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C’è qualcosa nel dolore degli altri

Pánta rhêi, ovvero «tutto scorre», è il celebre motto attribuito al filosofo Eraclito, anche se si sostiene che in realtà tale espressione di tanta parte del suo pensiero speculativo, sia da ricercarsi nelle capacità di sintesi del suo discepolo Cratilo, che sviluppò, estremizzandolo, il pensiero del maestro.

In effetti Maria Leonardi, laureata in filosofia e impiegata presso la casa editrice Nottetempo, vive nella consapevolezza del tempo quale fiume eracliteo: “un passero sul davanzale | viene a dirmi | che tutto passa | e che il passare è infinito”, forse ironizzando sulla radice del sostantivo e conferendo al piccolo e gentile volatile, investitura di messaggero cosmico.

Ne consegue per l’autrice una reazione quasi iperbolica e poggiata sul non-senso di un rifugio dalla disperazione che ella individua nell’unico luogo che sembra darle requie, che pare non assegnarle alcuno scopo né predestinazione esistenziale, ignorandola quale microscopica forma di vita dissolta nelle sue immensità e per questo concedendole il lusso di non essere giudicata secondo l’invereconda ottica umana del successo-fallimento, quel mare che: “è la mia ancora | in questo marasma continuo | dove tutto sbatacchia || al mare non serve una mia rotta | al riparo di quella immensità | qualsiasi naufragio si disfa”.

La dimensione poetica della Leonardi sembra proiettarsi verso l’esterno, se non altro quale mezzo di indagine e paragone rispetto a se stessa, forse alla ricerca di parametri, di àncore: “c’è qualcosa nel dolore degli altri | che strappa | un ciuffo d’erba via | dal mio giardino”, induce a credere ad una sorta di enpatia antropologica, un legame che genera interdipendenza e lega ogni essere umano da un senso di comunanza e condivisione delle esperienze.

Tuttavia poi questo concetto pare arenarsi nel sottocosta delle intenzioni, per lasciar spazio a riflessioni più consuete circa un legame interpersonale interrotto: “la tua morte, con i suoi per sempre, | ha inserito nel ritmo | potenti sfasature”, che diviene perno cosmologico nel cui intorno roteano eventi e sentimenti individuali alla deriva, come cavalli in giostra che lottano per non essere scagliati lontano dalla forza centrifuga: “ho già rimparato a far la spesa | ma quando torno a casa e metto a posto | le cose dai sacchetti | non è più mio quell’ordine | eseguo solamente”.

Emerge una sorta di proposito, una traccia da seguire rafforzata dal volitivo “dovere”, quasi fosse un obbligo morale, per non smarrirsi nel bosco delle fiabe tristi, per segnare il cammino con le briciole di pane: “l’affanno di ogni formica | devo lasciarlo all’occhio | che misura le cose | con il metro più corto || quando l’aquila compie il suo volo | il tempo resta fermo a bocca aperta”.

Queste poche liriche, peraltro ben confezionate entro una plaquette su cartoncino ruvido e avoriato, impreziosita da un’azzeccata illustrazione, minimalista e stilizzata, di Michiel Blumenthal, non consentono un’esegesi troppo approfondita.

Tuttavia colgono una stella alpina tra le “asperità smussate” del linguaggio, talvolta non particolarmente connotato, in alcuni versi svolti in successione rapida ed efficace, ove l’intenzione felicemente si sposa con l’espressione lirica, concretando nel lettore un solido effetto emozionale, non disgiunto da un certo appagamento estetico ed intellettuale: “i nostri occhi | si sono scontrati | in stazione | come lampi || nient’altro da toccare || e le parole erano solo aria | senza quegli occhi che si lavavano | gli uni negli altri | via le oscurità || e le parole erano troppo ordinate | per la perplessità di ciglia | che ricamavano aperture sottili | o camere segrete || e quel verde-quasi-giallo si posava | su un celeste-quasi-grigio che cercava | nelle nuvole lente | un po’ di spuma | da posare sulla tua fronte | ingarbugliata | e su queste | mie palpebre | ormai asciutte”.

Il ricordo di un compagno, di quell’”altra me” che “sta accanto al pescatore, con la testa | sulla sua spalla antica | impara l’andante e il mosso delle onde | l’oscillare dell’asciutto e del bagnato” e poi attende “il battito della coda d’un pesce, | uno stupore nuovo”, ci dice di come talvolta la pianta della vita, recisa per talea, tenti l’innesto nel terreno, per scindere il dolore, e la personalità che lo contiene, in parti tollerabili.

Purtroppo “ci sono | cose che neanche gli gnomi | dovrebbero sapere | cose che sapute | devastano la forma del reale”, e la poetessa ne sa qualcosa: “ho lasciato la spina dorsale | su quella panchina ghiacciata | è lì, che regge l’urto | inchiodata a esercitare | la sua ragion d’essere | e di essere felice”.

Sono versi che trovano la loro possanza in quel corpo molle che, per sottrazione, ci si prefigura si sia poi, in qualche modo e contro natura, dovuto alzare dal suo traumatico Golgota spazio-temporale, nonostante fosse stato privato della sua colonna vertebrale, qui forse con riferimento metaforico al compagno-simbionte.

La visione filosofica della poetessa, è tanto semplice quanto destabilizzante, in quanto ella ritiene la felicità esser ragion dovuta per ogni creatura, e da qui in avanti lo iato non può che farsi incolmabile, contrariamente a ciò che potrebbe essere se lo scopo che noi prefiguriamo all’orizzonte delle nostre esistenze, fosse rappresentato dalla cinica frase di Jack Keruac: “Tutto sommato l'unica ragion d'essere della vita oppure di una storia è "cosa succede dopo?", sgombrando il campo da ogni velleità spiritual-evoluzionistica.

“Ostinata continuo a volere | che l’eternità si vesta di abiti | ma non ha un corpo | non posso misurarla”, sembra essere, in chiusura di silloge, un appropinquarsi verso la razionalizzazione dell’irrazionalità dell’esistenza, che culmina sempre e comunque, com’è umano che sia, in una sorta di morale, di obbiettivo: “io mi affaccio sul poco | che sta sotto alla finestra | e quel poco mormorante ora mi dice | “sono la tua buona stella”.

Una poesia che stimola, nonostante lo spazio contratto della sua rappresentazione breve, molte riflessioni.

Recensione
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