagine di “Riforma della Scuolaʺ si mostrava attento a
non creare dei toni accessi pur ammettendo che il
compromesso non raggiungeva gli esiti sperati e che i
socialisti si erano illusi di aver ottenuto qualcosa di
concreto dall’accordo sul latino. I socialisti
richiamavano al realismo, possibilità di concretizzare
quanto più possibile fosse realizzabile; ma i comunisti
erano sempre più convinti che i problemi di fondo della
scuola, con queste legge, non si sarebbero risolti. (Seroni
1962, 1)
Analizzando ancora gli sviluppi sulle considerazioni
dell’insegnamento del latino si può notare come
quest’ultimo non fosse considerato il problema, ma uno
dei problemi attorno a cui ci si interrogava. La
programmazione didattica così come era stata concepita
non garantiva infatti, un accrescimento didattico e
pedagogico per gli alunni della scuola dell’obbligo. La
soluzione che si prospettava tra le file comuniste,
espressa nella rivista di partito, era la seguente: “Ci
sembra insomma che questo problema anche dall’articolo
citato di Codignola: e che gran parte della
soddisfazione del parlamentare socialista per il
compromesso raggiunto derivi proprio dal non aver visto
questo lato del problema.ʺ(Seroni 1962, 1)
Gli specialisti del settore, pedagogisti in particolar
modo, si erano espressi sulle questioni della media
unica durante lo svolgimento del VI Congresso Nazionale
di Pedagogia che si svolse tra il 21 e il 24 ottobre
1962. Le forze politiche si dovevano sforzare di dare
una struttura comunitaria alla scuola. Infatti
“l’esigenza comunitaria spinge[va] a richiedere che la
nuova scuola media serv[isse] a orientare i ragazzi sui
problemi del presente, che in funzione di questo
orientamento [venissero] sviluppati gli aspetti
umanistici dell’educazione secondaria, ma che tutto per
essa cospir[asse] a sviluppare la creatività e le
capacità razionali e di collaborazione democratica degli
alunniʺ. (Borghi 1962, 459) A queste valutazioni di
natura pedagogica se ne opponevano altre di natura
politica che inquadravano la riforma come un banco di
prova per testare la solidità del centro-sinistra.
Entrambe le considerazioni si compenetravano
vicendevolmente giungendo alla fine a un risultato
ibrido che aveva bisogno di ulteriori ritocchi. I
rapporti tra i socialisti e i democristiani non si erano
attenuati nemmeno con l’avvento al soglio pontificio di
Giovanni XXIII il quale non poteva ancora mitigare le
parti per giungere a un accordo riguardo l’istruzione e,
in special modo, sul latino. Questo aspetto era
ampiamente testimoniato dalla visione della rivista
gesuita “La Civiltà Cattolicaʺ che si mostrava poco
incline a un dialogo con le forze della sinistra
moderata. Il confessionalismo gesuita mirava al
riconoscimento di finanziamenti alla scuola privata da
parte dello Stato. A conclusione delle nostre
considerazioni va riconosciuto che l’impegno delle
riviste di settore fu molto elevato e consentì di
approfondire il tema, così come spiega dettagliatamente
Coén (1962), attraverso la compilazione di questionari
sia da parte degli alunni che dei docenti per arrivare a
comprendere le impressioni, ma soprattutto le
aspettative che potevano scaturire dall’avvento di
questa nuova riforma della scuola media.