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Affari di cuore

Leggere i versi del poeta Paolo Ruffilli nel suo omaggio a Eros intitolato Affari di cuore significa essere catapultati nel corpo come se non ci fossimo mai stati e non l’avessimo abitato veramente prima.

Il desiderio manifesta il suo volto senza veli o infingimenti. La silloge può definirsi pagana, con tutto quel che l’aggettivo porta con sé di intensamente vitale, istinto consumato, resuscitato di continuo. A ciò si aggiunge la cultura raffinata che sottende i versi fluidi e scorrevoli, le rime sapienti sembrano baciare gli anfratti della pelle e rincorrere la geografia del soma, anzi del corpo-anima. Cultura che rivaluta il nostro involucro di carne, mai soltanto buccia, anzi non certo tale.

Nella brama insaziabile che succhia e spreme, nel manducare l’altro come un frutto, nel sapere dovere-volere attendere e piegarsi alla resa, nel darsi in toto come “un italiano disposto a tutto”, ecco emergere il profilo dell’amante, mito platonico come appare nel Convivio: Eros demone figlio di Penuria, la povertà dell’esistere, Eros compendio di tutto ciò che in noi vuole essere ma ancora non è e forse mai sarà, e nel partner trova conferma e specchio. Anche rifiuto. Lo spasimare infatti non cessa di transitare nei luoghi della privazione e dell’insufficienza, anche quando la sazietà è stata, in apparenza, felicemente raggiunta: “E nell’ingurgitare | lì ho sentito | che mangiando | andava gonfiando | l’appetito.”

Il demone non può che bruciare.

Non è bello Eros secondo Platone, vive per le strade e dorme nella polvere, sempre in ricerca e sempre un po’ dannato, in “guerra” necessaria per l’emergere della vita. Platone-Ruffilli dunque, non nello schema trito dell’amore dedito all’astinenza e allo “spirito” insostanziale, bensì l’immagine del maestro filosofo, e per accostamento del poeta, devoto verso la grazia e la bellezza. Sebbene l’autore sia calato nella totale modernità, è l’eternità del mito a riemergere nelle sue pagine con dirompente e vera sostanza.

Adorare Venere. Mi sembra questo il verbo più adatto per sintetizzare un denso libro di piacere e malinconia, la malinconia dei libertini settecenteschi, capaci di rincorrere l’attimo, il battito sincopato del respiro, esperti nel praticare la galanteria e la voluttà come stile di vita, nel sottinteso costante vuoto. Se manca un corpo, una rassicurazione tattile, visiva, reale o sognata, ma pur sempre imago di un corpo desiderato senza sosta, il vuoto, più volte citato, appare in Ruffilli quale elemento conturbante, sembra essere anzi poetica sottilmente dominante, che soggiace al pieno dell’abbraccio.

Vuoto, intuito come altro volto del mito: è sempre Eros, il primo dio, che nasce dal Caos e dalla Notte, secondo un’altra versione del genio greco dai multiformi significati. Eros ha dietro di sé un mistero abissale, una voragine personale e cosmica inesplorata dalla ragione ma sentita, vuoto come profondo Essere-non essere precedente il primo fiat, temuto e pure agognato in quegli ”a fondo” del gioco amoroso nella cavità del corpo femminile. Vuoto psichico e mentale nel perdersi di “lei”.

Sarà per il vuoto metafisico sfiorato che la conquista di Eros non è mai tale, né mai tale è veramente la sconfitta. Siamo tutti figli della notte e del caos primordiali. La passione costituisce il ritorno all’origine, è ontologia, trovarsi senza mai trovarsi definitivo, se non per un attimo. E poi via “nel punto che è | senza più futuro | di stare | per ridursi assente | dentro il suo spremuto…”

“e non si aspetta niente” quando “l’amore ormai cosciente” sa di esistere per esistere, oltre e al di là di ogni contingenza o risultato.

Recensione
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