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L’isola e il sogno

Non è facile e neppure usuale coniugare il romanzo storico a quello di natura spirituale. Con quest’ultimo termine dobbiamo intendere la capacità e l’intento di uno scrittore di intraprendere un cammino legato alla ricerca interiore, evolutivo per la coscienza e l’autocoscienza. Vi riesce egregiamente il Manzoni, offrendo al lettore nei suoi Promessi sia l’affresco storico sia le grandi figure di frate Cristoforo e dell’Innominato, portatrici di messaggi non unicamente religioso-confessionali ma di natura etico-esistenziale, figure universali.

Anche Paolo Ruffilli si attesta su tali percorsi, possiede le risorse per raccontare e rivisitare la Storia e indagare anche nell’anima. Storia del Risorgimento Italiano e della proclamata unità nazionale, questo romanzo, attraverso la vicenda di Ippolito Nievo e la sua tragica fine prematura. Storia con luci e ombre, manovre politiche e diplomatiche, bassezze e meschinità (il mondo non è mai cambiato!) accanto all’eroismo dei garibaldini e dei patrioti, fra i quali spicca senza dubbio Ippolito, con la sua purezza e “verginità” politica, idealista certo non adatto ad intraprendere la carriera pubblica, pur possedendo nerbo, coraggio e dedizione, volontà e idee chiare. Parafrasando Nietzsche e il suo “umano, troppo umano”, potremmo dire dell’eroe di Colloredo: onesto, troppo onesto.

In contemporanea e oltre a quanto riassunto, Ruffilli si cala felicemente nel personaggio amato e prescelto, immaginando e individuandone le pieghe psicologiche, i conflitti segreti, la risposta, le relative risposte individuate dall’uomo e scrittore risorgimentale, partito anch’egli da Quarto e approdato in Sicilia con i Mille. Ruffilli ci consegna monologhi interiori magistrali che serpeggiano in ogni pagina, frammisti a descrizioni di paesaggi da sogno, pregni di odori afrodisiaci, luci e colori palermitani, siamo nella “città felice”, tanto cantata e omaggiata da Dumas.

Anche Ippolito ne subisce il fascino, si lascia assorbire lentamente e non senza una certa resistenza da voluttà epicuree e paganeggianti, dall’inno alla vita come essa è, accettata in toto dalla sapienza di un popolo antico, capace ancora di insegnare, con la sua semplice adesione all’attimo, al fluire. Ippolito non riesce a farlo, prigioniero com’è di una diversa educazione, legato ad un amore impossibile, decisamente edipico, per la moglie di suo cugino, la tenera e dolce Bice Melzi d’Eril. Ma nel suo secondo e fatale viaggio nell’isola, con il quale si aprono le pagine mirabili del romanzo, dall’approdo nel golfo di Palermo in poi Nievo diviene inevitabilmente consenziente, parte di un mondo nuovo per lui, fino a naufragare nelle braccia di Palmira, figura dalla vita avventurosa e umiliante, rapita dai pirati nell’infanzia, già schiava e liberata da un vecchio barone di lei innamorato. Donna di strepitosa bellezza venusiana, figlia dell’eterno attimo, pieno e totale, senza scoramenti o depressioni in agguato. Fra i due giovani scoppia la passione, vero oggetto e protagonista autentico del romanzo. Così come tutti diciamo essere protagonista, per Manzoni, la Provvidenza.

Che la passione sia carnale e anche percorso formativo, quindi spiritualità, Ruffilli l’aveva già indicato nei suoi precedenti racconti d’amore. È proprio la passione a costituire il sogno e “l’altra vita”, situata in una zona atemporale – nel tempo qui di brevissima durata, quindici giorni appena, ma memorabili e addirittura risolutivi - nell’isola saracena e normanna, borbonica nella lenta e apatica amministrazione. Il Sovrintendente Nievo dovrà tornare solo al suo Nord, riferire ai Piemontesi sulla gestione garibaldina. Ma con quale animo? Con quale inguaribile nostalgia, pur anelando a rivedere Bice?

Il destino risolve gli enigmi per noi. La nave del ritorno colerà a picco, durante una bufera descritta con la giusta misura di un dramma cupo non evitabile. L’equipaggio viaggiava in una carretta del mare, fatto non accettabile da alcuno Stato moderno e responsabile. Altri erano allora i problemi dell’Italia nascente, e altri gli intrighi…

Magnifica la figura del capitano lupo di mare fattosi legare al timone, saldo nel dovere e nell’onore.

Materia di meditazione l’incontro con la morte, già annunciata in un primo scampato naufragio toccato a Nievo nella prima gioventù, nell’isola di Grado, raccontato con accenti veridici. Una morte conclusiva, ultima e veritiera risposta, temuta e poi vissuta nell’abbraccio di essa, portatrice di coscienza riunificata con il Tutto, nella luce extra terrestre.

Se l’essere umano abbisogna, da Adamo ed Eva in poi, di riconciliarsi con la caducità e con l’evento essenziale dell’esistenza, la sua morte, pari d’importanza alla sua nascita; se abbiamo da riscoprire la preziosità di esserci, e la necessità di finire, e di sapere in qualche modo di essere eterni, ecco un romanzo capace di dire, con accenti visionari, estremamente parlanti, come fare ad entrare nel mistero.

Recensione
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